Toh, chi si rivede, Mani Pulite.

Tra le crisi di mezza età ce n’è sempre una che ti spinge a entrare in quel vecchio garage dove da decenni ammucchi oggetti che non ti servono — “ma magari, un giorno, chissà” — a spostare casse piene di Sound Blaster 16, lettori ZIP SCSI e altri fossili dell’età digitale, fino a scoprire in fondo un motorino impolverato. Con un paio di gomme nuove e una bella ripulita, scommetti che potrebbe ancora partire. È una sindrome tipica dell’invecchiamento: girare per le strade su un Malaguti Fifty, evidentemente, può restituirti almeno l’illusione di sentirti giovane. Forse.

Immagino sia più o meno con questo spirito che qualcuno ha deciso di rimettere in piedi l’ennesimo Circo Mani Pulite, stavolta in versione 2025. Anni fa scrissi che Mani Pulite era emersa nel momento in cui i governi dell’epoca avevano cominciato a discutere — con una certa insistenza — della responsabilità civile dei magistrati, specie dopo il referendum del 1987 promosso dai Radicali, che abrogò la norma secondo cui i magistrati non rispondevano mai, di fatto, dei loro errori giudiziari.

Quel referendum fu seguito dalla legge Vassalli del 1988, che regolava sì la responsabilità civile, ma in termini estremamente blandi, quasi simbolici.

Nel frattempo, entrava in vigore un nuovo Codice di Procedura Penale (24 ottobre 1989), presentato come una riforma modernizzante e garantista. Peccato che molte toghe — anche della Cassazione — lo bollassero come “ipergarantista”, quindi inefficace sul piano operativo. E infatti, con l’arrivo di Mani Pulite, quel codice fu snaturato nella pratica, sotto lo sguardo complice dell’opinione pubblica, trasformando l'eccezione in metodo.

Tra i temi che si discutevano prima del ciclone Tangentopoli — la prima stagione, quella con Di Pietro e i fax — c’era anche la storica questione della separazione delle carriere tra PM e giudici. Già allora qualcuno si chiedeva se fosse normale che chi indaga e chi giudica appartenessero allo stesso ordine, pranzassero nella stessa mensa e andassero in ferie con lo stesso CSM.

Poi è arrivato il diluvio. Tangentopoli ha travolto tutto, e come spesso accade in Italia, la riforma è finita sotto il tappeto, insieme ai decreti attuativi mai approvati e alle bozze dimenticate, scritte con penna Bic e poca convinzione.

E guarda un po’: oggi, nel 2025, quel tema ritorna. Con tanto di riforma della Giustizia in corso. Che coincidenza sorprendente! Proprio mentre a Milano decolla una nuova inchiesta dal sapore amaramente familiare: stesso tono moralizzatore, stessa chirurgica puntualità, stessi riflessi pavloviani della politica.

A volte sembra che la giustizia italiana funzioni come un motorino d’epoca: si accende a intermittenza, ogni trent’anni, sempre nello stesso garage, e sempre per lo stesso identico tragitto.

Non c’è da stupirsi, dunque, se mentre tornano di moda i vecchi cavalli di battaglia — separazione delle carriere, responsabilità dei magistrati, riforma della giustizia — parte puntuale l’ennesima operazione in stile “Mani Pulite”. Il Malaguti Fifty è ripartito. E pare che stavolta abbia pure il pieno.


Se si leggono bene i giornali, le “accuse” sembrano il solito romanzetto diffamatorio che certi PM amano scrivere — e far circolare a mezzo stampa — più per effetto scenico che per sostanza penale. Ma stavolta manca lo smalto: niente intercettazioni da rotocalco, niente paginate di sadismo mediatico, nessuna gogna in prima serata. È tutto più fiacco, più timido. E la ragione è fin troppo ovvia.

Il Comune di Milano è saldamente in mano alla sinistra, la Regione in teoria al centrodestra (più o meno), e un’inchiesta seria sul mondo dei grandi costruttori — sviluppata proprio nel cuore di Milano — difficilmente lascerebbe qualcuno illeso. Troppo alto il rischio di far male “agli amici degli amici”. E quindi il motorino parte, sì, ma stavolta con il freno a mano tirato.

E il problema non finisce qui. Oggi è persino difficile usare la carcerazione preventiva come forma di tortura psicologica per estorcere confessioni — metodo non dichiarato ma ampiamente praticato durante la prima stagione di Mani Pulite.

Lo so già: adesso qualcuno salterà su con il solito ritornello — “Ma tu non sei un giudice!”. E infatti non lo sono. Ma è proprio questo il punto: sono io che lo ricordo a quelli che, in preda a un sadismo da sottoscala, si fiondano con entusiasmo nel linciaggio morale e nella character assassination altrui.

Io non sono un giudice. Voi non siete giudici. Ma per quanto mi riguarda — e per Costituzione — ho pieno diritto di considerarli innocenti fino a sentenza definitiva. Voi, invece, no: non avete il diritto di proclamarli colpevoli su Facebook o Twitter solo perché vi fa sentire integerrimi in salotto. Ops.

E veniamo al cuore della questione. Perché, a leggere bene gli atti, la verità è semplice e quasi disarmante: gli imprenditori che volevano costruire cose avevano il sostegno di politici che rendevano quelle opere possibili. Come? Cambiando i regolamenti, modificando i piani urbanistici, semplificando le procedure. Tradotto: facendo politica.

E qui bisogna decidersi. Seriamente.

– Quando parliamo di opere pubbliche necessarie ma bloccate da leggi obsolete, regolamenti assurdi o burocrazia pachidermica, tutti a lamentarsi del “Paese che non funziona”. Si invoca la semplificazione, si pretende la rimozione dei lacci, si chiede a gran voce di sbloccare tutto.

– Ma appena quelle stesse opere partono — e qualcuno mette mano a regolamenti e piani per farle accadere davvero — improvvisamente scatta il riflesso pavloviano dell’indignazione. Si aprono le indagini. Si grida allo scandalo.

Francamente, finora non ho visto nulla di illegittimo in quello che è stato fatto. Sala e la sua giunta avevano (e hanno) in mente un programma chiaro: ridisegnare la skyline milanese, trasformare il volto edilizio della città. Possiamo essere d’accordo o meno, possiamo criticarlo nel merito, ma questo è un tema politico, non penale.

Semmai la domanda da porsi è un’altra: dove sono stati, finora, i partiti? Quelli di opposizione, quelli in aula, quelli nei consigli di zona. Perché non hanno fatto battaglia pubblica su questo piano? Perché non ne hanno discusso, contrastato, proposto alternative?

Perché — stabilito che riempire una città di nuovi palazzi può essere una legittima scelta politica — non si capisce dove stia lo scandalo se sindaco e giunta, d’accordo con chi quei palazzi li costruisce, cambiano le regole per realizzare ciò che è scritto nel loro programma. È politica, non reato. A meno che oggi fare politica sia diventato, di per sé, un’aggravante.


E poi, ovviamente, parte il capitolo più classico: quello del denaro. Perché si sa, lo “sterco del demonio” funziona sempre. Appena tiri fuori la parola “soldi”, l’indignazione prende fuoco da sola. Funziona anche se i soldi non si vedono.

Perché, ad oggi, non è stata sequestrata né recuperata nemmeno una lira — pardon, un euro. Non un bonifico, non un contante occultato, non un conto offshore. Eppure si parla già come se avessero trovato il bottino sotto il letto.

Ma questa non è una novità. È un déjà vu. Durante Mani Pulite successe la stessa identica cosa. Si parlava di tangenti miliardarie, di bustarelle, di corruzione sistemica. Le procure facevano conferenze stampa con slide coloratissime, numeri sparati a casaccio, schemi da film poliziesco.

Poi, però, nei processi e nei bilanci, quei soldi sparivano. Evaporavano. Restavano “da qualche parte”.

Prendiamo il caso Craxi: si è detto per anni che avesse “rubato” cento miliardi di lire — cifra colossale, buona per indignare chiunque. Ma quel famoso “tesoro di Craxi”, da cento miliardi, non è mai stato trovato. Si è parlato, speculato, fantasticato… ma la sostanza non c’era. O meglio: non c’è mai stata. È rimasta leggenda metropolitana, utile al racconto, ma priva di fondamento contabile.

È il solito schema: si lancia la cifra choc, si gonfia l’indignazione, si cementa il pregiudizio. Poi, però, quando arriva il momento di fare i conti veri — in aula, davanti ai giudici — il denaro scompare come un coniglio nel cilindro.

E intanto, noi, ci raccontiamo l’ennesima storia.

E la questione di ritrovare il denaro non e' secondaria. Se parli della cosa, devi farmi vedere che la cosa esiste, non solo come slide ad un processo, poi finita alle stampe per esercitare pressioni, tramite character assassination.


Inchiesta Urbanistica Milano 2025 – “Mani Pulite 2.0”: le accuse in sintesi

  1. Sistema di corruzione urbanistica
    Presunto “Milano system”: rete collusiva tra politici, tecnici e costruttori per velocizzare pratiche edilizie, aggirando vincoli paesaggistici e normativi.
    📌 Possibili reati:

    • Corruzione per l’esercizio della funzioneArt. 318 c.p.
    • Corruzione propriaArt. 319 c.p.
    • Concussione/Induzione indebitaArt. 319-quater c.p.
    • Abuso d’ufficioArt. 323 c.p. (attualmente inutile per la riforma Cartabia)
  2. Corruzione e induzione indebita
    Coinvolti nomi noti:

    • Manfredi Catella (Coima) e Giancarlo Tancredi (assessore) – richiesti domiciliari.
    • Giuseppe Marinoni e Stefano Boeri – indagati per corruzione e falso ideologico.
      📌 Reati contestati:
    • Corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficioArt. 319 c.p.
    • Falso ideologico in atto pubblicoArt. 479 c.p.
    • Induzione indebita a dare o promettere utilitàArt. 319-quater c.p.
  3. False dichiarazioni
    Beppe Sala indagato per presunte false dichiarazioni e interferenze nella nomina di Marinoni.
    📌 Reati ipotizzati:

    • Falso ideologico del pubblico ufficialeArt. 479 c.p.
    • Abuso d’ufficioArt. 323 c.p.
  4. Speculazione edilizia accelerata
    Progetti come Porta Nuova, Scalo Romana e Park Towers sarebbero stati spinti con procedure agevolate, a scapito della trasparenza.
    ❗ Nota: “Speculazione edilizia” non è un reato di per sé, ma può implicare:

    • Abuso d’ufficioArt. 323 c.p. – oggi inesistente.
    • Corruzione urbanistica (di fatto) → combinazione di artt. 319 e 323
    • Turbata libertà del procedimento di scelta del contraenteArt. 353-bis c.p. (se ci sono gare/manipolazioni)
  5. Reati contestati (ufficiali)

    • CorruzioneArt. 318-319 c.p.
    • Falso ideologicoArt. 479 c.p.
    • Induzione indebita a dare utilitàArt. 319-quater c.p.
    • (Possibili ipotesi di abuso d’ufficioArt. 323 c.p.)
  6. Misure cautelari e perquisizioni

    • 74 indagati
    • 24 perquisizioni
    • 6 richieste di arresti domiciliari (Catella, Tancredi e altri)

Ora, se togliamo l'abuso di atto d'ufficio, che come reato non esiste piu', scopriamo che i reati consistono tutti nella presunta corruzione/concussione, quindi sono girati molti soldi.

Dove sono questi soldi? Li hanno trovati? La risposta e' che no, se chiedessimo ad uno dei magistrati di mostrare questi soldi, che saranno (o dovrebbero essere) stati sicuramente sequestrati, non si vede una lira.

Come nel caso di Craxi. Ha rubato cento miliardi. Bene. Dove sono? Non si sa. Ma c'erano, eh. Me lo ha detto Arturo.


Quello che resta visibile, al netto del clamore, è una lunga sequenza di provvedimenti con cui il Comune ha approvato — spesso al limite delle interpretazioni normative, ma pur sempre entro i margini — un piano edilizio che avrebbe dovuto essere discusso come tema politico, non trattato come una questione penale.

Non vi piace la nuova urbanistica di Milano? Legittimo. Ma quella visione di città era parte integrante del programma elettorale del sindaco, ed è passata attraverso il voto del consiglio comunale. Non era un colpo di mano notturno: era politica deliberativa, in aula.

Allora la vera domanda è: dov’era la politica quando queste presunte nefandezze venivano approvate a maggioranza? Dove erano i partiti, le opposizioni, i comitati, i professionisti del “no a prescindere”? Silenzio. E oggi, con comodo, si bussa alla porta della Procura.

In realtà, se vogliamo ridurre tutto a sintesi, le accuse sostanziali dell’inchiesta sono tre — ed è bene nominarle per quello che sono:

-Che siano stati versati soldi o offerte utilità per fare cose già previste dal piano comunale, cioè per ottenere appalti e iter più rapidi. Come se oggi si pagasse qualcuno per fare ciò che è già stato deciso politicamente. Sì, sembra assurdo anche a dirlo.

E allora? È questa l'accusa? Che il Comune, unito a chi costruisce, abbia tentato di realizzare un piano approvato dal Consiglio comunale cercando di rimuovere gli ostacoli assurdi di un apparato ipertrofico? Ma non era proprio questo che la politica prometteva da anni sotto l’etichetta “semplificazione”? Anche nelle accuse che sembrano più “serie”, appena ci si avvicina alla sostanza, qualcosa non torna. Si dice che l’azienda B sia stata favorita. Bene. Ma rispetto a chi?

Chi era in gara con B? Chi è stato escluso, danneggiato, scavalcato? Qual è l’impresa A che avrebbe dovuto vincere ma non ha vinto, e perché? Vogliamo davvero parlare di favoritismi? Allora servono danneggiati reali, non ipotesi astratte. E se davvero qualcuno è stato danneggiato, dov’è la sua causa? Dov’è la richiesta di risarcimento? Si farà avanti? Denuncerà? Oppure no?

Ancora una volta, si parla della cosa, ma non si vede la cosa.

Non si vedono i soldi delle presunte tangenti, eppure si grida alla corruzione. Non si vedono le aziende escluse o truffate, eppure si parla di appalti truccati. Tutto si regge sull’aria: suggestioni, congetture, schemini su carta, ma zero prova del danno reale.

È un po’ come accusare qualcuno di rapina senza mostrare la refurtiva, né la vittima. Bella storia. Ma non è un processo: è narrativa.


💶 Il sequestro dei 120.000 €: una “prova” che non lo è

E qui torniamo, inevitabilmente, allo sterco del demonio.

Finora, nell’intera inchiesta, l’unica somma effettivamente sequestrata ammonta a 120.000 euro in contanti, trovati in una cassetta di sicurezza. Una cifra non banale, certo, ma che non rappresenta affatto una prova di reato. E la legge lo conferma.

Secondo i magistrati, quel denaro sarebbe una “prova concreta”, perché è stato rintracciato e sottratto alla disponibilità dell’indagato. Ma c’è un dettaglio fondamentale:
“Resta da comprendere la provenienza e la finalità precisa”.

Questa frase, messa nero su bianco dagli inquirenti, è un’ammissione esplicita: non sanno da dove vengano quei soldi, né a cosa servissero. Non sanno se siano frutto di un reato, o se fossero destinati a commetterne uno. Non c’è un nesso causale, né oggettivo né soggettivo, tra il denaro e un comportamento penalmente rilevante.


Parentesi. Cosa dice la legge?

Art. 253 CPP – Sequestro probatorio

“Quando vi è fondata ragione di ritenere che cose pertinenti al reato possano servire per l'accertamento dei fatti, è disposto il sequestro.”

👉 Ma: il denaro sequestrato deve essere “pertinente al reato”. Se ancora non si sa da dove proviene né a cosa servisse, non è pertinente.

Art. 321 CPP – Sequestro preventivo

“Il giudice può disporre il sequestro di cose [...] quando vi sia pericolo che la libera disponibilità possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati.”

👉 Anche qui: serve almeno un fumus di reato già delineato. Se il reato non è certo e il denaro non è collegato ad atti illeciti, il sequestro ha valore solo cautelativo, non probatorio.

Art. 240 CP – Confisca

“È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.”

👉 Per arrivare alla confisca serve una sentenza, e la dimostrazione che quel denaro sia il prodotto o il profitto di un reato.


⚖️ Conclusione

Il sequestro dei 120.000 € è, tecnicamente, una misura cautelare reale, non una prova. Lo diventa solo se, e quando, si riesce a dimostrare:

Fino ad allora, è un sospetto materializzato in banconote, nient’altro.

E se basta avere 120.000 euro in una cassetta per trasformare il sospetto in colpevolezza sociale, allora siamo tornati a un diritto penale d’intenzione — quello che punisce non ciò che hai fatto, ma ciò che si immagina tu volessi fare.


Secondo la logica di quest’inchiesta, basta ipotizzare il reato di corruzione perché qualsiasi somma in contanti trovata in possesso dell’indagato venga automaticamente trattata come prova del reato stesso. Anche se quel reato, a rigore, esiste solo se e quando le prove sono già state raccolte.

È un rovesciamento del principio giuridico fondamentale: qui il reato non emerge dalle prove — sono le prove che vengono “create” dal reato ipotizzato.

In pratica:

– ipotizzo che tu sia corrotto, – trovo del contante di cui non so spiegare l'uso criminale – dichiaro che il contante conferma l’ipotesi.

Circolo perfetto. Reato perfetto. Nulla da dimostrare.

Con questo metodo, chiunque può essere accusato di corruzione, a patto che si sappia — o si presuma — che da qualche parte abbia una cassetta di sicurezza o una riserva in contanti. A quel punto, il romanzetto diffamatorio è pronto: lo si scrive, lo si diffonde sui giornali, lo si dà in pasto all’opinione pubblica. Poi basta una perquisizione, una cassaforte, una mazzetta da 1000 euro ed ecco servito il teorema giudiziario confezionato per la stampa.

È la giustizia al contrario: non si cercano le prove di un reato, si cerca un reato per legittimare il sequestro di qualcosa che si spera diventi una prova. Una dinamica che, se non viene fermata, può colpire chiunque — e qualsiasi cosa.


Funzionerà? Onestamente, sono scettico. Certamente riempirà le prime pagine dei giornali estivi, fornirà materiale per talk show e indignazioni prêt-à-porter, ma — a differenza della prima Mani Pulite — qui alcune cose sono cambiate. E non poco.

Primo: gli imputati sono agli arresti domiciliari. Non in carcere. Nessuno in isolamento. Nessuno nella cella buia di San Vittore ad aspettare la chiamata del PM. E allora sorge spontanea la domanda: se davvero si temeva la fuga, l’inquinamento delle prove o la distruzione del denaro, perché tenerli in casa, col cellulare sequestrato ma la mente lucida? Sono gli stessi che — secondo la narrazione dell’accusa — trafficavano contanti, gestivano pratiche, conoscevano ogni cavillo. Eppure oggi sono liberi di riflettere, leggere, consultare i loro legali con calma. Un po’ strano, no?

Secondo punto, e ancora più importante: non esiste più la leva della carcerazione preventiva come forma di pressione psicologica. Durante Mani Pulite, la strategia era semplice quanto brutale: metterti in cella, isolarli, farli marcire per settimane. E poi, lentamente, offrirti una via d’uscita: collaborare. Confessare. Accusare altri. Far parte del teatrino. Era il metodo Di Pietro: confessione sotto tortura, verità in cambio di libertà.

Oggi no. Oggi — per fortuna — questo meccanismo è molto più difficile da mettere in atto. E se non puoi stritolare gli indagati per ottenere il “racconto giusto”, il castello si regge solo su intercettazioni, ipotesi urbanistiche e interpretazioni creative dei regolamenti.

Ed è proprio per questo che questa “presunta Mani Pulite” rischia di sgonfiarsi. Non in un’esplosione, ma in un lento svuotamento: un procedimento che finirà per produrre una manciata di multe ridicole, per qualche violazione secondaria del piano regolatore o di qualche norma urbanistica interpretata “al contrario”.

Un gran rumore per una pratica edilizia. Un altro motorino che sbuffa e si spegne prima della salita.

⚖️ Mani Pulite (1992) vs “Mani Pulite 2.0” (2025): il confronto che nessuno vuole fare

Aspetto Mani Pulite (1992) Mani Pulite 2.0 (2025)
Contesto politico Fine della Prima Repubblica, crisi sistemica Città in crescita, giunta stabile, clima post-pandemico
Obiettivo dichiarato Estirpare la corruzione sistemica nei partiti Smantellare un presunto sistema di favori urbanistici
Metodo operativo Arresti immediati, isolamento, confessioni in cella Arresti domiciliari, perquisizioni, nessun carcere duro
Ruolo della stampa Centrale, amplificazione quotidiana delle confessioni Centrale, ma senza documenti eclatanti o intercettazioni virali
Tipo di accuse Tangenti sistemiche e trasversali Regolamenti urbanistici modificati secondo linee politiche
Prove materiali Confessioni, intercettazioni, assegni, valigette, cash 120.000 € in contanti senza provenienza o destinazione nota
Effetto domino Decine di politici arrestati, caduta di governi, suicidi Nessun terremoto, clima opaco, indagati ancora in carica
Percezione pubblica Scandalo epocale, giustizialismo di massa Curiosità tiepida, sospetto, molta noia
Esito giudiziario Condanne pesanti, ma anche molti processi finiti nel nulla Tutto da vedere — rischio concreto di multe urbanistiche
Strumenti repressivi Carcerazione preventiva sistematica Impossibile replicare, grazie a riforme e tutela diritti
Narrativa dominante Catarsi nazionale, moralismo giudiziario Operetta estiva, moralismo senza pathos
Rischio per i PM Nessuno, impunità totale Con la nuova riforma, possibili richieste di risarcimento

Sullo sfondo, intanto, c’è una riforma della giustizia che — piaccia o meno — passerà in Parlamento. E quando sarà approvata, le vittime di certe “inchieste creative” potranno finalmente chiedere risarcimenti, e chiamare i magistrati alle loro responsabilità. Una prospettiva che, diciamolo, potrebbe spiegare molte cose.

Forse è anche per questo che nessuno è finito in carcere: perché se — come sospetto — l’inchiesta dovesse sgonfiarsi come un gelato al sole, qualcuno potrebbe cominciare a bussare alle porte delle procure con in mano una citazione per danni.

Onestamente, non so se siamo di fronte a un’altra Mani Pulite. Forse sì, forse no. Ma se proprio devo azzardare una definizione, direi che questa sembra piuttosto la serata di chiusura del circo. Il pubblico è distratto, i riflettori tremolano, il tendone scricchiola.

Non ci sarà alcun incendio. Non ci saranno milioni in Svizzera, né carriere bruciate. Si scotteranno di più i magistrati che gli indagati.

Politica a parte. Sempre, ovviamente: Politica a parte.

Uriel Fanelli


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