Sulla burocrazia detta “scuola”.

Ho più volte sostenuto che il vero nodo irrisolto della nascita dell’Italia risieda nel momento in cui i piemontesi, di fatto, invasero il resto della penisola e si accinsero a costruire il nuovo Stato come si amministra una terra conquistata. Con diffidenza sistematica verso gli abitanti, considerati a priori come potenziali rivoltosi, sabotatori o comunque sospetti da tenere sotto sorveglianza.

Se applichiamo questa logica al sistema scolastico, il risultato diventa piuttosto sgradevole. Me ne sono accorto con chiarezza quando, trasferitomi in Germania, ho iscritto mia figlia a una scuola Montessori/Dalton. Sia chiaro: il confronto che propongo non è tra la scuola italiana e quella tedesca — che, a ben vedere, resta anch’essa ancorata a concezioni tutt’altro che moderne — bensì tra la scuola italiana e una scuola Montessori/Dalton, una versione contemporanea del metodo Montessori. Paradossalmente, un modello educativo che, per storia e origine, dovrebbe appartenere all’Italia, visto che Maria Montessori, appunto, era italiana.

Ma, come ho già detto, l’obiettivo — o forse sarebbe meglio dire l’ossessione — dei piemontesi, nel costruire lo Stato, era uno solo: impedire che i fraudolenti italiani, con la loro proverbiale astuzia, potessero fregare o sabotare le istituzioni a fini personali. E se mi volto indietro, osservando la scuola che ho frequentato — e quella frequentata da molti altri italiani — il risultato appare chiaro. Ho passato gran parte degli anni delle superiori a portare ai professori le prove concrete che, invece di andare in camporella o copiare da qualcuno, avevo davvero studiato.

Tutto, in quella scuola italiana (Il Liceo Roiti di Ferrara, per essere esatti) , era pensato e costruito intorno al sospetto. Ricordo ancora lo stupore quando, nella scuola di mia figlia, ho scoperto che non esistevano i “compiti” come li intendiamo noi. Sì, c’erano attività da svolgere dopo l’orario regolare, ma questo presupponeva che la scuola restasse aperta anche nel pomeriggio, con docenti disponibili — a turno — per supportare i ragazzi. Erano compiti? Formalmente sì. Ma se li svolgi a scuola, scegliendo tu stesso il professore a cui rivolgerti per ricevere spiegazioni mentre li fai — in pratica ogni docente “specializzato” resta in un’aula, e sei tu a decidere se andarci o meno, altrimenti puoi optare per un’aula con un docente “pastore”, che si limita a garantire il silenzio — allora il confine diventa sfumato.

Questo è il metodo Montessori/Dalton: responsabilizzare il ragazzo, metterlo al centro. Se ti accorgi di non aver capito qualcosa, sei tu a scegliere di tornare a scuola nel pomeriggio, per rifare i compiti con l’aiuto di chi può spiegarti meglio, mentre lavori sul problema.

Il metodo piemontese, invece, è di tutt’altra natura: un metodo poliziesco. Devi dimostrare. Devi portare prove. Da qui nasce l’interrogazione, un vero e proprio rito inquisitorio, concepito per coglierti in fallo. Del resto, per quale motivo un professore, che ti ha davanti per ore ogni settimana, dovrebbe avere bisogno di un’interrogazione per sapere se hai studiato? Questo mistero lo conoscono forse solo Vittorio Emanuele chissà-quale-numero o, più probabilmente, Giovanni Gentile. Ma il motivo e' semplice: e' una perquisizione del tuo sapere.

Eppure, nel sistema che ho visto qui, le cose funzionano in modo diverso. Non esistono le interrogazioni nel senso italiano. Esiste invece la “partecipazione”. Il docente fa domande a tutta la classe, in modo continuo, e sta a te alzare la mano per intervenire. Se vuole capire quanto hai compreso, tanti alzano la mano ma lui ti chiama direttamente e ti chiede di rispondere. Così, semplicemente, si fa un’idea di quello che sai.


Ovviamente, esistono anche le prove scritte. Ma i compiti in classe, qui, mi hanno davvero spiazzato. A parte il fatto che si presentano sotto forma di questionari con decine di domande aperte — non test a scelta multipla, ma risposte brevi e mirate — ciò che colpisce è il diverso approccio quando si richiede allo studente di produrre un elaborato più complesso. In quel caso, si parla di una ricerca o di un progetto creativo, non del solito tema scolastico alla maniera italiana.

Qui cambia proprio il senso della parola “prova”. In Italia, la “prova” è un atto di difesa: serve a discolparti dall’accusa di fancazzismo, a dimostrare che non hai passato il tempo a bighellonare. Qui, invece, la “prova” è più simile a una sfida: ti si chiede di realizzare qualcosa di interessante, di valore, e poi di presentarlo alla classe.

Non so in che misura questo derivi dal sistema scolastico tedesco e in quale parte sia invece merito (o colpa) del metodo Montessori/Dalton. Va detto, per onestà, che quello di mia figlia era un liceo di provincia — il Liceo di Neandertal, per l’esattezza.

(Precisazione, qui nelle valli di Neandertal tutto si chiama “Neander-qualcosa”, dalla macelleria, alla birreria, alla salsiccia, quindi anche i licei non fanno eccezione.)

Quando sento racconti sui licei tedeschi di città o sulle scuole internazionali, frequentate perlopiù dai figli degli expat, non so mai quanto la differenza dipenda dal metodo Montessori o dal semplice contesto tedesco.


Il nodo centrale, però, è un altro: la scuola italiana si fonda sul professore come controllore, come figura incaricata di verificare che tu abbia faticato abbastanza. Altrimenti non si spiegherebbero i 213 — sì, duecentrotredici: li ricordo ancora, dopo quasi quarant’anni — esercizi di trigonometria che ci assegnarono un lunedì per il fine settimana. Un carico tale da costringerci a restare svegli ogni notte fino a tardi, oppure a organizzarci in cordate per risolverli in parallelo e poi copiarceli a vicenda. Fu la soluzione attuata dalla classe.

Ma cosa si voleva davvero accertare con questa sorta di ordalia matematica? Nulla, in realtà. L’unico scopo era verificare che fossimo disposti al sacrificio, anziche' dei peccatori fancazzisti. Un test che, più che a un percorso scolastico, somigliava a una prova di iniziazione per chi si appresta a immolarsi con una cintura esplosiva carica di coseni e tangenti.

Questa visione burocratica della scuola, dove ogni prova ha lo stesso valore di un atto processuale — ossia serve soltanto a liberarsi dall’accusa implicita di essere dei fannulloni — resta, a mio avviso, una delle principali fonti di disagio del sistema educativo italiano. Non eravamo studenti: eravamo indagati per fancazzismo.

L’iscrizione scolastica non rappresentava altro che l’equivalente di un avviso di garanzia: da quel momento in poi, si apriva ufficialmente un’indagine su di noi. L'accusa era il fancazzismo.


Chi conosce il metodo Montessori avrà già riconosciuto, in ciò che ho raccontato, la componente montessoriana nell’esperienza di mia figlia. A dire il vero, con il carattere “autonomo e piuttosto assertivo “che si ritrova – non capisco proprio da chi abbia preso – dubito che qualsiasi altro approccio scolastico le sarebbe davvero andato a genio. Non ho nulla da ridire sul metodo Montessori/Dalton, quindi.

Ex post, uno dei motivi per cui, ai miei tempi, mi sono ritrovato per anni a essere quel “secchione” che i professori si guardavano bene dal prendere come esempio era proprio l’atteggiamento inquisitorio che regnava nelle aule. Un approccio che, lo ammetto, mi irritava al punto da spingermi verso un ribellismo piuttosto deciso. Quei compiti in classe, più che valutazioni, erano vere e proprie perquisizioni mentali.

Darei ancora oggi un braccio per poter scrivere, su un tema di italiano, una frase simile a questa: «In questo capitolo, Manzoni allunga il brodo solo per vendere più pagine. Non serve assolutamente a nulla quello che scrive, né ha un senso particolare.» Ma, naturalmente, non si poteva. E Manzoni – sia chiaro – continuava ad allungare il brodo — più di una qualsiasi serie Netflix senza idee.

In termini moderni, potremmo riassumere così: I Promessi Sposi potevano tranquillamente essere un’email.

Ma, appunto, che senso ha trascorrere due anni a sezionare un libro? La risposta è semplice: si tratta, ancora una volta, di un sistema costruito per essere facilmente verificabile. Se mandassi gli studenti in biblioteca a scegliere liberamente un libro da analizzare, il professore sarebbe costretto a conoscerli tutti quei libri e, peggio ancora, a valutare con attenzione se l’analisi dello studente abbia un senso. Lo studente SA analizzare un testo qualsiasi, e non solo i Promessi Sposi? Troppa fatica, evidentemente.

Al contrario, imponendo a tutti lo stesso testo, il docente può limitarsi a controllare se l’alunno abbia studiato e ripetuto l’analisi che lui stesso ha sciorinato in classe. Una verifica meccanica, ovvero una burocrazia, di quelle che si fanno per quieto vivere, senza il rischio che qualcuno pensi davvero in autonomia. Non si tratta di stimolare il pensiero critico: si tratta, ancora una volta, di accertare che lo studente abbia sgobbato — e, ovviamente, si parte sempre dal sospetto opposto, cioè che non lo abbia fatto.

Non sorprende, dunque, che il metodo Montessori — ideato in Italia proprio per coltivare l’autonomia, la responsabilità personale e l’apprendimento attivo — abbia trovato terreno più fertile altrove. In Germania, ad esempio, si contano oggi oltre 600 scuole superiori Montessori riconosciute, frequentate da circa 85.000 studenti, secondo il Deutscher Montessori Dachverband (2024). In Italia, invece, le scuole Montessori accreditate sono una sessantina appena, e quasi tutte limitate alla fascia della scuola dell’infanzia o primaria, con una presenza quasi nulla nella scuola secondaria (fonte: MIUR, 2024).

Del resto, in Italia tutto ciò che sfugge al controllo viene sempre visto con sospetto. Qui non interessa davvero ciò che impari, ma quanto ti sei piegato sotto il peso dello sforzo richiesto.


Ma in fondo, era tutto prevedibile. In Italia, qualsiasi cosa sfugga al controllo viene ancora percepita come una minaccia, un’insidia da neutralizzare con metodi rigidi e sospettosi. L’autonomia fa paura, la libertà educativa è vista come un cavallo imbizzarrito da domare.

In Germania, intanto, il metodo Montessori cresce e prospera; in Italia resta confinato a poche oasi, quasi fosse un vizio da colpevolizzare. Ma, in fondo, cosa altro aspettarsi? È come se da qualche remoto angolo del tempo Vittorio Emanuele II ti osservasse, severo, con lo sguardo di chi si aspetta di coglierti in fallo.

lo Re

Tutti a dimostrare d’essere abbastanza domati, abbastanza sacrificati, abbastanza piegati. Ewwiwa il Re! Ewwiwa i Savoia!Ah! La Tauromachia!


Non mi stupisce affatto, dunque, leggere di quello studente che, pochi giorni fa, ha deciso di rifiutare l’orale di maturità, avendo già accumulato il punteggio necessario per essere promosso. La notizia, rimbalzata sui giornali, ha generato un certo scalpore: “Studente rifiuta l’orale” titolavano alcuni, con toni a metà tra l’indignato e il perplesso.

Ma la logica, a ben vedere, era ineccepibile: in fondo, l’imputato si è semplicemente avvalso della facoltà di non rispondere. Se il tribunale — pardon, la scuola — ritiene di avere in mano le prove del suo fancazzismo, spetta alla corte produrle, non certo all’imputato dimostrare la propria innocenza.

Ecco l’essenza del sistema scolastico italiano: non un luogo di apprendimento, ma una specie di tribunale permanente, dove ogni esame si trasforma in un processo inquisitorio e ogni studente, più che un allievo, è un sospettato in attesa di giudizio. Da noi l’iscrizione scolastica non è altro che un avviso di garanzia mascherato, e l’orale finale è semplicemente l’udienza di chiusura.

Certo, se le prove scritte non fossero state concepite come un’occasione di sgamo — un agguato per smascherare il furbetto — e fossero state davvero delle prove nel senso nobile del termine, cioè un’occasione per chiedere allo studente di produrre qualcosa di significativo, dopo cinque anni di scuola, il discorso sarebbe stato diverso.

Se, anziché limitarsi a sciorinare pedissequamente il programma — quell'elenco sacro e inviolabile di nozioni da recitare come un rosario laico — si fosse chiesto agli studenti di creare, elaborare, costruire qualcosa di originale, magari la discussione orale avrebbe assunto un altro sapore. Sarebbe potuta diventare davvero una riflessione su un percorso, non la solita ordalia.

Del resto, per quale motivo dare un tema di greco su un preciso autore, quando potreste chiedere agli studenti quale autore greco preferiscono, quale non gli piace, e chiedere di spiegare il motivo? Davvero il secondo metodo mostrerebbe meno le competenze dello studente?

Non so, onestamente, se io mi sarei comportato come quello studente di cui si è tanto discusso. A quel tempo non ero ancora capace di dare un nome preciso al fastidio che provavo per quell’essere costantemente considerato un imputato sotto indagine per fancazzismo. Ma se avessi avuto la lucidità di scrivere ciò che sto scrivendo adesso, forse sì, lo avrei fatto. E forse mi sarei anche tolto qualche soddisfazione.


Ma tant’è: non credo davvero che lo Stato italiano — costruito come forza di occupazione dai Savoia, trasformato in apparato fascista da Mussolini e mai realmente riformato — possa accettare, né tantomeno comprendere, una critica di questo tipo.

D’altronde, come direbbero i latini: lupa magistra.

Uriel Fanelli


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