La vergogna e la provincia.

So benissimo che il caso di Garlasco viene strumentalizzato dalla stampa italiana — controllata in larga parte dagli industriali — per riempire le prime pagine e oscurare qualsiasi altro tema di rilievo. In particolare, il referendum: una questione cruciale, che però sparisce dalle homepage e dalle edizioni cartacee dei principali quotidiani filoconfindustriali. Tant’è vero che, su tre testate considerate centrali nel panorama informativo nazionale, del referendum non compare nemmeno un trafiletto. Al suo posto, spazio a un video di Chiara che sostiene un esame all’università. Pane e circo in versione 2.0. Il progetto “Cagnara” al suo apice.

E qui non si parla solo di distrazione mediatica, ma di un vero e proprio metodo. Il caso di cronaca nera viene ingigantito, iperanalizzato, ripulito e riproposto in formato binge-watching per tenere occupata l’opinione pubblica. Si crea un nemico, si costruisce un colpevole, si accende un dibattito acceso quanto sterile. E intanto, nel silenzio, passano decisioni, decreti e riforme che nessuno ha tempo di leggere — figurarsi contestare.

Una delle cose più sorprendenti, in tutto questo rumore, è l’ostinazione con cui la famiglia della vittima continua a ripetere che è stato Alberto, punto e basta. Fine della discussione. La fermezza — quasi rabbiosa — con cui lo affermano è talmente sproporzionata da far sospettare, ai più maligni, che ci sia qualcosa da nascondere. Ma, onestamente, non credo che sia questo il nodo della questione. Piuttosto, sembra emergere un altro fenomeno: quando l'intero sistema — media, opinionisti, talk show, social — crea una verità emotiva condivisa, contraddirla diventa quasi un atto antisociale. E la famiglia, schiacciata tra dolore reale e pressione mediatica, finisce per fondersi con la narrazione ufficiale, alimentandola.

Personalmente, non credo che ci sia del marcio sotto. Nessun complotto, nessun mistero sepolto da svelare con una torcia in mano. Quello che vedo all’opera è uno schema ben noto, quasi banale nella sua diffusione: il riflesso condizionato dell’orribile e abbrutita provincia italiana. Una dinamica sociale che si attiva ogni volta che una tragedia rompe la fragile facciata del “siamo gente perbene”. In questo caso, si chiama shame management — gestione della vergogna — e, accanto a questo, anche un non meno importante family management.

Shame management, ovvero: essere l’assassino è una tragedia, certo. Ma una volta che sei in carcere, il problema in un certo senso “si sposta”. Dentro, sei fuori dal gioco sociale. Quelli che restano — la famiglia — sono quelli che pagano il conto simbolico. Essere il padre, la madre, il fratello o la sorella di un assassino o, peggio, di un complice... è un marchio. Una macchia che, in una piccola comunità, ti segue ovunque: al bar, dal parrucchiere, alle poste. Nessuno ti dice nulla apertamente, magari, ma lo sguardo cambia. E quello basta.

Family management, invece, è la seconda gamba dello schema. La logica è semplice: bisogna delimitare il campo della vergogna. Isolarla. Fare in modo che tutto il male — l’omicidio, la follia, la devianza, l’orrore — venga attribuito interamente a “loro”, all’altra famiglia. Quella dell’accusato, quella dell’assassino designato. Solo così si può salvare l’onore, quello che ancora resta. La vergogna, in provincia, è una sostanza contagiosa: o riesci a tenerla al di là della staccionata, oppure finisce che si appiccica anche a te. E allora ecco che parte il meccanismo, quasi automatico: “è tutta colpa loro”, “noi non c’entriamo”, “noi siamo le vittime, punto”.

È una dinamica brutale, e profondamente disumana. Non serve inventarsi oscure trame o doppi fondi misteriosi: basta conoscere un po’ l’Italia, quella vera, quella delle strade provinciali e dei pranzi della domenica, per sapere come funziona. Quando la realtà diventa ingestibile, l’unico modo per sopravvivere è riscriverla. O, per lo meno, redistribuire il peso di ciò che è successo.


Quando la madre della vittima accusa senza esitazioni Alberto Stasi, non sta necessariamente coprendo un altro colpevole, né lasciando intendere di sapere qualcosa che non dice. Quella fermezza — che a tratti rasenta il dogma — non sembra nascere da una verità solida, ma da una necessità sociale. Sta cercando di dire, più o meno implicitamente: la vergogna è tutta dalla loro parte. È un atto di difesa identitaria, prima ancora che morale. In una comunità dove tutto si misura in reputazione, in decoro, in apparenza, attribuire tutto il male all’altra parte non è solo comodo: è vitale.

Nel frattempo, però, le indagini, con il loro passo lento ma inesorabile, cominciano a sfiorare altri territori. Emergono nomi, legami, frequentazioni. Si parla del fratello della vittima, delle cugine, di amici e contatti ambigui. E quella sostanza maledetta — la vergogna, la colpa, il sospetto — comincia a oltrepassare il confine. Entra, anche se appena, nel perimetro della “famiglia perbene”. E questo, per un contesto come quello, è insostenibile.

È qui che il meccanismo di shame management si irrigidisce: più le indagini si avvicinano all’area grigia della vittima e del suo entourage, più la narrazione ufficiale deve restare netta, impermeabile, impenetrabile. Non per giustizia, non per verità, ma per necessità sociale. Perché ammettere che il male possa avere radici condivise, che il disastro non sia stato importato da fuori ma cresciuto anche dentro casa, significherebbe crollare con tutta la facciata. E questo, nella provincia che vive di facciate, non è concepibile.

C’è chi ipotizza che questo atteggiamento così rigido — questo rifiuto ostinato di qualsiasi ipotesi alternativa — serva, in fondo, a tutelare una posizione economica. Si dice, a mezza voce, che i familiari della vittima difendano la verità giudiziaria per non mettere a rischio il risarcimento già ottenuto. Un modo per blindare la propria posizione, per non rimettere tutto in discussione, anche sul piano patrimoniale.

Personalmente, non mi sembra una spiegazione convincente. Se davvero l'assassino fosse un'altra persona, sarebbe comunque il nuovo colpevole a dover rispondere dei danni, anche in termini economici. Il risarcimento non verrebbe azzerato, ma riassegnato. E per i familiari della vittima, dal punto di vista pratico, cambierebbe poco. Il denaro non sparirebbe, cambierebbe solo chi è chiamato a pagarlo.


E se davvero si tratta di uno scontro di reputazioni, allora non possiamo ignorare quello, sotterraneo ma feroce, tra i vecchi giudici e i nuovi. Ogni revisione del processo è, implicitamente, anche una revisione del lavoro di chi è venuto prima. E in un sistema che vive di prestigio, carriere, nomine e incastri silenziosi, questo scontro pesa. Pesa più di quanto si possa dire apertamente.

Perché oggi salta fuori una manata di sangue sul muro — con il palmo chiaramente visibile, compatibile con una mano insanguinata — e ci si chiede: com’è possibile che nessuno l’abbia notata prima? Davvero nessuno l’ha vista, o semplicemente nessuno voleva vederla? E perché quel DNA maschile, trovato sotto le unghie della vittima, è stato ignorato così a lungo? Possibile che non sia stato oggetto di approfondimenti seri?

Poi ci sono i testimoni, quelli che oggi vengono ascoltati ma che allora erano stati lasciati ai margini, o non considerati affatto. E c'è quel canale, finora mai dragato, dove — forse — sono state gettate le armi del delitto. Com'è possibile che per anni nessuno abbia sentito l’esigenza di scavare più a fondo, in senso letterale e figurato?

Forse perché rimettere mano a tutto significherebbe, prima di tutto, ammettere che qualcosa è andato storto. E in certi ambienti, la verità giudiziaria vale più di quella fattuale: perché una sentenza, una volta scritta, costruisce realtà. Metterla in discussione non è solo un gesto tecnico, è un atto politico, simbolico. E per molti, anche un rischio di carriera.


Anche dentro le procure e le caserme, dunque, si disegnano le stesse linee di faglia. Le stesse tribù. Da una parte “noi”, quelli che hanno indagato quindici anni fa, con i metodi, le risorse e la mentalità dell’epoca. Dall’altra “loro”, i nuovi periti, i nuovi investigatori, i nuovi tecnici — gente che arriva con strumenti aggiornati, un approccio diverso e, soprattutto, senza il peso di dover difendere decisioni passate.

Ed è inevitabile che, a un certo punto, anche lì si ponga la questione della vergogna. Chi ha trascurato cosa? Chi ha chiuso gli occhi? Chi ha fatto un lavoro approssimativo, chi si è accontentato di una narrazione comoda? La domanda, magari, non verrà mai posta apertamente, ma aleggia negli uffici, nei corridoi, nei fascicoli rispolverati. Chi dovrà caricarsi il peso dell’errore, se errore c’è stato? Noi o loro?

Perché rivedere un caso, di fatto, significa mettere in discussione il lavoro di altri colleghi in divisa o in toga. E non è solo una questione di professionalità, è anche una questione di appartenenza. Di reputazione interna. Di equilibrio di potere. Nessuno vuole passare per quello che ha sbagliato. Meglio, quando possibile, sostenere che si è fatto il massimo con i mezzi disponibili. E se proprio bisogna individuare una colpa, che ricada altrove. Sugli altri. Su loro.


Al di là di tutto, prima ancora di cercare colpe o errori, forse bisognerebbe porsi una domanda più semplice e più profonda: quali sono i confini di una comunità? E quanto questi confini, invisibili ma rigidissimi, possono aver inciso nel momento cruciale delle prime indagini?

Perché all'inizio tutto era in mano a una procura realmente locale, gestita da inquirenti realmente locali. Gente del posto. Uomini e donne delle forze dell’ordine di stanza nella stessa città, nella stessa rete sociale, talvolta negli stessi circoli o nelle stesse parrocchie. In una realtà come quella, dove le famiglie si conoscono da generazioni e i legami si intrecciano fittamente, è ingenuo pensare che si possa operare come se nulla di tutto ciò contasse.

In provincia, i confini non sono solo geografici. Sono morali, affettivi, economici. E anche chi indaga, anche chi dovrebbe essere neutrale, non è immune: è legato agli uni o agli altri da uno, due, massimo tre gradi di separazione. Magari il carabiniere conosce il fratello dell'indagato. Magari il magistrato è stato a cena con un cugino della vittima. Non per corruzione, non per malafede. Semplicemente perché, in certi luoghi, è impossibile non essere parte della rete.

E allora quei confini diventano legge non scritta. Qualcosa che tutti sentono, anche se nessuno la nomina. Una barriera morale che ti dice dove puoi andare e dove è meglio non spingerti troppo. Chi puoi interrogare a fondo e chi è meglio lasciar stare. Quali piste seguire con entusiasmo e quali, invece, archiviare in silenzio. Perché andare oltre certi limiti significa non solo indagare un delitto, ma incrinare equilibri secolari. E questo, in certe realtà, non si fa.

In tutto questo, quello che NON si trova e' la cosa piu' importante.

La giustizia.

E i Referendum.

Uriel Fanelli


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