La Repubblica “giornale di sinistra”?

Ogni volta che mi trovo a discutere di testate come La Repubblica, La Stampa o Il Corriere della Sera, mi sento spesso rispondere che si tratta di giornali “di sinistra” o “di centrosinistra”, espressioni imprecise e poco significative, il cui vero significato rimane quasi sempre oscuro. Eppure, proprio nel caso de La Repubblica, negli ultimi anni si è verificato un cambiamento significativo che avrebbe dovuto far riflettere più di qualcuno, un’evoluzione che però è passata quasi del tutto inosservata.

Quando si afferma che la Repubblica sia un giornale di centrosinistra, e si chiede quali contenuti lo qualifichino come tale, la risposta tipica è piuttosto curiosa: “siccome i lettori sono di sinistra, il giornale deve mantenersi su una linea editoriale coerente, per non perderli”.

Si tratta, evidentemente, di un ragionamento circolare piuttosto comico: si parte dall’assunto che i lettori siano di sinistra, dunque Repubblica dev’essere un giornale di sinistra, e poiché Repubblica è di sinistra, i suoi lettori devono esserlo per forza. Un capolavoro di logica autoreferenziale.

Verificare questa affermazione, ad esempio attraverso i commenti, era però impossibile. I commenti erano aperti a chiunque, e facevano capo a un’infrastruttura condivisa tra Repubblica e La Stampa, gestita dalla stessa azienda. Quando facevi notare che i commenti sotto gli articoli erano diventati una fogna fascistoide, la risposta era sempre la stessa: “sono i bot, sono i russi, sono i bot russi, sono lettori del Giornale che vengono qui a sfogarsi”, e così via.

Insomma, difficile districarsi.

Poi però i geni del marketing digitale sono venuti in nostro soccorso. Hanno preso una decisione illuminata: da ora in poi, possono commentare solo gli abbonati. Meraviglioso. Perché ora i commenti rappresentano finalmente uno spaccato autentico — o quantomeno un campione statisticamente valido — della reale base di lettori.

Del resto, è evidente che non siano i famigerati bot russi o le misteriose spie del Cremlino a sottoscrivere un abbonamento digitale a Repubblica — magari autenticandosi tramite qualche servizio OAuth esterno, tipo Facebook o Google. Non esattamente la procedura ideale per chi voglia restare nell’ombra, ecco.


E cosa succede oggi, se apro Repubblica e mi metto a leggere i commenti? La scena è inequivocabile: una cloaca fascistoide, intervallata da sporadici accessi di “attivismo” di sinistra che somigliano più agli slogan di una curva sud che a un vero dibattito politico. Il risultato è una fiera del populismo, dove l’ideologia è solo il pretesto per strillare più forte del vicino.

S’intenda: nulla di nuovo sotto il sole. Lo stesso spettacolo lo si può osservare su qualsiasi social network mainstream, da Facebook a Twitter, senza distinzioni rilevanti. Ma questo, se non altro, offre una conferma empirica — facilmente verificabile — della vera natura del lettore medio di Repubblica: il classico anziano di provincia, livoroso e rancoroso, convinto che il mondo stia andando a rotoli perché teme per il proprio portafoglio. È quello che invoca la pena di morte anche per un divieto di sosta, salvo poi invocare clemenza quando scopre che, tecnicamente, anche l’abitudine di mangiare vivi i vicini di casa potrebbe configurarsi come reato.

Il tutto condito dalla consueta litania nostalgica: “ai miei tempi”, “dove andremo a finire, signora mia”, “una volta qui era tutta campagna” , “ci vuole la pena di morte, dico ” — un campionario completo dell’Italia profonda, quella che si illude di essere colta solo perché legge Repubblica, ma che nei commenti sembra indistinguibile da chi passa le giornate a condividere meme su Facebook.

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E in fondo, bastava guardare la pubblicità per rendersene conto: Repubblica parla ai vecchi. E, stando ai commenti, li rappresenta benissimo.


Saremmo però ingenui — o peggio, ciechi — se non notassimo che lo stesso fenomeno si manifesta anche altrove. La Stampa? Identico copione. Il Fatto Quotidiano? Cambia la bandiera, non la sostanza: il tono è sempre populista, solo declinato in altra salsa. E se ci spingiamo su testate di destra come Il Giornale o altre simili, la musica non cambia granché.

A questo punto, una cosa diventa evidente: l’intero panorama dell’informazione sta lentamente — ma inesorabilmente — trasformandosi in Facebook. Non nel senso tecnico, ovviamente, ma nello spirito. La stampa tradizionale ha assorbito i meccanismi, le logiche e persino i tic linguistici dei social network. E così, al posto del giornalismo, ci ritroviamo con una gigantesca bacheca virtuale in cui ognuno urla nel vuoto, aspettando un like o un insulto.

Tutta la stampa italiana e' “diventata Facebook”.

Un’umanità decrepita, avara e rancorosa, che monta la guardia al proprio portafoglio come a un fortino assediato, e al decoro del condominio da due soldi — ma con “finiture di pregio, in zona quasi residenziale”, come prometteva l’immancabile depliant patinato. Una trincea di mediocrità difesa con fierezza, tra un’interrogazione nostalgica sul passato e un invito alla fucilazione per chi parcheggia fuori dalle righe.

E no, non sto parlando del piccolo borghese. Sto parlando di quello che definirei “un poveretto”.


Ma com’è che siamo arrivati a questo punto? Perché la sezione commenti dei quotidiani online sembra uscita direttamente da un thread tossico su Facebook?

La risposta è sorprendentemente semplice.

Immaginate Facebook, ma con una regola precisa: solo un gruppo ristretto di utenti può pubblicare un nuovo post. Gli altri possono soltanto commentare, replicare, partecipare passivamente alla conversazione, ma senza mai poterla iniziare. Chi può postare? I “privilegiati”. Gli altri, muti — o quasi.

Ecco, avete appena descritto Repubblica, La Stampa, Il Fatto, o qualunque altro quotidiano online.

Dal punto di vista strutturale e funzionale, un quotidiano online è soltanto un social network in cui gli utenti sono divisi in due caste: la “Redazione”, che ha il potere esclusivo di pubblicare contenuti (l’equivalente di creare un post), e il resto del pubblico, relegato al ruolo di commentatore.

Non stupisce, allora, che i commenti su Repubblica assomiglino così tanto a quelli di Facebook. La differenza è minima, quasi impercettibile: semplicemente, manca la libertà di iniziare una conversazione. Tutto il resto — dinamiche di branco, tribalismo ideologico, aggressività passiva e rancore diffuso — è identico.

Questo è il perché.

I social network e i quotidiani online sono ormai prodotti quasi indistinguibili. E non ci vuole un grande sforzo per immaginarne uno costruito con un qualsiasi software open source da social networking — Friendica, Misskey, Mastodon, scegliete voi — applicando una semplice regola: solo i membri del gruppo “redazione” (che in quelle piattaforme si sovrappongono ai “moderatori”) possono pubblicare, tutti gli altri possono solo commentare.

Il risultato? Esattamente ciò che vediamo oggi. Perché quando la struttura è la stessa, anche il comportamento lo diventa.


Non credo, sinceramente, che queste fossero le specifiche progettuali originarie di questi portali. Se davvero si fossero presentati da un programmatore con requisiti del tipo “informare il pubblico con autorevolezza e promuovere un confronto civile”, il risultato finale sarebbe stato tutt’altro — forse qualcosa di più simile a Quora, o a un vero forum strutturato, che non a un simulacro di giornalismo con dinamiche da social network.

Eppure, nel corso dell’evoluzione di repubblica.it, è accaduto qualcosa. Il modello di business — o, per usare le parole di Jürgen Habermas, la logica sistemica — ha preso il sopravvento sulla logica comunicativa. Il quotidiano online si è piegato alle stesse regole che governano i social: non più informare, ma massimizzare l’engagement, trattenere l’utente, moltiplicare le visualizzazioni, monetizzare ogni click attraverso l’advertising.

Come scrive Habermas:

“I sistemi, una volta autonomizzati, seguono imperativi funzionali propri che tendono a colonizzare il mondo della vita e i processi comunicativi razionali.” (Theorie des kommunikativen Handelns, 1981)

Tradotto in termini più spicci: la ratio economica del sistema ha colonizzato anche il giornale. Non conta più ciò che si dice, ma quanto a lungo riesci a tenere qualcuno incollato allo schermo. E così, anche un giornale — in teoria presidio critico del dibattito pubblico — diventa indistinguibile da Facebook.

Con in più la pretesa di essere “serio”.


Ed è qui che si chiarisce definitivamente la natura di un giornale online come Repubblica. Anzi, la natura di qualsiasi giornale online contemporaneo. Parliamo, in sostanza, di un social network generalista dove soltanto un’élite redazionale può pubblicare “post” — cioè notizie — mentre al resto dell’utenza è concesso unicamente commentare. La struttura è la stessa, la dinamica pure.

E poiché lo scopo — identico a quello delle piattaforme sociali — è massimizzare l’engagement, allora anche il pubblico da attirare deve essere lo stesso: arrabbiati cronici, depressi, frustrati, polemici, narcisisti, ossessivi, sadici da tastiera. In breve, l’identikit dell’utente medio di Facebook.

E come si massimizza l’engagement? Con gli stessi metodi: titoli clickbait, esposizione distorta dei fatti, enfasi spropositata, polemica preconfezionata. Non si tratta di informare, ma di provocare. Non di chiarire, ma di agitare. L'obiettivo non è la comprensione, ma la reazione. Meglio se isterica.

E quanto alle fake news, non illudetevi. Non mancano. I giornali online non hanno bisogno di inventare storie: basta mascherare la speculazione come “voce di corridoio”, attribuire tutto a “fonti anonime vicine al dossier”, o a qualche “funzionario che preferisce restare anonimo”. Il risultato è una notizia che formalmente si regge in piedi, ma sostanzialmente è gossip con lo zucchero a velo.

Per quanto possano lanciare campagne “contro le fake news” o proporsi come baluardi dell’informazione seria, o contro il cyberbullismo, i giornalisti — e con loro le testate online — NON POSSONO fare nulla di concreto per opporsi a queste dinamiche. Semplicemente, non possono trasformare il prodotto in una cosa diversa.

Perché? Perché giocano allo stesso gioco degli utenti che denunciano. Hanno lo stesso bisogno di visibilità, di condivisioni, di clic. E avendo la stessa architettura tecnica e lo stesso modello economico, finiscono inevitabilmente per assumere lo stesso comportamento.

In fondo, sono lo stesso prodotto. Solo con un tono di voce diverso.


Dal momento che nella vita mi occupo di architettura dei sistemi IT, è possibile che la mia prospettiva risulti un po’ “deformata” — o semplicemente tecnica — per chi guarda questi temi da fuori. Per questo vale la pena chiarire cosa intendo, in concreto, quando dico che un giornale online e un social network generalista sono lo stesso prodotto.

Immaginate questa scena: domani il mio capo mi convoca in riunione e mi assegna un progetto. Dovrò guidare un team di sviluppo per realizzare due piattaforme: un social network generalista e un quotidiano online.

Bene. Dopo aver raccolto le specifiche, vi dico subito cosa non farei: non dividerei affatto il team in due gruppi separati. Perché? Perché il backend, ossia tutta la logica di sistema — gestione dei post, dei commenti, dei “like”, dei profili utente, della pubblicità — sarebbe esattamente la stessa. Il motore è identico. Cambiano solo la carrozzeria e qualche accessorio.

L’unica distinzione tecnica da introdurre riguarderebbe i permessi di scrittura: su una piattaforma, tutti possono aprire una discussione (tipico dei social); sull’altra, solo gli utenti del gruppo “giornalisti” possono pubblicare un thread, mentre tutti gli altri possono solo commentare.

Fine. Con una singola condizione logica abilitata o disabilitata, lo stesso identico prodotto software può comportarsi da giornale online o da social network. Cambia l’interfaccia utente — una veste più “editoriale” per uno, più “social” per l’altro — ma il cuore resta lo stesso.

È in questo senso, profondamente tecnico ma strutturalmente inconfutabile, che affermo: si tratta dello stesso prodotto. Forse è deformazione professionale. O forse è solo vedere le cose per quello che realmente sono.


Ma allora, viene da chiedersi, perché i giornali online sono gli “underdog” del mondo web, sempre in rincorsa e sistematicamente perdenti nella competizione digitale?

Il punto non è — come spesso si sente dire — che “oggi tutti parlano”, o che “non c’è più autorevolezza”. Quello che davvero li sta affondando è qualcosa di molto più banale, più terra-terra. Un dettaglio tecnico, ma cruciale.

Facciamo un esperimento mentale. Immaginate di avere due piattaforme con lo stesso numero di utenti: un quotidiano online e un social network. Mettiamoli anche in una piazza molto popolata — che so, India o Cina — per rendere il confronto più interessante per numero di utenti. Cosa fa la differenza?

La risposta è semplice: la pubblicità.

Supponiamo che io sia un piccolo inserzionista e voglia promuovere il mio prodotto. Se scelgo il giornale, cosa devo fare? Cercare la sezione “Pubblicità”, trovare un contatto, scrivere a un commerciale, aspettare una risposta, parlare con qualcuno dell’ufficio marketing, firmare un contratto… insomma, evocare l’antico demone assiro della burocrazia aziendale.

Se invece scelgo il social network? Clicco su “Crea inserzione”. Compilo una form. Seleziono il target. Clic. Pubblicato. Fine.

Ora, ponetevi la domanda: se siete un cliente e dovete decidere dove investire, vi rivolgete a chi vi propone un rito burocratico da Necronomicon, o a chi vi offre una dashboard e due clic?

Esatto. Non serve la palla di cristallo.

Serve solo un po’ di UX decente.


Ma tornando alla domanda iniziale — Repubblica è un giornale di destra o di sinistra? — la risposta, a questo punto, è disarmante nella sua semplicità:

Repubblica è un social network mascherato da giornale. E come tale, ha smesso da tempo di avere una collocazione politica autentica. Non è più un soggetto editoriale con una linea ideologica definita, ma una piattaforma con una policy sui contenuti — magari più permissiva o più rigida rispetto ad altri, certo — ma comunque popolata da utenti che si comportano esattamente come su qualsiasi altro social.

Non è di destra. Non è di sinistra.

È semplicemente un’azienda.

Un'azienda che, come tutte le altre nel settore digitale, risponde a una sola ideologia: quella dell’engagement.

Uriel Fanelli


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