Escort, bagasce e “cortigiane honeste”.

Mentre leggevo le notizie stamattina—un’attività che ormai equivale a sfogliare un manuale di patologie sociali—mi sono imbattuto in un articolo derivato da Belve, trasmissione condotta da un mostro sadico, una specie di Minotauro mediatico che, anziché divorare giovani ateniesi, divora uomini che non siano sufficientemente SIMP. Le donne, invece, passano indenni tra le sue fauci, purché abbiano una storia di oppressione da vendere o, in mancanza di meglio, un curriculum nel porno da giustificare con un sorriso emancipato.

E così, tra un monologo sull’empowerment e un’occhiata di compatimento verso il pubblico maschile in studio, è comparsa Milli d’Abbraccio, nome d’arte che evoca carezze mai ricevute dalla madre. La nostra eroina—ex regina del sesso filmato, oggi imprenditrice del desiderio—ha annunciato con la solennità di un editto papale di essersi “immersa nel mondo delle escort”.

Attenzione, però: non si tratta della solita bagascia che batte i marciapiedi della decenza. No, Milli ha chiarito di operare “solo per molti soldi e solo per clienti molto selezionati”, come se stesse descrivendo l’accesso a un club esclusivo di golf, e non a un affare che, in altre epoche, si concludeva con due soldi e un rosario recitato in fretta.

E qui, cari lettori, il genio italico della reinvenzione post-carriera raggiunge vette rinascimentali. Milli, infatti, non è una semplice escort: è una “cortigiana honesta”, degna erede di quelle dame del Cinquecento che, tra un sonetto e una notte d’amore, dettavano legge nei salotti (e nei libri contabili dei loro protettori). La differenza? Quelle avevano Petrarca sul comodino; Milli, probabilmente, ha solo il listino prezzi su Telegram.

Ma tant’è: se il mercato del porno non rende più, quello del piacere su misura è sempre in auge. E se Veronica Franco poteva vantarsi di intrattenere dogi e letterati, perché Milli non dovrebbe vantare clienti “di livello”? Magari un dentista con la Porsche, un imprenditore fallito che sogna di sentirsi ancora ricco, o—perché no?—un giornalista in cerca di ispirazione per il prossimo pezzo sarcastico.

L’importante, dopotutto, è mantenere le apparenze. E se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che nessuno è così nobile da non aver bisogno di una bella cortigiana che gli ricordi, tra una carezza e una fattura, che anche il vizio ha il suo prezzo. Prezzo alto, ovviamente.


Se c’è una costante nella storia dell’umanità, è che l’uomo ha sempre voluto pagare per il sesso, ma mai ammetterlo senza un velo di rispettabilità. Così, ogni civiltà che si rispetti ha escogitato un modo per trasformare la più antica professione del mondo in qualcosa di presentabile, possibilmente con un tocco di classe e una citazione di Platone.

Prendiamo le “cortigiane oneste” del Rinascimento: prostitute, sì, ma con la laurea in poesia. Erano donne che, anziché limitarsi a battere cassa (e altro), si dilettavano in sonetti, musica e conversazioni filosofiche, il che permetteva ai loro clienti—di solito nobili, prelati e altri campioni di moralità—di dire: “Io? Mai pagato per una donna! Ho solo finanziato un salotto culturale… che poi, per caso, terminava a letto.”

I greci, già maestri nell’arte dell’ipocrisia sociale, avevano diviso il mercato tra etera e pornai: le prime erano escort intellettuali, compagne di simposi e dibattiti (oltre che di altre attività meno platoniche); le seconde, invece, erano la plebaglia del sesso, quelle che lavoravano al porto e costavano meno di un’anfora di vino scadente. La differenza? La stessa che passa oggi tra una cena a €5000 a testa con conversazione sul postmodernismo e un biglietto da €50 per un “quickie” nel parcheggio del centro commerciale.

I giapponesi, poi, perfezionarono l’arte della prostituzione spirituale con le geishe: artiste, musiciste, intrattenitrici… tutto tranne quello che erano davvero. Perché, diciamocelo, se paghi una donna per ballare, cantare e versarti il sakè, ma poi per caso finisci a letto con lei, che colpa ne hai tu? Era solo un servizio aggiuntivo, come il copriletto in seta su Airbnb.

E arriviamo al punto cruciale: lo stigma non è legato all’atto in sé, ma alla povertà di chi lo compie. Un omosessuale ricco è un eccentrico raffinato; uno povero è un frocio da sbattere in galera. Una prostituta colta e costosa è una cortigiana, una etera, una donna di mondo; una che lavora per strada è una troia da evitare. La morale? Se devi vendere il tuo corpo, fallo con stile, e soprattutto fallo pagare così tanto che nessuno osi chiamarlo per nome.

Milli d’Abbraccio, dunque, non fa che riprendere una tradizione gloriosa: quella di dare un nome elegante a un mestiere scomodo. Perché alla fine, la vera arte non è fare l’escort, ma vendere l’illusione di non essere una escort. E in questo, le cortigiane oneste di ieri e le escort “di lusso” di oggi sono maestre. Purché il conto sia salato.


Se vogliamo entrare ancora più nello specifico, com’era strutturata una festa nel Cinquecento? Non immaginatevi certo un buffet freddo e due chiacchiere da salotto. Si iniziava con un po’ di decoro, giusto per salvare la faccia: la sala illuminata da candelabri, un palco rialzato per musici e comici – spesso mascherati, talvolta sobri, raramente sobri di spirito. Fin qui tutto sommato rispettabile.

Ma poi arrivava la veglia – no, non quella funebre, ma la porzione avanzata della notte, quando le orazioni si dissolvono e il buon gusto va a dormire. Le giovani oneste – che non avevano ancora abbastanza anni, o abbastanza argomenti, per smettere di esserlo – venivano invitate a ritirarsi con grazia. I maschietti impuberi seguivano a ruota, perché si stavano ancora domandando a cosa servissero davvero tutte quelle danze.

A quel punto, la vera festa poteva iniziare. La servitù regolare – quella che serviva il vino senza offrirsi essa stessa come digestivo – veniva gentilmente sostituita da un corpo scelto di cortigiane oneste. Sì, perché nel Cinquecento si poteva essere oneste anche senza vestiti: bastava mantenere la parola data, soprattutto se era “stasera sono tua”.

Il maestro di cerimonie, figura ibrida tra un wedding planner e un trafficante d’illusioni, le affittava in blocco, come si fa oggi con i centrotavola. Entravano nell’ambiente già spogliato di ogni ipocrisia, spesso seminude, talvolta nude del tutto – come nell'illustre Episodio delle Castagne, un evento mondano ospitato nel 1501 dal cardinal Cesare Borgia nel palazzo apostolico, a Roma. Secondo il cronista Johann Burchard – che era presente – sessanta cortigiane si spogliarono completamente e, illuminate solo da poche candele, si inginocchiarono a raccogliere castagne da terra usando solo le labbra – un’operazione che, se fatta con eleganza e flessibilità, poteva valere quanto un intero curriculum accademico.

Ora, sessanta cortigiane in una sola sera non erano un’eccezione: erano un campione statistico. Roma, all’epoca, contava circa 50.000 abitanti – non una metropoli, tuttavia una città in cui la densità di “professioniste dell’intrattenimento” superava abbondantemente quella di notai e farmacisti messi insieme. Alcune stime parlano di oltre 6.000 cortigiane registrate – e molte altre “non registrate”, per così dire. Una donna su otto, se proprio vogliamo fare i conti della serva, ma con l’eleganza di una mantiglia veneziana.

E non si pensi che tutto ciò fosse oggetto di scandalo. Al contrario: la cortigiana non era solo tollerata, ma socialmente funzionale. In una società in cui i matrimoni erano accordi economici e le donne “oneste” passavano la vita chiuse in casa a filare rassegnazione, la cortigiana era una figura ibrida: sessualmente disponibile, ma anche colta, eloquente, politicamente utile, e perfino spiritualmente consigliabile – per i mariti, s’intende, che così sfogavano altrove le loro inclinazioni e tornavano a casa più docili. Un win-win, diremmo oggi.

Insomma, una festa del Cinquecento ben riuscita era un’operazione culturale di tutto rispetto – le vere “Cene Eleganti” di Silvio. E se qualche ambasciatore straniero ne usciva frastornato, lo si consolava dicendogli che sì, era Roma, ma anche un po’ Atene, un po’ Babilonia e parecchio Carnevale – tutto nello stesso salone.


I cronisti dell’epoca, che sapevano ben distinguere un vizio da una professione ben avviata, usano spesso con aria serissima l’espressione cortigiana honesta. Una formula che oggi sembrerebbe un ossimoro, ma che nel Cinquecento aveva un senso chiarissimo: “honesta” era colei che, pur svolgendo un mestiere galante, manteneva una selettività rigorosa e un codice di comportamento quasi aristocratico. Non era una prostituta qualunque: non riceveva chiunque, non era vincolata da un contratto individuale, e anzi – durante le feste nobiliari – era lei a scegliere, tra i tavoli, il cavaliere con cui avrebbe eventualmente passato la notte. Ovviamente, sceglierne uno era implicito nell’ingaggio: una certa efficienza erotica era data per scontata, altrimenti non si giustificava la spesa.

La dinamica era raffinata. La cortigiana si avvicinava con passo sicuro, versava del vino, chiacchierava con arguzia – non mancava mai un aneddoto licenzioso, un proverbio salace in latino maccheronico – e, se riceveva invito a trattenersi, si accomodava tra gli ospiti con la stessa grazia di una dama di compagnia. In effetti, era una dama di compagnia, solo con un catalogo più ampio di prestazioni.

Questo rituale era così diffuso nelle feste dell’aristocrazia italiana da risultare quasi invisibile, come il sale nei banchetti: tutti lo davano per scontato, ma guai se mancava. Ne scrivono con naturalezza cronisti come Marin Sanudo, che nei suoi Diarii registra tutto – dalle guerre ai pettegolezzi da letto – e Johann Burchard, il cerimoniere papale che descrisse senza batter ciglio l’ormai leggendario Episodio delle Castagne. Anche Matteo Bandello, più narratore che storico, disseminava le sue novelle di dame “honeste” il cui onore era inversamente proporzionale alla quantità di vesti.

Fu anche alla base di molte chiacchiere su Lucrezia Borgia, che – nel suo periodo estense, a Ferrara – era prodiga di feste magnifiche, ospitando dame di varia estrazione, tra cui diverse honeste molto ben introdotte. E se qualche ambasciatore tornava a casa con un’impressione vivida, la colpa era forse del vino, forse delle allegorie neoplatoniche, ma più probabilmente di una compagnia selezionata con gusto.

A ben vedere, la honestà di queste cortigiane non era ipocrisia, ma status. Come direbbe oggi Milly D’Abbraccio – in un’epoca che ama la chiarezza tanto quanto il Cinquecento amava la metafora – sì, lei fa l’escort, ma sia chiaro che ha prezzi elevatissimi e una clientela selezionata. Ecco il messaggio eterno: una escort honesta. Cambiano i secoli, non il concetto.


Tra le figure più emblematiche del Rinascimento italiano ci sono loro: le cortigiane honeste, regine di salotti, poetesse, musiciste, amanti di cardinali e di poeti, spesso più colte degli uomini che le pagavano. Veronica Franco, a Venezia, è forse la più celebre. Era bella, sì, ma anche scrittrice raffinata: pubblicò due raccolte di versi, Terze Rime e Lettere familiari a diversi, nelle quali difendeva il ruolo delle donne con una fierezza che oggi definiremmo protofemminista. A un nobile che le chiedeva di metterlo nei suoi pensieri, rispose in versi: “S’io potessi pensar ch’un mio pensiero / potesse darvi pace, o farvi onore...”. Niente male per una “professionista”.

Poi c’era Tullia d’Aragona, romana, figlia illegittima di un cardinale e – secondo le malelingue – avviata al mestiere dalla madre. Ma Tullia non si limitava a piacere: scriveva dialoghi filosofici sull’amore platonico, frequentava l’Accademia degli Intronati a Siena, discuteva con letterati, e veniva invitata nei salotti dell’élite. Non pochi uomini di lettere – tra cui Sperone Speroni – la consideravano un’interlocutrice stimolante. Insomma, una cortigiana con il cervello.

A Ferrara brillò anche Angela Borgia, cugina di Lucrezia, che – pur non essendo una cortigiana in senso stretto – contribuì con la sua bellezza e libertà di costumi alla leggenda delle feste estensi. E non si può dimenticare Imperia Cognati, la favorita di Agostino Chigi, il banchiere più potente del suo tempo, che le fece costruire un palazzo e le lasciò in eredità una fortuna. Morì giovane, a quanto pare per scelta sua, ma fu sepolta con onori, a dimostrazione che il confine tra puttana e madonna – se si avevano i giusti protettori – era più sfumato di quanto il catechismo facesse credere.

Molte di queste donne erano più vicine al modello della geisha che a quello della sex worker contemporanea. E se oggi il loro ruolo può apparire ambiguo, all’epoca erano parte integrante della vita culturale delle città. Tanto che lo Statuto delle Cortigiane della Repubblica di Venezia prevedeva persino norme specifiche su dove potevano abitare e in quali occasioni potevano mostrarsi in pubblico, per evitare scandali e – allo stesso tempo – per non farle sparire del tutto. Perché, si sa, una festa senza cortigiane... era solo una cena noiosa.

Siamo comunque ad un livello ben piu' alto rispetto a Milly d'Abbraccio, Selen che cerca di riciclarsi o dall'inossidabile Manya: non giocano la stessa partita, non giocano nella stessa serie, e a volerla dire tutta nemmeno lo stesso sport.


E qui torniamo, inevitabilmente, a quanto dichiarato da Milly D’Abbraccio a Belve. Il punto non è che a lei manchi qualcosa – anzi, ci tiene a precisare che sa recitare, che ha studiato, che non è certo l’ultima arrivata. Il problema è un altro, e sta fuori da lei: manca qualcosa alla società. Manca, per dirla con chiarezza, un’aristocrazia.

Perché senza un’aristocrazia colta – e sottolineo colta – come quella del Cinquecento, ogni velleità di nobilitare il mestiere con la formula “cene eleganti” suona patetica, o peggio, ridicola. Non si può seriamente pensare di replicare le feste rinascimentali sostituendo Cesare Borgia con Emilio Fede. Parliamo di uomini che leggevano greco e latino, che citavano Ovidio e Catullo con disinvoltura tra un brindisi e un’orgia, che sapevano riconoscere una buona poesia, un quadro innovativo, una mente brillante. Uomini che – per quanto spregiudicati – mantenevano Michelangelo, Tiziano, Raffaello. Non si limitavano a consumare: producevano cultura, o almeno la pagavano.

E questo fa tutta la differenza. Oggi, per persone come Milly D’Abbraccio, la speranza di una “clientela ricca e selezionata” si infrange contro la porta di un night club brianzolo, dove il cliente fatica a coniugare un verbo in italiano, o affonda nei fondali tossici di Dagospia, tra escort da discount, affaristi impasticcati e residui di potere arrugginito. All’estero, le feste assomigliano più al catalogo delle vittime di Epstein o ai gossip attorno a P. Diddy – dove l’eleganza è solo un hashtag su Instagram, e l’unica cultura ammessa è quella della riservatezza contrattuale.

La verità è che per far funzionare davvero quell’operazione – quella che trasforma una prostituta in cortigiana honesta – ci vuole una cornice nobile. Una struttura simbolica, un’élite capace di offrire riconoscimento, protezione, e soprattutto senso. Senza un’aristocrazia vera, non basta nemmeno il denaro. Perché i soldi, da soli, non nobilitano nessuno. Lo sapevano anche nel Cinquecento: ci volevano le corti, i salotti, i mecenati, i versi in volgare e le allusioni mitologiche. Non bastava pagare. Bisognava capire cosa si stava pagando.

Nel Cinquecento italiano, figure come Isabella d’Este, Cesare Borgia, Lorenzo de’ Medici o Lucrezia Borgia non erano semplicemente nobili, ma registi culturali delle loro epoche. Le corti non erano solo luoghi di potere, ma veri laboratori del Rinascimento, dove convivano arte, scienza, musica e – senza ipocrisie – anche erotismo ritualizzato. Le cortigiane honeste come Veronica Franco a Venezia o Tullia d’Aragona a Roma erano parte integrante di questo mondo: pubblicavano versi, tenevano salotti, scrivevano lettere a cardinali e filosofi. Alcune erano considerate alla stregua di intellettuali, come si può leggere nei Dialoghi della stessa Tullia.

La presenza di queste donne era socialmente tollerata, anzi istituzionalizzata – e questo non per bontà d’animo, ma perché c’era un sistema capace di assorbire e valorizzare il loro ruolo. Oggi, senza una classe dirigente colta né una committenza artistica, quel meccanismo è semplicemente irriproducibile. E quindi no: una “cena elegante” con Emilio Fede non è un simposio neoplatonico, e nemmeno una versione povera del ballo di Ferrara.

È solo una triste parodia.

E Milly d'Abbraccio dovra' farsene una ragione.

Uriel Fanelli


Il blog e' visibile dal Fediverso facendo il follow a: @uriel@keinpfusch.net

Contatti: