E' negra.

Lo dico io. Ho deciso di sobbarcarmi l’onere della rivelazione, prima che qualche segugio dell’identità nazionale — magari un generale in congedo con velleità etnologiche — arrivi a sussurrarlo sui social tra un elogio alle foibe e una lamentela sui presepi oppressi. Sì, cari compatrioti: Sara Curtis è negra.

Non importa che vinca, che sorrida, che parli un italiano perfetto con inflessioni da provincia torinese. Non importa che indossi il tricolore con quella disinvoltura innata che noi, col nostro malcelato senso d’inferiorità, scambiamo per arroganza. No, quel che conta è la melanina. Quel traditore pigmentato che, ai sensi del codice genetico padano, la squalifica dalla categoria di “vera italiana”.

Naturalmente, nessuno lo dice apertamente. Troppo elegante, il nuovo razzismo: usa il gergo delle “radici culturali”, dei “valori tradizionali”, della “sostituzione etnica” letta su un blog scritto in Comic Sans. Ma il sottotesto è lì, tossico come sempre: se vinci, sei un’italiana di origine straniera. Se perdi, sei solo straniera.

Lo abbiamo già visto, il copione, con Paola Egonu: campionessa mondiale e bersaglio mobile. Ricordate? “Brava sì, ma non rappresenta noi.” Come se “noi” fosse una stirpe di mezzofondisti ariani, anziché un popolo storicamente specializzato in emigrazione, pizza e pentimento tardivo.

Ma ora abbiamo un nuovo caso, e io voglio essere il primo a dirlo a chiare lettere, così che il Generale — lui sa chi è — non debba affaticarsi troppo con le sue indagini antropologiche a vista d’occhio:

Sara Curtis è negra. E l'ho detto prima io.


Lo dico adesso, prima che salti fuori il genio della situazione — ce n'è sempre uno, puntuale come le zanzare a Ferragosto — e cominci a farcelo pesare. “Ma noi italiani non ci sentiamo rappresentati da lei,” dirà, con quella solennità da dibattito del bar dello sport, tra un Campari annacquato e un rutto patriottico. E io, che di natura sono umile e mi accontento di poco, ammetto che sì, in effetti un pochino non mi sento rappresentato nemmeno io. Cioè, mettiamoci nei miei panni: provo a nuotare come lei — elegante come un delfino olimpico, potente come un motore diesel truccato — e dopo cinque metri sto già tossendo l’anima, sputando un polmone e forse anche il codice fiscale. Dire che lei mi rappresenta è, diciamolo, un po’ come dire che Beethoven rappresenta il tizio che suona Despacito col flauto dolce in metropolitana. Tecnicamente siamo entrambi esseri umani, sì. Ma l’equivalenza si ferma lì.

E allora capisco, anzi: comprendo profondamente, quel disagio esistenziale che colpisce certi italiani — diciamo così — cromaticamente rigidi. Vedere una ragazza giovane, velocissima, sorridente, col passaporto italiano e la melanina non conforme alla tradizione del mulino bianco, deve essere uno shock. Una ferita culturale. Un’aggressione ai valori non negoziabili della carbonara e del presepe.


So già come andrà a finire. I soliti cazzari in servizio permanente effettivo — categoria nella quale spicca, in alta uniforme e con medaglia al merito nel dire minchiate, il generale Vannacci — tireranno fuori l’eterno argomento della tipicità. Come ha fatto con Paola Egonu, che per lui non è una “tipica italiana”. Perché, dice, se all’estero uno pensa a un italiano, non pensa a lei. Ecco, già questa frase dovrebbe bastare a squalificare chiunque dal diritto di parola per almeno una legislatura, ma no — è diventata dottrina.

Ora, da italiano all’estero, mi permetto di intervenire. Vivo in Germania, e posso confermare che l’idea che il mondo ha dell’“italiano tipico” è una roba che, se avesse un odore, starebbe a metà tra la brillantina e il sugo della nonna. Siamo eternamente rappresentati, nell’immaginario collettivo straniero, da una sagoma vagamente oleosa che urla “mamma mia!” mentre cerca di fregarti il portafogli con garbo. Quindi se la “tipicità” è quella — scusate — io sto con Egonu tutta la vita. Lei almeno salta, schiaccia, vince. Noi, invece, restiamo lì a sventolare stereotipi e bandierine come vecchi zii al pranzo di Ferragosto, con la canottiera sporca di sugo.


Ma poi, voglio dire — tra tutte le emergenze antropologiche che affliggono certa destra col monocolo piantato nell’ombelico — proprio il colore della pelle?

E diciamoci la verità, una buona volta. Ma le avete mai viste, queste atlete? Dico davvero. Parliamo senza falsi pudori: il generale Vannacci, quello dell’Atlante delle Tipicità Perdute, darebbe volentieri un braccio — magari quello che non usa per il saluto romano — pur di uscire a cena con Paola Egonu. E non per discuterne il curriculum sportivo, suppongo.

Io non voglio diventare volgare — non oggi, che sono in borghese — ma insomma, parliamoci chiaro: avete mai osservato, con occhio sincero e animo non turbato dall'invidia, il corpo della Egonu? O quello di Sara Curtis,? Ecco. Sono sculture in movimento. Dinamite ed eleganza. Velocità e potenza e grazia fuse in una sola creatura. Altro che “non ci rappresenta”: rappresenta tutto quello che molti di noi vorrebbero essere , molti altri vorrebbero avere, e non saranno mai. Non è che non ci sentiamo rappresentati — è che ci sentiamo sminuiti.

E allora, zac!, parte la supercazzola identitaria, il richiamo alle radici, la difesa dell’iconografia del mandolino. Patetico.


Diciamola chiaramente.

Metà dei seguaci del generale Vannacci — quelli che urlano “Italia” mentre scrollano il feed di Facebook — pagherebbero volentieri per leccare la vasca da bagno che Paola Egonu ha usato. L’altra metà non ha nemmeno i soldi per il caffè, figuriamoci, ma intanto continuano a pontificare sulla “tipicità”.

E poi c'è quella risata da romanità fascista. Ma sapete che Giulio Cesare, a un certo punto, ha dato la cittadinanza ai Galli? Eh sì, proprio ai Galli. E a Roma nessuno ha detto “eh, ma sono troppo chiari e biondi!” Perché a Roma, indovinate un po’, lo standard di bellezza non era certo quello. E la cittadinanza, quella vera, la decideva lo Stato, non il colore della pelle.

E adesso vi chiedete dove sia la “supremazia dello Stato”? Ma è lo Stato che decide, non il sangue né il suolo. E se vi entra in testa, ben venga. Se no, beh, allora è inutile continuare.

Ah, ma immagino che voi siate di quelli che pensano che Giulio Cesare fosse un imperatore, giusto? Perché la vostra storia è un po’ distorta, a quanto pare.


Ecco, lo dico per primo. È negra. Proprio così. L'ho vista prima io, eh.

E adesso, quando il solito Vannacci se ne esce dicendo che Sara Curtis è negra, potete mandargli il link a questa pagina e dire: “Ehi, sei noioso. Lo aveva già detto lui! Lui è il vero genio! Lui è brillante!”

E poi, lui è pure maschio, eh. Perché uno che vede una ragazza ventenne con il corpo di una statua e la grazia di una gazzella, l’ultima cosa che gli passa per la testa è il colore della pelle.

Ma io lo faccio per il paese, capite? Per il bene del paese, ecco tutto.

Ringraziatemi, dai.

E' un ordine.

Uriel Fanelli


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