Come Osama bin Laden ha vinto la sua guerra.
Chi guarda oggi ai trumpoidi, probabilmente non ha capito bene che gli USA di oggi sono nati, e intendo una questione culturale, proprio durante l' 11 settembre. E non e' una cosa bella. Con questo intendo dire che proprio in quel momento gli USA scelsero, e fu una scelta definitiva, di intraprendere quel cammino culturale che li porta ad essere cio' che sono oggi.
E' una cosa che si vide poco, almeno dall' Europa, e almeno per il pubblico generalista. Ma per capire quanto profondo sia stato il cambiamento, occorre chiedersi cosa sia successo , risposta che e' molto piu' visibile dal punto di vista di chi ascoltava metal.
Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, l’industria musicale americana (e non solo) subì uno shock che si tradusse in una rapida sterilizzazione dell’offerta culturale mainstream. Clear Channel, uno dei principali gruppi radiofonici statunitensi, distribuì una lista di oltre 160 canzoni sconsigliate per la trasmissione. Tra queste:
“Chop Suey!” dei System of a Down, per via del verso “I don’t think you trust in my self-righteous suicide”;
“Bodies” dei Drowning Pool, con il ritornello “Let the bodies hit the floor”;
“Sunday Bloody Sunday” degli U2, nonostante il tono pacifista, perché evocava la guerra;
Persino “Imagine” di John Lennon fu messa in discussione per il verso “Imagine there’s no countries”, considerato troppo “antipatriottico”.
Il clima non lasciava spazio a provocazioni o ambiguità. Band come i Rage Against the Machine, simbolo del dissenso politico e dell'antiautoritarismo, furono di fatto cancellate dai palinsesti. Il loro catalogo fu escluso dalle radio, e il gruppo — che si era già sciolto un anno prima — divenne improvvisamente “radioactive”, nel senso peggiore del termine.
Anche i Nine Inch Nails e Marilyn Manson, già nel mirino dopo Columbine, furono ostracizzati. Il metal più aggressivo fu equiparato a una forma di devianza culturale, inappropriata per un’America che si voleva dolente ma compatta, impaurita ma disciplinata.
Dal punto di vista europeo, questo fu un bene, nel senso che la scena metal si concentro' su gruppi europei, spesso scandinavi, e i grandi concerti metal oggi sono tutti concentrati in Europa.
MTV riduce drasticamente la rotazione di videoclip “inappropriati”
MTV, allora ancora incentrata sulla musica, modificò silenziosamente la programmazione dopo l’11 settembre:
I videoclip con aerei, esplosioni, grattacieli o toni nichilisti vennero messi in rotazione minima o del tutto rimossi.
- Band come Slipknot, Rage Against the Machine, Tool, System of a Down, e artisti più “politici” vennero sostanzialmente banditi dal prime time.
Secondo un report interno, si parlava apertamente di una “de-politicizzazione cautelativa” dei contenuti.
Anche altre major della radio commerciale, come Infinity Broadcasting (oggi parte di Audacy) e Cox Radio, adottarono black list informali, non pubblicate ma reali:
Un insider della Infinity raccontò a Rolling Stone che vi fu una direttiva non scritta: “No depression, no rage, no ambiguity.”
Artisti come Pearl Jam, Nine Inch Nails, Soundgarden furono silenziosamente esclusi dalle playlist.
Molte etichette major (Universal, Sony, Warner), sospesero temporaneamente le promozioni di album con temi oscuri, critici o provocatori. Il disco Steal This Album! dei System of a Down, previsto inizialmente per settembre, fu ritardato a novembre, con una promozione quasi inesistente. I Dream Theater furono costretti a ritirare temporaneamente la copertina dell'album Live Scenes from New York, perché raffigurava le Twin Towers in fiamme… uscito l'11 settembre stesso.
Catene come Walmart, che già operavano una loro forma di censura preventiva, imposero nuove restrizioni sui CD “explicit”.
Album con copertine o testi potenzialmente “sensibili” furono rimossi dagli scaffali o nascosti (es. Toxicity dei SOAD, God Hates Us All degli Slayer).
In alcuni casi vennero distribuite versioni “ripulite” ad hoc, con liriche tagliate o modifiche grafiche.
Le piattaforme di airplay tracking (come Mediabase e Nielsen BDS) mostrarono cali improvvisi di trasmissione per determinati generi — senza spiegazioni ufficiali.
Si sospetta che molte stazioni usassero filtri semiautomatici per bloccare brani con parole chiave come “fire”, “death”, “terror”, “airplane”, ecc.
Ora, il punto e' che se siete amanti del metal, questa e' una cosa di cui vi accorgete subito. Moltissimi gruppi si sciolsero in quell'anno, e proprio per via di questa censura preventiva.
E lo dico perche' i seguaci del RAP, che si credono dei Social Justice Warrior, a leggere quanto segue si staranno eccitando. Ma non ci fu alcuna censura contro il rap.
Dopo l’11 settembre, il rock, il punk e il metal furono apertamente marginalizzati perché associati a temi di disillusione, critica sociale generalizzata, nichilismo e iconoclastia — esattamente ciò che l'America traumatizzata non voleva vedere o sentire. Ma il rap, almeno in buona parte, si salvò. Perché?
Ecco le ragioni principali:
- Il rap mainstream si era già depoliticizzato
Nel 2001, il rap dominante non era più quello militante di Public Enemy o KRS-One, ma quello “bling bling” di Jay-Z, Nelly, Ja Rule, Ludacris, Eve:
Parlava di status, soldi, auto, sesso, lifestyle — non di terrorismo, politica estera o critica dello Stato.
Quindi risultava perfettamente compatibile con il mood dell’America post-11 settembre: escapismo, intrattenimento, distrazione.
- Il rap non era percepito come antiamericano
A differenza del punk o del metal (spesso bianchi e contro il sistema in senso universale), il rap non metteva in discussione l’ideologia americana, ma spesso ne reinterpretava i codici (successo, potere, rivalsa) in chiave urbana:
Un pezzo come Izzo (H.O.V.A.) di Jay-Z non urtava nessuna sensibilità nazionale.
Nessun rapper mainstream, in quel momento, stava pubblicando testi esplicitamente critici verso le guerre, il governo o la religione — al contrario di band come RATM o Tool.
- Il rap non era legato simbolicamente alle immagini dell’11 settembre
Le sonorità metalliche, aggressive, urlate del nu metal e dell’industrial erano istintivamente associate alla violenza, al caos, alla guerra, anche senza testo.
Il rap, al contrario, era più ritmico, verbale, incanalato: meno “panico sonoro”, più racconto.
Questo lo rese più tollerabile all’orecchio collettivo in un momento in cui la gente non voleva sentirsi “bombardata”
- Parte dell’industria discografica voleva che il rap sopravvivesse
Le major sapevano che il rap era una miniera commerciale, e non volevano chiuderlo fuori. Non è un caso che Eminem, nel 2002, riesca a far uscire Lose Yourself — un brano aggressivo ma incorniciato nel racconto personale e motivazionale.
Ma attenzione: non tutto il rap fu risparmiato
Il rap più politicizzato fu comunque colpito:
Il gruppo The Coup aveva una copertina per il disco Party Music che mostrava… le Torri Gemelle che esplodono con un detonatore! L’album fu ritirato e posticipato.
Dead Prez, con testi apertamente rivoluzionari e anti-imperialisti, venne messo in congelatore dai media.
Anche Mos Def, che avrebbe poi criticato apertamente la guerra in Iraq, vide la sua esposizione fortemente ridotta.
Sia chiaro, tutto questo e visibile dal punto di vista del Metal, ma successe in tutti i settori.
In TV, per esempio.
- Episodi cancellati, riscritti o “misteriosamente scomparsi”
The Simpsons: l’episodio The City of New York vs. Homer Simpson (1997), che mostrava in modo comico le Twin Towers, venne rimosso dalla rotazione per anni.
Friends: un’intera scena dell’ottava stagione dove Chandler fa una battuta su una bomba all’aeroporto fu tagliata.
The West Wing, 24, Alias, Law & Order e persino cartoni animati per ragazzi vennero modificati o posticipati per “motivi di sensibilità”.
- Blackout narrativi
Niente più attentati interni, cospirazioni governative o catastrofi aeree. Interi script furono riscritti d’urgenza per evitare ogni richiamo all’evento.
I temi complessi (ambiguità morale, critica del potere, terrorismo di Stato) sparirono quasi ovunque dal prime time.
In alternativa: glorificazione delle forze dell’ordine e dell’intelligence, con serie come NCIS, JAG, CSI, che proponevano una narrazione rassicurante e manichea.
Anche nel mondo della letteratura, le cose non andarono meglio.
- Libri rimossi o riscritti, esempi:
Empire di Orson Scott Card, scritto nel 2001 ma pubblicato solo anni dopo, descriveva un attentato terroristico interno negli USA. Il manoscritto fu rimandato sine die.
William Gibson, maestro del cyberpunk, dovette rivedere completamente il suo romanzo “Pattern Recognition”, rimuovendo toni e dettagli ritenuti “troppo freddi” per il nuovo clima emotivo.
The Corrections di Jonathan Franzen subì pressioni per posticipare l’uscita o modificare il marketing, per via dei suoi toni apocalittici.
E Hollywood segui' a ruota:
Subito dopo l’11 settembre, le major hollywoodiane entrarono in modalità panico operativo: film già pronti furono ritirati, scene tagliate, finali riscritti. Era il trauma che riscriveva la sceneggiatura. La censura non venne imposta dal governo, ma da un codice morale corporativo, spinto dalla paura di backlash, boicottaggi e accuse di “antipatriottismo”.
- Film ritirati o posticipati
Collateral Damage (Warner Bros, con Schwarzenegger): raccontava un attentato terroristico. Doveva uscire l’ottobre 2001. Venne rimandato al 2002, con tagli e nuovo montaggio.
Big Trouble (con Tim Allen): una scena includeva una bomba su un aereo. Fu ritirato e rinviato.
Spider-Man (Sony): il primo trailer, che mostrava una ragnatela tra le Twin Towers, fu ritirato d’urgenza. Anche la locandina fu modificata.
Men in Black II: la scena finale con le Twin Towers venne completamente rifatta in CGI, sostituendole con altri edif
Persino Lilo & Stitch della Disney fu modificato: nella scena finale, originariamente Stitch rubava un Boeing e volava tra i grattacieli. Fu completamente rifatta usando un’astronave.
Inizia inoltre un nuovo filone di film, del tipo
Black Hawk Down, We Were Soldiers, The Patriot, Behind Enemy Lines — con una narrativa chiara: noi contro il caos.
United 93 (2006) e World Trade Center di Oliver Stone: la tragedia narrata in chiave sacrificale e commemorativa, senza spazio per il dubbio o la critica.
Gli USA, cioe', entrarono in uno stato di fanatismo culturale ed emotivita' isterica proprio in quel momento. L' 11 settembre non ha solo demolito le twin tower, ha devastato la psicologia degli americani.
Metal band zittite. Film modificati. Episodi cancellati. Libri ritirati. Videogiochi epurati. Tutto ciò non fu una cospirazione, ma qualcosa di più profondo: un riflesso pavloviano dell’industria culturale americana, che davanti alla tragedia reagì con una pulizia estetica e semantica quasi totalitaria. Il risultato fu un panorama uniforme, anestetizzato, dove la realtà era ammessa solo se filtrata da retorica, eroismo e patriottismo.
Ma non fu solo un “riflesso pavloviano”. La realta' e' che siamo abituati a riconoscere la censura quando un governo la applica, appunto, come forma di censura, usando i mezzi del governo: polizia, carcere, legge.
Ma non siamo abituati a riconoscere la censura, quando essa viene privatizzata. Tutti sappiamo cosa fosse il Minculpop, ma nessuno lo riconoscerebbe se fosse Minculpop SPA.
Dopo l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno vissuto un’accelerazione vertiginosa del processo di fusione tra potere politico e industria dell’informazione. Non si trattò soltanto di censura o propaganda nel senso tradizionale del termine, ma di una commistione strutturale, organica, quasi simbiotica, tra lo Stato e i grandi conglomerati mediatici. Un rapporto che non aveva bisogno di ordini diretti, né di diktat governativi: bastava la condivisione di interessi, paure, narrazioni, obiettivi. Bastava che ognuno facesse “la propria parte” all’interno di un ecosistema dove la guerra era il prodotto e la cultura il packaging.
Il caso più eclatante — e, in un certo senso, paradigmatico — è quello dell’“embedding” dei giornalisti durante l’invasione dell’Iraq. A partire dal 2003, il Pentagono inaugurò un nuovo modello di relazione con i media: i reporter venivano integrati direttamente nei reparti militari, viaggiavano con le truppe, mangiavano con i soldati, dormivano con loro. Il risultato era duplice: da un lato si garantiva l’accesso esclusivo a immagini e informazioni, dall’altro si esercitava un controllo totale su ciò che veniva documentato. Le riprese, i reportage, perfino i resoconti scritti venivano sottoposti a vaglio e approvazione. I giornalisti diventavano, di fatto, parte del dispositivo bellico. La narrazione era quella dell’eroismo, del sacrificio, della missione morale. Non c’era spazio per il dissenso, la complessità, l’ambiguità.
Ma il vero collante di questa fusione tra media e governo fu l’economia dell’informazione. Nel 2001, Clear Channel Communications (oggi iHeartMedia), il più grande gruppo radiofonico degli Stati Uniti, possedeva oltre 1.200 stazioni. Subito dopo gli attentati, fu proprio Clear Channel a distribuire la famigerata lista dei 160 brani “sconsigliati”, dando il via a una forma di censura musicale volontaria, preventiva e capillare. Ma quel gesto non nacque nel vuoto. Il CEO di Clear Channel, Lowry Mays, era uno dei principali donatori del Partito Repubblicano. Il gruppo aveva legami solidi con ambienti conservatori e religiosi, e aveva tutto l’interesse a dimostrarsi “patriottico”, allineato, compiacente. La censura, in questo caso, non fu imposta: fu un regalo. Un atto di fedeltà. Un segnale politico.
Lo stesso si può dire per i grandi network televisivi. CNN, Fox News, MSNBC e gli altri canali via cavo si trasformarono rapidamente in macchine di propaganda soft, perfettamente sincronizzate con le esigenze del governo Bush. I talk show si riempirono di ex-generali, consulenti militari, strateghi geopolitici: volti credibili, autorevoli, che in realtà spesso avevano interessi diretti nell’industria bellica, nei think tank neoconservatori, o nei contratti governativi. Fox News, in particolare, si fece portavoce aggressiva della retorica patriottica e della guerra preventiva. Ma anche CNN non fu da meno: si allineò, si autocensurò, si disciplinò. Nessuno voleva essere accusato di “fare il gioco dei terroristi”.
In parallelo, l’apparato governativo esercitava una pressione continua, anche invisibile, sulle redazioni e sulle aziende mediatiche. Gli attacchi pubblici contro artisti, scrittori o giornalisti critici venivano spesso orchestrati in modo informale, tramite portavoce, opinionisti, campagne moralistiche. Non serviva vietare esplicitamente un contenuto: bastava stigmatizzarlo. In un sistema dominato da logiche di profitto e branding, nessun editore o produttore voleva prendersi il rischio di sembrare “antiamericano”, soprattutto in un momento in cui il clima politico era così polarizzato e infiammabile.
Ci fu poi il ruolo dell’apparato legislativo e giudiziario. Il Patriot Act, approvato in fretta e furia nell’ottobre 2001, conteneva clausole che — pur non riguardando direttamente i media — permisero all’FBI e ad altre agenzie di monitorare comunicazioni, accedere a dati privati e controllare movimenti sospetti. In un ambiente del genere, l’autocensura divenne la norma. Non perché qualcuno ordinasse di tacere, ma perché il rischio di parlare era troppo alto. I whistleblower venivano trattati come traditori. Le fughe di notizie diventavano reati. L’informazione libera diventava, lentamente, un’anomalia.
A questo si aggiungeva il fatto che molte delle grandi corporation mediatiche erano, e sono tuttora, parte di conglomerati più vasti che includono industrie belliche, servizi tecnologici, appalti statali. General Electric, per esempio, fu a lungo proprietaria di NBC, e al contempo fornitrice del Pentagono. Disney (proprietaria di ABC) aveva interessi diretti nella sicurezza e nelle telecomunicazioni. Time Warner (CNN) gestiva licenze, copyright e distribuzione in territori soggetti a politiche estere aggressive.
In questo intreccio, i confini tra informazione e interesse nazionale si sfumano, si confondono, si dissolvono. Non servono censure dirette. Basta che ognuno difenda il proprio portafoglio.
È questo il vero volto della censura privatizzata: non una stella da cucire sul cappotto, ma un algoritmo che decide cosa mostrarti; non un decreto ministeriale, ma un consiglio d’amministrazione che calibra l’offerta mediatica sul gradimento presunto del pubblico. E nel 2001, quel pubblico voleva sentirsi protetto, rassicurato, vendicato. Tutto il resto era rumore.
In un sistema simile, chi prova a opporsi viene neutralizzato non con la repressione, ma con l’irrilevanza. Le voci critiche, se non erano già famose, venivano ignorate. Gli artisti dissonanti venivano lasciati fuori dai circuiti promozionali. I giornalisti ostili venivano rimpiazzati da “esperti” addestrati alla disciplina. Non c’era bisogno di vietare nulla: bastava non finanziare, non distribuire, non mandare in onda. L’effetto era lo stesso, ma molto più difficile da contestare.
E così, mentre l’opinione pubblica americana si convinceva che il nemico fosse esterno, lontano, barbarico, le strutture interne di potere affinavano la propria capacità di orientare la realtà. Il governo non dovette occupare le redazioni: bastava che le redazioni si offrissero spontaneamente. La paura, il patriottismo e il mercato fecero il resto.
Questa non fu solo una distorsione momentanea causata dal trauma. Fu l’inizio di un modello stabile, in cui la narrazione ufficiale non viene più imposta dall’alto, ma gestita in outsourcing da chi ha tutto l’interesse a mantenerla tale.
Il Minculpop non è morto: ha solo cambiato forma. Oggi ha un brand, un bilancio e una divisione marketing. E nessuno protesta, perché nessuno si accorge che è ancora lì — con la cravatta al posto della camicia nera.
Il punto e' semplice.
E' possibile privatizzare tutti gli apparati tipici di una dittatura. Non e' necessario che sia il governo a dirigerli o crearli sotto la propria egida.
Tutti gli apparati tipici di una dittatura possono essere tranquillamente privatizzati. Non serve che sia lo Stato a idearli, gestirli o rivendicarli sotto la propria autorità: possono benissimo essere creati, mantenuti e imposti da entità private, con la stessa efficacia — se non maggiore — e con un grado di opacità che li rende ancor più insidiosi.
È stato quello il momento in cui Osama Bin Laden ha vinto la sua guerra. Non con una bomba, non con un attentato, ma riuscendo a trasformare gli Stati Uniti nella stessa cosa che dicevano di voler combattere: una dittatura fascista. Con una sola, fondamentale differenza — e perfettamente in linea con la loro ideologia: gli apparati del regime non sono stati costruiti dallo Stato, ma privatizzati.
Del resto, per un Paese in cui si può privatizzare la sanità, che problema c’è a privatizzare anche la censura, la repressione, la propaganda? Invece di un ministero dell'informazione, basta un algoritmo opaco gestito da una tech company. Invece della polizia politica, ci sono società di sicurezza private e reti di sorveglianza operate da aziende che non rispondono a nessuna legge, se non a quella del profitto.
E allora viene da chiedersi: perché mai un campo di concentramento non potrebbe essere una società per azioni, con tanto di consiglio di amministrazione e dividendi trimestrali? Perché le camicie nere devono per forza essere gestite dallo Stato, quando possono essere tranquillamente subappaltate a un’azienda privata? Se ci sono i contractor che fanno la guerra al posto dei soldati, perché non dovrebbero esserci contractor che fanno il lavoro sporco delle squadracce?
In fondo, è solo questione di efficienza di mercato.
E lo ripeto: Osama Bin Laden ha vinto. E gli USA hanno perso.
Perso.
Uriel Fanelli
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