Una vita, una fabbrica.
Questo post nasce dalla solita telefonata obbligatoria con i parenti, quella che finisce sempre con la domanda di rito: «E tua figlia, cosa sta facendo?» La risposta, questa volta, ha lasciato qualcuno spiazzato. Dopo essersi diplomata, ha deciso — come molti ragazzi tedeschi, e non solo — di prendersi un "anno sabbatico" per capire che diavolo vuole fare della propria vita. E per rendere la cosa ancora più nobile, ha scelto la via più “facile” per vincere moralmente: un anno di volontariato, aiutando persone con un tipo particolare di disabilità.
Qui in Germania non è affatto strano. Quando una cosa la fanno in tanti, diventa normale, entra nel lessico quotidiano, e finisci per considerarla una possibilità sensata. Non ha “lasciato la scuola”, semplicemente vuole capire se e come proseguire. Con i voti che ha, potrebbe entrare in qualunque università — e qui non è una formalità: l’ammissione è davvero selettiva, e con voti mediocri resti fuori.
Perciò, personalmente, non ho nulla da obiettare.
Il problema, come sempre, è spiegarlo agli italiani.
L’FSJ esiste dal 1964, introdotto inizialmente come alternativa civile al servizio militare. Col tempo è diventato una sorta di palestra di realtà per i giovani tedeschi: un anno in cui fare qualcosa di utile, imparare a lavorare, scoprire come funzionano davvero le istituzioni e, magari, cambiare idea su cosa si vuole diventare.
Non è solo per chi sogna di “aiutare il prossimo”: esistono anche versioni dedicate all’ambiente (FÖJ, Freiwilliges Ökologisches Jahr), alla cultura, alla protezione civile e perfino alla cooperazione internazionale.
Lo Stato copre vitto, alloggio e un piccolo stipendio simbolico. In cambio, i ragazzi lavorano a tempo pieno e fanno formazione continua. Non è un parcheggio, è un modo per crescere — e per capire, sul campo, quanto vale la frase “fare la propria parte”.
In Germania l’FSJ non è considerato un modo per “perdere tempo”, ma l’esatto contrario: è una dichiarazione di responsabilità. Fare un anno di volontariato significa assumersi un ruolo concreto nella società, anche se temporaneo, e affrontare persone e situazioni reali.
I genitori e gli insegnanti lo vedono come una tappa di crescita, non come una fuga. Serve a capire che tipo di lavoro si vuole fare, o se davvero si è tagliati per l’università.
In Italia, invece, l’idea di fermarsi un anno viene ancora letta come una deviazione dal percorso “giusto”. Qui se non ti iscrivi subito all’università, sembri già in ritardo. In Germania, invece, l’FSJ è un segno di equilibrio: significa che stai pensando prima di scegliere.
Si può fare anche all’estero.
Mia figlia, per esempio, è andata in Nuova Zelanda. Perché? Perché l’unico Paese che conosceva, oltre alla Germania, era l’Italia — e ha deciso che non le bastava.
Il problema nasce quando lo racconti agli italiani.
Prima di tutto perché è stata la prima decisione “pesante” che ha preso nella sua vita, e questo in Italia mette a disagio. Qui già c’è da combattere per ottenere il diritto al Fine Vita — figurarsi se qualcuno ti lascia decidere sul Durante Vita.
Una scelta? Fare una scelta? Da sola? E addirittura una scelta per capire cosa scegliere dopo? Decidere? Tu?
Assolutamente no.
Perché è vero: la società italiana è costruita per essere completamente consuetudinaria. Non tollera, o tollera molto male, l’idea che qualcuno prenda decisioni sulla propria vita. Quando un ragazzo deve scegliere l’università, per dire, come fa?
Ascolta i compagni di classe, che ne sanno quanto lui — cioè nulla — perché hanno la stessa età e la stessa esperienza di vita. Poi chiede alla famiglia, che magari non ha nemmeno mai messo piede in un’università, ma sa perfettamente “dove conviene lavorare”. Che poi gli piaccia o che sia felice, è un dettaglio.
Infine arriva la nonna, che ne sa a pacchi e fa una crostata che spacca, e quindi la sua opinione pesa più di qualsiasi test attitudinale.
E così si guarda un po’ cosa fanno gli altri, si copia, si segue l’inerzia delle consuetudini. L’idea che una persona possa prendersi del tempo e fare esperienza per decidere davvero non è contemplata — perché, molto semplicemente, non è contemplato che qualcuno decida.
Prendere decisioni, del resto, non e' la specialita' degli italiani, che procedono quasi sempre come dei proiettili balistici. Per inerzia. "Ormai avevo scelto quell'universita' ", sentite dire. Non male , per dire "per una scelta sbagliata a 18 anni, adesso mi rovinero' l'intera esistenza".
La societa' italiana tollera poco, e tollera male, le persone che decidono.
Decidere, del resto, implica e richiede che la vita sia davvero vostra.
E capite bene che, se già quando qualcuno vuole decidere come morire — affermando in definitiva di essere proprietario, o almeno amministratore, della propria esistenza — succede il finimondo, figuratevi cosa accade se qualcuno pretende di decidere, cioè di impossessarsi della propria intera esistenza.
Da questo nasce un'antipatia innata verso una persona che decide di prendersi un anno per decidere. Qui siamo alla follia! Una decisione ricorsiva: ha preso la decisione di prendersi un anno per prendere una decisione ancora meglio!! E lo ha fatto che non aveva nemmeno diciotto anni! E tu, padre snaturato, glielo hai lasciato fare, esponendola ai pericoli inenarrabili della vita in Nuova Zelanda!!!!!
Non ho voluto spiegare loro che la Nuova Zelanda, socialmente, è praticamente una Svizzera che parla inglese e ha i Māori, e che il livello di sicurezza — sociale e criminale — è semplicemente senza paragoni in Italia.
A dire il vero, l’avrei esposta a più pericoli se avesse deciso di andare a studiare a Bologna, non in Nuova Zelanda.
Ma prova tu a spiegare tutto questo a chi è convinto che “l’estero” inizi a Ventimiglia e finisca a Londra.
Ma i pericoli di cui parlano non sono quelli.
Il vero pericolo è che, prendendo questa decisione, ha sancito che la sua vita le appartiene — e che quindi ha il diritto di farne ciò che vuole.
Nella cultura italiana, l’idea che qualcuno prenda decisioni, specialmente se giovane — e per giunta donna — è qualcosa di inconcepibile, quasi sospetto.
Chi decide, in Italia, viene immediatamente catalogato come “incostante”, “inaffidabile”.
Hai cominciato a lavorare in un’azienda? Bene, adesso ci resti. Come osi prendere la decisione di andartene, se non ti hanno licenziato o bruciato la sede?
In Italia, le decisioni si prendono solo per tre motivi legittimi:
- Sei costretto a reagire, cioè per forza maggiore.
- “Decidi” di continuare la traiettoria precedente, cioè non decidi affatto.
- Il mondo cambia, e tu ti adatti — ma guai a cambiare tu.
Se una decisione viene presa senza una di queste tre giustificazioni, allora sei marchiato: “non sai cosa vuoi fare”, “non sei affidabile”, “potresti cambiare idea anche su cose importanti” — aaaargh, chiamate l’esorcista!.
E come fai, poi, ad assumere uno che “domani sparisce”?
O a sposarti con una che magari domani prende la decisione di andarsene con Arturo? Eh?
È ovvio, allora, che le persone considerate "migliori" — in una società consuetudinaria — siano quelle che vivono per inerzia. Da bambini giocavate a guardie e ladri? Perfetto: andrete in pensione come marescialli dei carabinieri.
Serve davvero che lo ripeta?
Del resto, da expat questa cosa l’avevo già notata.
Quando dissi che avevo deciso di trasferirmi in Germania, tutti diedero per scontato che fossi rimasto disoccupato e fossi stato costretto.
E quando aggiungo che, invece, avevo un lavoro invidiabile, mi guardano come se avessi bestemmiato:
— «Allora perché hai preso questa decisione?»
La stessa scena si ripete anche qui, ogni volta che cambio azienda.
La gente parte dall’idea che non si prendono decisioni se non si è obbligati.
E quindi, per definizione, non è una decisione: è un’urgenza.
Onestamente, la definizione che applico a una società che ragiona così è semplice: asfittica.
Tutti si comportano come palle di cannone: sparate una volta, e una volta sola, costrette a viaggiare su una traiettoria che — salvo un po’ di vento e qualche urto laterale — è già determinata dal passato.
Pensare al futuro come a una pagina bianca, ancora da scrivere, è chiedere troppo.
In Italia chi prende decisioni lo fa, apparentemente, solo perché costretto.
Dire che stai cercando la tua felicità suona quasi osceno.
La felicità, in Italia, è un lusso. Un capriccio da ricchi.
Ti chiedono:
— «Ma se io sono infelice, stringo i denti e continuo su questa strada senza cambiare, tu chi credi di essere, per permetterti di decidere? E i sacrifici?»
Ed è difficilissimo, se non impossibile, spiegare che invece è normale prendere il comando e decidere la rotta, mentre è patologico lasciarsi trascinare dalla corrente.
L’Italia è diventata il paese dell’apatia: capace di fare quello che si è sempre fatto, quello che fanno tutti — e niente di più.
E ogni tanto, qualcuno dal "belpaese" me lo ricorda.