Sull'uso conoscitivo di internet.
L'uso delle tecnologie connesse alla rete, o derivate da essa, è costantemente oggetto di scrutinio, spesso inquadrato in una dicotomia semplicistica tra “buone” e “cattive”. Persino l'intelligenza artificiale viene talvolta dipinta come una forza distruttiva, destinata a scatenare un'orda di robot violenti e indistruttibili che, inevitabilmente, si ribelleranno. Perché? Beh, semplicemente perché qualcuno, a quanto pare, avrebbe pagato per implementare la funzione “ribellione”.
Prima di continuare, una comunicazione di servizio: io NON HO un account su Facebook, non l'ho mai avuto negli ultimi 10 anni, e non ho intenzione di immergermi nell' “Ospizio di Intenet”, cioe' in quella specie di fenomeno geriatrico fatto da vecchi ossessionati da cose (gender, scie chimiche, comunisti, fascisti) e giovani ossessionati a furia di ascoltare i discorsi dei vecchi. Se qualcuno usa il mio nick su Facebook, non sono io. Che non sono giovane, ma non ancora cosi' vecchio da avere un account su Facebook
Bene, chiarito questo, procediamo.
In realtà, la rete può rivelarsi uno strumento straordinario di apprendimento e di esplorazione della verità, a condizione che si abbracci l'idea del “viaggiare” e che la si utilizzi per entrare in contatto diretto con le persone che creano le notizie.
Un esempio significativo è rappresentato dal fenomeno degli INCEL.
I giornalisti, nella maggior parte dei casi, si sono limitati a effettuare ricerche superficiali su Google, ripetendo meccanicamente ciò che vi hanno trovato. Eppure, con un minimo di impegno in più, sarebbe stato possibile condurre un’indagine più accurata: bastava iscriversi a tre o quattro dei loro forum e interagire direttamente con gli utenti. Certo, questo richiede più tempo di quanto un giornalista medio sia oggi disposto a investire per informarsi, ma porta a scoperte interessanti.
Secondo la ricerca di Jaki et al. (2019), pubblicata su Proceedings of the International AAAI Conference on Web and Social Media, le comunità INCEL online rappresentano spazi altamente eterogenei e complessi, caratterizzati da un linguaggio spesso misogino, ma anche da dinamiche interne non sempre riconducibili a semplici cliché mediatici. Studi come quello di Maxwell et al. (2020), su New Media & Society, evidenziano come le interazioni dirette con questi ambienti permettano di cogliere sfumature importanti, altrimenti invisibili a un’analisi di superficie.
Insomma, la rete non è solo un deposito di contenuti replicati all'infinito: è anche un terreno di esplorazione in cui immergersi per comprendere davvero la realtà che vi pulsa dentro.
Quando ho iniziato a dialogare con questi utenti, mi sono subito accorto che la maggior parte di loro faceva riferimento a bizzarre teorie pseudo-scientifiche, ispirate al modello di Pareto. Secondo questa visione, la maggioranza delle donne sarebbe attratta soltanto da una ristrettissima élite di uomini — i cosiddetti “Chad” o “alfa” — con i quali, sempre secondo loro, si accoppiano esclusivamente. In sostanza, loro si ritengono “normali” e, per questo, condannati all'irrilevanza.
Di per sé, questa teoria appare del tutto infondata e non trova alcun riscontro nella genetica moderna, che basterebbe a confutare queste pretese con una semplice analisi a campione. Ricerche nel campo della biologia evolutiva e della psicologia evoluzionistica, come quelle di Buss e Schmitt (2019) su Psychological Inquiry, evidenziano infatti che le scelte di accoppiamento sono molto più complesse e variegate di quanto queste teorie lascino intendere.
Eppure, per i giornalisti “generalisti”, questa semplice smentita basta a liquidare l'intero fenomeno. Non si prendono la briga di approfondire, di capire le radici di queste convinzioni.
Quando, parlando con loro, ho chiesto esempi pratici e come intendessero “fare dating”, la risposta è stata sempre e solo una: le app, in particolare Tinder. Per chi, come me, ha conosciuto il proprio partner in contesti più informali — concerti, cene tra amici, palestre, attività ricreative o viaggi — questa ossessione per le app può sembrare quasi superficiale.
Ma quello che spesso si ignora è che, negli Stati Uniti, la realtà delle interazioni sociali è stata progressivamente sostituita, prima dalla televisione e poi da Internet. Come ha sottolineato il sociologo Sherry Turkle nel suo libro Alone Together (2011), negli USA il rapporto tra individui e tecnologie digitali ha trasformato radicalmente la percezione stessa del “dating”. Oggi, conoscere qualcuno allo scopo di formare una coppia avviene quasi esclusivamente tramite app: un fatto che, da questa parte dell'Atlantico, fatichiamo ancora a comprendere appieno.
Il problema, in fondo, è che ciò che gli INCEL sostengono è vero… ma solo entro certi confini. Non perché sia davvero vero nella realtà complessa dell’attrazione e della formazione delle coppie — un campo dove le variabili sono praticamente infinite. Il punto è che questa visione è vera all’interno delle app. E ne abbiamo la conferma, perché piattaforme come Tinder forniscono spesso dati e statistiche che mostrano chiaramente queste dinamiche.
Il fenomeno dello “swipe” ha trasformato il processo di selezione in un vero e proprio supermercato. Ma fermiamoci un attimo a considerare come funziona un supermercato: trascini il carrello tra centinaia di prodotti, ma alla fine ne scegli solo uno o due. In questo contesto si manifesta l’ipergamia di cui gli INCEL si lamentano: la selezione spietata e verticistica, favorita dall’abbondanza e dall’accessibilità immediata.
Sarebbe bastato poco a un giornalista per porsi la domanda giusta: “Va bene, voi dite che questo fenomeno è reale. Ma dove, esattamente, si manifesta?”. Avrebbero risposto in fretta: “Su Tinder, ovviamente”. E allora la replica logica sarebbe stata: “Ma Tinder non è la realtà, è un’applicazione, un ambiente virtuale”. E a quel punto vi avrebbero risposto: “Mai sentita nominare questa cosa: ma oggi esiste davvero un altro modo di fare dating?”.
Come sottolinea l’analisi di David et al. (2018) su Computers in Human Behavior, le logiche delle app di dating alterano profondamente la percezione di sé e degli altri, generando meccanismi di scelta iper-selettivi e una forte polarizzazione nelle opportunità di incontro. Ecco perché, in un certo senso, gli INCEL non mentono: semplicemente, raccontano una verità che esiste… ma solo dentro l’algoritmo.
Gli incel non mentono. L'ipergamia esiste, eccome. Solo che esiste nel mondo delle app di incontri. Il guaio e' che oggi, negli USA, le app di incontri sono l'unico modo di fare “dating” che le nuove generazioni conoscano.
E i dati pubblicati — di solito annualmente — da aziende come Tinder confermano questa tendenza.
Ad esempio, il report “Year in Swipe” di Tinder (consultabile sul sito ufficiale dell’azienda) fornisce statistiche dettagliate su preferenze, comportamenti e scelte degli utenti. Studi indipendenti, come quello condotto da Bruch e Newman su Science Advances (2019), hanno dimostrato che le dinamiche di “ipergamia” percepite dagli INCEL non sono del tutto infondate, ma riflettono proprio il modo in cui funzionano queste piattaforme.
Tuttavia, questi numeri non rappresentano la realtà nel suo insieme, ma solo la realtà delle app — che è un contesto specifico, con regole e dinamiche proprie.
Sono gli INCEL che credono che le app siano l'unico modo di rimorchiare.
Questo modo di “investigare” comodamente dal salotto di casa, tuttavia, è raramente compreso. E questo per due motivi fondamentali.
In primo luogo, una volta stabilito un pregiudizio verso qualcuno, i giornali tendono a comportarsi come tifoserie calcistiche: se non ti schieri contro di loro, sei automaticamente considerato a favore. È un meccanismo binario che alimenta la polarizzazione e, soprattutto, maschera la superficialità del giudizio che viene espresso.
Ma lasciamo da parte gli esempi concreti. Il punto essenziale è che, parlando direttamente con le persone, non si scopre solo ciò che pensano. Si comprende anche il contesto in cui queste idee prendono forma e si sviluppano.
Il problema è che il contesto, oggi, sembra destinato a scomparire dal discorso pubblico, sostituito dall’ossessione per la contrapposizione e dall’incapacità di ascoltare davvero.
Come osserva il sociologo Zygmunt Bauman in Retrotopia (2017), la società contemporanea tende a ridurre la complessità delle interazioni umane a una logica binaria — amico/nemico, giusto/sbagliato — cancellando proprio quella dimensione contestuale che sarebbe invece fondamentale per comprendere la realtà.
Ma questa dimensione — questa profondità — la si apprezza solo parlando con le persone, non studiandole come se fossero formiche o facendo ricerche su Google.
Quando le persone dicono “informati su internet”, raramente intendono “vai a parlare con loro”. Piuttosto, ciò che vogliono dire è: “leggi quello che qualcun altro ha scritto su queste persone”.
Il modello tradizionale di comprensione si riduce quindi a un percorso lineare:
Opera scritta da altri → Motore di ricerca → Lettura dell’opera → Comprensione.
Ma Internet, potenzialmente, offre un’alternativa radicale:
Parlaci → Capiscili.
Eppure questo modello interattivo — diretto, empatico, partecipativo — viene sfruttato pochissimo.
Questo vale per tutti i gruppi umani di cui si parla spesso sui media.
Personalmente, durante la prima “meme war” del 2016, ho avuto modo di conoscere da vicino quasi tutti i gruppi che si organizzavano nella cosiddetta Alt-Right. E l’impressione che ne ho ricavato era molto diversa da quella riportata dai giornali.
In primo luogo, contrariamente a quanto spesso si sostiene, gli outlet di disinformazione più attivi e presenti non mi erano sembrati quelli russi — che anzi apparivano spesso inefficienti e obsoleti — ma piuttosto quelli israeliani. Benjamin Netanyahu, infatti, era già un abile demagogo e comunicatore ben prima che Donald Trump emergesse come figura politica di rilievo.
Non è stato Trump a inventare Netanyahu, semmai è successo l’opposto. Netanyahu, infatti, ha iniziato la sua carriera politica come Primo Ministro di Israele già nel 1996 (Fonte: Knesset – “Benjamin Netanyahu,” 2024), mentre Donald Trump è entrato ufficialmente in politica con la sua candidatura alle presidenziali americane nel 2015, per poi vincere nel novembre 2016 ed entrare in carica nel gennaio 2017 (Fonte: The White House – “President Donald J. Trump,” archivio ufficiale).
Eppure, quando si parla di disinformazione sul web, si punta sempre il dito contro i russi e i gruppi sovranisti legati a Mosca (cfr. Pomerantsev, P. This is Not Propaganda, 2019). Gli israeliani e i media israeliani — o i gruppi editoriali controllati da interessi israeliani — sono invece sistematicamente esclusi dal discorso, come se fossero immuni o non coinvolti affatto.
Un’analisi di questo doppio standard si trova, ad esempio, in studi come quello di Tim Squirrell (Cambridge Internet Institute, 2018), che sottolinea come la copertura dei media occidentali sulle campagne di disinformazione privilegia la “minaccia russa” rispetto ad altri attori geopolitici, inclusi quelli israeliani, per ragioni legate a equilibri diplomatici e commerciali.
La stessa presenza di gruppi nazisti, peraltro, mi era sembrata marginale. È vero che i gruppi paramilitari possono colpire l’immaginario per il loro armamento e il fanatismo, ma non erano tipi da web. Lo stesso discorso vale per la destra americana più religiosa: la loro presenza online era limitata e meno influente di quanto si creda.
In realtà, la strategia comunicativa era un’altra: convergere su tecniche di “triggering” per far emergere e amplificare le frange più estreme o sgradevoli della sinistra, così da associarle al Partito Democratico e minarne la credibilità.
Questa è un’operazione che non fanno le “teste rasate” con un AR-15, ma piuttosto i gruppi anonimi e iper-digitali di piattaforme come 4chan o 8kun (Non sono l'unico a pensarlo: Phillips, W. This is Why We Can’t Have Nice Things, 2015; Nagle, A. Kill All Normies, 2017).
Certo, molti militanti erano politicamente motivati e già esperti di internet, ma non facevano parte di quei gruppi paramilitari o delle milizie religiose. Questi ultimi esistono — e sono attivi sul territorio — ma nel panorama online sono quasi assenti o hanno un ruolo marginale.
La mia impressione, quindi, è che la stampa — troppo spesso superficiale e frettolosa — finisca per spingere l’opinione pubblica contro obiettivi sbagliati.
Questo accade perché si rifiuta di utilizzare internet come strumento esplorativo, preferendo invece trattarlo come una semplice biblioteca dove raccogliere informazioni già confezionate e non mettersi mai davvero in gioco.
La mia impressione, quindi, è che la stampa — troppo spesso superficiale e frettolosa — finisca per spingere l’opinione pubblica contro obiettivi sbagliati.
Questo accade perché si rifiuta di utilizzare internet come strumento esplorativo, preferendo invece trattarlo come una semplice biblioteca dove raccogliere informazioni già confezionate e non mettersi mai davvero in gioco.
Il risultato è che fenomeni come quello degli INCEL vengono osservati solo in superficie. I giornali si limitano a riportare numeri e stereotipi, senza capire il contesto in cui questi numeri hanno senso — come avviene, ad esempio, sulle app di dating.
Il rischio è che la narrazione pubblica confonda la realtà offline con la realtà artificiale delle piattaforme, e finisca per ignorare le vere dinamiche sociali e psicologiche che stanno dietro a questi fenomeni.
Anche perché, se è vero che gli INCEL confondono le dinamiche delle app con la vita reale — convinti che l’unico modo per conoscere ragazze sia proprio attraverso queste piattaforme —, per la maggior parte degli italiani la realtà è costituita dai giornali letti su internet.
Le persone che scambiano le app per la realtà vengono descritte in modo superficiale, senza mai parlarci davvero.
E le valutazioni sbagliate che ne derivano finiscono poi in mano ad altre persone, che a loro volta confondono la stampa con la realtà.
Così, il circolo vizioso dell’informazione imprecisa si alimenta da solo.
Eppure, Internet stesso fornisce un'opportunita' immersiva di entrare nei temi: parlare con le persone coinvolte.
Uriel Fanelli
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