Sulle “Argentee teste d’uovo”

Era un po’ che volevo scrivere di questo progetto, ma il continuo e snervante atteggiamento di chi esclama “ma come, tu blogghi con la IA?” mi spinge a farlo subito. Devo dire che è un esperimento interessante, anche se mi ha colpito un punto in particolare: loro fanno il prompt “al contrario” rispetto a come lo faccio io.

Ci sono diversi modi per scrivere i prompt, e ognuno di essi è adatto a uno scopo ben preciso. La loro natura, potremmo dire, è sempre situazionale. Come ricordava Niklaus Wirth, “programma = dati + algoritmo”: un prompt, in fondo, non è altro che l’istruzione iniziale per dare forma a una funzione conversazionale, capace di generare risposte.

Mettiamo, ad esempio, che io voglia capire se un giornale come “la Repubblica” stia modificando il proprio atteggiamento verso Elon Musk. La mia intenzione non è semplicemente leggere un articolo e ricavarne una vaga impressione: voglio quantificare questo eventuale cambiamento nella scrittura, renderlo misurabile. È un obiettivo che richiede di trasformare un discorso qualitativo in dati numerici.

Ma come si fa, esattamente, a “trasformare” un giornale in numeri? È qui che entra in gioco la precisione del prompt. Se lascio semplicemente fare alla IA, limitandomi a porre la domanda – “La Repubblica è più critica o più benevola verso Musk?” – rischio di ottenere risposte ampie, discorsive, e spesso piene di sfumature soggettive, come osserva anche Norvig nel suo “Paradigms of Artificial Intelligence Programming” (1992): senza specificità, la macchina cerca di compiacere piuttosto che di misurare.

Tuttavia, io parto da un dato certo: voglio dei numeri, non impressioni. È questo il mio punto di partenza. Per ottenere risultati davvero utilizzabili, devo scrivere un prompt che condizioni l’output in modo inequivocabile. In pratica, dirò alla AI che voglio sapere se la Repubblica sta cambiando tono verso Musk, soprattutto ora che ha avuto un acceso scontro con Trump. E dirò anche che per farlo, deve individuare le menzioni a Musk in un insieme di articoli – immaginiamo di usare Python e le API (o MCP, per i più smaliziati).

Ma la parte cruciale non è soltanto la ricerca delle menzioni: è la definizione del risultato atteso. Questo passaggio, spesso trascurato, fa la differenza tra un’analisi rigorosa e un discorso privo di rigore. Nel mio prompt, infatti, scriverò con precisione:

“Mi aspetto come risultato una tabella con il titolo dell’articolo, la data di pubblicazione, l’autore, quanto parla bene di Musk, quanto parla male di Musk e il rapporto tra questi due valori. Il tutto in formato CSV, usando la virgola come separatore.”

In questo modo, la IA non potrà divagare, né rifugiarsi in considerazioni generiche o commenti superflui. La richiesta è chiara e vincolante: voglio numeri e li voglio in un formato strutturato, pronto per un’analisi comparativa.

Questa differenza tra chiedere un’opinione e chiedere dati strutturati è la chiave di volta dell’interazione con l’IA. Senza una specifica così dettagliata, la stessa domanda potrebbe produrre un testo prolisso, magari anche interessante dal punto di vista retorico, ma del tutto inutile per l’analisi che intendo fare. Come ricordava anche Claude Shannon, “l’informazione è ciò che riduce l’incertezza”. Ed è proprio questa riduzione dell’incertezza – attraverso la chiarezza del prompt – che trasforma l’IA da chiacchierona generica a strumento di lavoro affidabile.


Al contrario, chi scrive sulle Argentee Teste d’Uovo sembra adottare un approccio radicalmente diverso, quasi antitetico. Non pare davvero interessato a ottenere un risultato preciso, puntuale o confezionato in un certo stile. Per esempio, non si premura di chiedere che il risultato sia elegante, sarcastico, divertente o qualsiasi altra cosa in particolare. Il loro intento pare più esplorativo che finalizzato, più aperto all’improvvisazione che ancorato a un obiettivo definito.

Usano, infatti, un secondo approccio alla scrittura del prompt: anziché descrivere in dettaglio come dev’essere l’output, si concentrano sull’input e sulle operazioni da svolgere. Potrebbero, certo, indicare il numero di parole come vincolo o suggerire un tono – formale, colloquiale, ironico – ma spesso lasciano che la forma finale emerga in modo spontaneo e naturale. Come se la forma fosse una variabile secondaria, lasciata al caso o all’estro del momento.

In questo approccio, dunque, l’output resta un territorio vago, una terra di confine. Si descrive l’input, si chiarisce la procedura, ma si accetta che la IA interpreti liberamente la forma finale. È un po’ quello che succede in programmazione: programma = dati + algoritmo, come sosteneva Niklaus Wirth nel suo classico Algorithms + Data Structures = Programs. La struttura e l’esito, insomma, dipendono dall’algoritmo e dai dati, ma anche da quanto strettamente viene definito il risultato.

Tuttavia, questo metodo funziona bene solo in due casi ben distinti:

Ed è legittimo? Sì, ma solo a seconda del contesto e delle finalità. Se tutto quello che si desidera sono articoli o testi generici, senza un vincolo formale rigido, questo approccio va benissimo: la IA genererà contenuti sufficientemente coerenti e fluidi, spesso anche sorprendenti. Ma se l’obiettivo è ottenere risposte precise o dati strutturati – se, ad esempio, serve un’analisi quantitativa o una tabella pronta all’uso – allora è decisamente meglio descrivere in dettaglio anche il formato d’uscita. La chiarezza non è mai un orpello, ma la vera chiave per risultati affidabili.

Queste due attività, in fondo, si collocano agli antipodi. È come chiedere un elenco di ristoranti in una certa zona: se non si danno specifiche, la risposta della IA sarà probabilmente generica o discorsiva, una lista in ordine casuale e senza dettagli uniformi. Se invece si precisa che in uscita ci si aspetta un elenco puntato con nome, indirizzo, telefono e orari di apertura, il risultato sarà molto più strutturato e utilizzabile.

Qui, appunto, la differenza la fa il livello di precisione che serve. E, di conseguenza, la capacità di scrivere un prompt che, come un buon progetto architettonico, indichi non solo il tipo di materiali (input e operazioni), ma anche l’aspetto finale della costruzione.


In generale, l’esperimento ha un sapore fresco, quasi pionieristico. C’è sicuramente qualcosa di nuovo nell’uso dell’IA in questo contesto, un’energia che può affascinare. Ma, a conti fatti, credo che l’utilizzo principale dell’IA qui sia di tipo eminentemente “produttivo”: consente a un piccolo team di generare un flusso costante di articoli, capaci di rivaleggiare in quantità e, in certi casi, in qualità, con gli editoriali dei grandi giornali. Un risultato di tutto rispetto, senza dubbio.

Tuttavia, non possiamo definirlo davvero un giornale scritto dalla IA. Se si trattasse di prendere le notizie più rilevanti dalle agenzie e condensarle con l’aiuto dell’IA – un’operazione di sintesi e razionalizzazione – allora sì, sarebbe una trasformazione radicale. In quel caso, la condensazione porterebbe la macchina a selezionare solo i fatti nudi e crudi, tagliando con decisione tutte le esagerazioni, le opinioni e i vezzi retorici. Sarebbe un prodotto completamente diverso: asciutto, essenziale, forse persino più affidabile di tante “penne umane” inclini al sensazionalismo.

Ma qui, invece, mi sembra che ci si sia fermati a metà strada. Un esperimento interessante, certo, ma incompleto. Non è la creazione di un vero “giornale scritto dalla IA”, bensì un laboratorio ibrido, dove la mano dell’uomo e l’algoritmo si alternano senza però spingersi fino in fondo. Forse è una scelta prudente, un modo per non urtare la suscettibilità e la vanità della stampa tradizionale. O forse è semplice cautela, per evitare la tentazione di trasformare l’IA in un motore di fastidio politico e calli “importanti” pestati.

Così, alla fine, resta la sensazione di un esperimento fatto a metà. Con il gusto della scoperta, ma anche con i freni tirati. E chissà se un giorno vedremo davvero un quotidiano interamente scritto dalla IA, dove la parola umana si limita solo a fissare la meta, e lascia al silicio il compito di tracciarne la rotta.


In definitiva, l’esperimento è senza dubbio interessante e segna un passo avanti nell’uso pratico dell’IA per la produzione editoriale. Tuttavia, sembra più orientato a rispondere alla domanda “quanto potrei risparmiare facendo un giornale con la IA?” piuttosto che interrogarsi su un aspetto più profondo e stimolante: “che tipo di giornali scriverebbe una IA senza vincoli politici, senza interessi di parte, senza la necessità di compiacere o disturbare qualcuno?”

È proprio qui che si apre una riflessione cruciale: l’IA potrebbe rivoluzionare non solo la quantità e la rapidità di produzione, ma anche la qualità, l’imparzialità e il coraggio del giornalismo.

Per ora, però, sembra che si preferisca utilizzare questa tecnologia come mero strumento di efficienza, lasciando da parte il potenziale più autentico e rivoluzionario che potrebbe davvero cambiare il modo in cui raccontiamo la realtà.

Uriel Fanelli


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