Sull'abuso della lingua.
Ho affermato più volte che definisco come “propaganda” l’uso della libertà di parola contro la libertà di pensiero. Questa affermazione nasce dall’osservazione che troppo spesso il linguaggio viene adoperato in modo ambiguo, sfruttato come un veicolo “commerciale” per vendere idee o concetti che, in verità, non coincidono con ciò che dichiarano di essere. L’ambiguità linguistica, come notava già George Orwell nel suo celebre saggio “Politics and the English Language” (1946), costituisce uno strumento potente per manipolare il pensiero e dissimulare la realtà.
Questa propensione alla manipolazione verbale, tuttavia, mi ha sempre spinto verso un naturale interesse per la scienza e la tecnica. Questi ambiti, per loro stessa natura, tendono a perseguire un rigore metodologico che rappresenta un sollievo intellettuale di fronte al caos retorico. Eppure, anche nel dominio delle scienze cosiddette “esatte”, si avverte talvolta l’eco di un’infezione semantica: termini scorretti o volutamente ambigui si insinuano nel discorso, aprendo la porta a ciarlatani e falsi profeti.
Non si tratta di una novità: già Karl Popper, nel suo Congetture e confutazioni (1963), metteva in guardia contro il pericolo delle teorie non falsificabili, che si presentano come scientifiche ma che, in realtà, sfuggono a ogni verifica. In un certo senso, possiamo considerare la colpa di questo fenomeno anche nelle pieghe del positivismo ingenuo che permeò la mentalità di alcuni fisici e matematici del Novecento. Tale atteggiamento, orientato a una fiducia eccessiva nella capacità predittiva dei modelli matematici (purche' espressi con termini abbastanza ambigui) , ha fornito terreno fertile a tutta una serie di pseudo-scienze e superstizioni moderne.
Non a caso, basta osservare il mercato contemporaneo dei “numeri ritardatari” nel gioco del lotto, per vedere come la nobile matematica delle “distribuzioni di Poisson” sia stata piegata alle esigenze di un marketing ingannevole. Un triste paradosso, questo, che conferma le parole di Richard Feynman: «La scienza è il credere nell’ignoranza degli esperti», laddove gli esperti stessi possono essere vittime — o complici — della distorsione propagandistica.
Di queste ingenuità, la storia recente della divulgazione scientifica è purtroppo costellata. E oggi, paghiamo il prezzo di queste storture, quando la scienza — il più potente strumento critico che l’umanità abbia mai forgiato — si trova costretta a difendersi non solo dalle fake news, ma anche da chi, in nome di una presunta scientificità, sfrutta la retorica per annacquare il pensiero e confondere le menti.
Intere pseudo-scienze, come la “psicologia evoluzionistica”, sono costruite su una enunciazione troppo ambigua della psicologia, e anche della teoria dell'evoluzione. Si, parlo proprio di quella scienza, quella che dice che una donna sceglie uomini ricchi per mantenere la prole, perche' e' cosi' che si fa in natura per migliorare la specie, ma se gli spieghi che il “consenso” della femmina in natura NON esiste proprio per la stessa ragione, allora fanno finta di nulla e se ne vanno fischiettando.
Prendiamo, per esempio, l’opera di Kurt Gödel. Egli si propose di indagare la completezza della matematica e giunse alla conclusione che essa fosse, appunto, “incompleta”. Tuttavia, è importante soffermarsi un istante su questa parola: “incompleto”. Nel linguaggio comune, evoca l’idea di una mancanza, di un’assenza che necessita di un riempimento; e, quasi come un riflesso automatico, questa suggestione lessicale richiama all’appello presunti esperti di altre discipline — in particolare filosofi che, spesso senza invito, si offrono volontari per “completarla”.
Ma cosa ha scoperto veramente Gödel? Con la brillante invenzione dei cosiddetti “numeri di Gödel”, egli ha dimostrato che in qualunque sistema formale sufficientemente potente da contenere l’aritmetica di base, se esiste il teorema numero uno, allora ne esisterà sempre un secondo, un terzo, e così via, all’infinito. In altre parole, per quanto ci si spinga nell’esplorazione del sistema, rimarrà sempre almeno un teorema vero ma non dimostrabile all’interno di quello stesso sistema. È questo il cuore dei suoi celebri Teoremi di Incompletezza (1931).
A mio avviso, più che un segno di “incompletezza”, questo risultato sembra piuttosto un’illuminazione sulla vera natura sconfinata della matematica. Gödel, in effetti, non ha mostrato che la matematica fosse difettosa o manchevole, bensì che essa è intrinsecamente illimitata: un universo logico che si espande oltre l'orizzonte. Eppure, se potessimo tornare indietro nel tempo e suggerire a Gödel di impiegare il termine “sconfinata” invece di “incompleta”, la sostanza matematica delle sue dimostrazioni non cambierebbe minimamente — ma la retorica dei filosofi da salotto che amano ripetere “la matematica è fallita, lo ha detto Gödel” risulterebbe improvvisamente più ardua da sostenere.
In questo senso, l’interpretazione popolare — e talvolta volutamente fuorviante — dei risultati di Gödel rappresenta un esempio perfetto di come le parole, se usate in modo disinvolto, possano alimentare narrazioni ambigue e distorsioni propagandistiche. Bertrand Russell aveva già avvertito del pericolo insito in queste “malattie linguistiche”, osservando come la filosofia (e la logica stessa) siano spesso vittime di confusioni verbali più che di reali problemi concettuali (Our Knowledge of the External World, 1914).
Se c’è un messaggio da trarre da Gödel, non è tanto la supposta “mancanza” della matematica, quanto la magnificenza della sua infinità: un orizzonte che nessun sistema formale potrà mai esaurire del tutto. E in questo orizzonte senza confini, i veri scienziati trovano lo stimolo a proseguire, mentre i ciarlatani trovano un terreno su cui gettare l’ombra della loro retorica.Sarebbe bastato usare il termine piu' appropriato, “sconfinato” anziche' lo stupido e fuorviante “incompleto”.
Un altro esempio emblematico si presenta quando ci spostiamo nel campo dei fisici: il concetto di “indeterminazione”. Spesso, nel linguaggio specialistico, ciò che i fisici intendono per “indeterminato” è semplicemente ciò che risulta inosservabile con gli strumenti di laboratorio a disposizione. Tuttavia, chiamare “indeterminato” ciò che è semplicemente inosservabile costituisce un errore logico elementare, fondato sulla convinzione che la conoscenza sia necessariamente legata all’osservazione diretta. Ripeto, diretta: se fossimo DAVVERO convinti che non possiamo conoscere la velocita' e la posizione di una particella, non costruiremmo acceleratori per farle collidere in un preciso punto ad una certa velocita'.
In realtà, è noto che possiamo calcolare o prevedere fenomeni che non abbiamo mai osservato direttamente. Prendiamo, per esempio, un treno in corsa: posso conoscere con precisione l’orario d’arrivo ben prima di vederlo, in virtù delle leggi fisiche che governano il suo moto. Estendendo questa considerazione, l’intero futuro, in linea di principio, sarebbe “indeterminato” come una particella subatomica inosservabile. Ma evidentemente questo non è il caso: la matematica del determinismo funziona abbastanza da consentirvi di mettere gli strumenti di misura PROPRIO nel punto del vostro acceleratore nel quale particelle “di cui non potete conoscere insieme la velocita' e la direzione” si scontreranno. Alla velocita' e nella direzione che volevate voi.
Quel che è ancor più paradossale, in questa dialettica dell’indeterminazione, è il ricorso alla teoria delle probabilità per “gestire” l’apparente caos. Eppure, la probabilità è quanto di più deterministico esista: essa non è la negazione della legge, bensì una sua forma suprema. Come notava Richard von Mises già negli anni ’20, la teoria delle probabilità descrive regolarità perfette a livello collettivo (Probability, Statistics and Truth, 1928). Il famoso paradosso del gatto di Schrödinger, che molti amano citare come esempio di “indeterminazione”, illustra in realtà un sistema perfettamente regolato: la probabilità che il gatto sia vivo è esattamente del 50%. Non circa, non “in un certo senso”: esattamente. Non dipende dalle condizioni iniziali (non ci sono farfalle del caos qui), né dalle condizioni al contorno, né dal sistema di riferimento. Il lancio di una moneta in un esperimento bernoulliano produce la stessa simmetria: dopo un congruo numero di lanci, si stabilirà un 50% per ciascun esito. Chiedete a un fisico quanti altri fenomeni fisici mostrano tale determinismo e altrettante invarianze e scoprirete che il “gatto” è in realtà un monumento alla regolarità.
Usare il termine “indeterminazione” in questo contesto è, dal mio punto di vista, un errore concettuale disastroso. Una volta stabilito che un fenomeno obbedisce a una legge di probabilità — la più rigorosa e implacabile delle leggi — allora quel fenomeno è tutto fuorché “indeterminato”. È invece soggetto a regole precise, descritte con una chiarezza matematica ineguagliabile.
Il termine “indeterminazione”, in questo senso, si è rivelato un cavallo di Troia linguistico. La sua adozione da parte dei fisici — Heisenberg, per primo, nel suo principio di indeterminazione del 1927 — ha aperto la strada a fraintendimenti filosofici e a derive pseudoscientifiche di ogni sorta. Non è un caso che questa parola sia stata prontamente adottata anche da discipline come la psicoanalisi, spesso ansiose di abbeverarsi alla fonte della legittimazione scientifica. Come aveva intuito Ludwig Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (Tractatus Logico-Philosophicus, 1921): l’ingenuità dei fisici sta forse nell’aver creduto che, di fronte a un nuovo termine, le persone si sarebbero preoccupate di comprenderne il significato profondo. Ma la storia — e la retorica della filosofia e delle pseudo-scienze — insegna che ciò, purtroppo, non accade quasi mai.
Un altro fenomeno linguistico che ho incontrato di recente è l’uso, a mio avviso discutibile, del termine “intuizionista”. Il problema di questo termine è che regala troppo spazio a chi pretende che la conoscenza sia un pasto gratuito: come se bastasse una folgorazione, un balzo dell’intuizione, per aggirare la fatica e la disciplina che la matematica inevitabilmente richiede. Perché la matematica è, in primo luogo, una disciplina: comporta esercizio, studio e rigore. Comporta, in una parola, fatica.
Naturalmente, in ogni epoca c’è sempre qualcuno che si chiede se non sia possibile eludere questo impegno, andando semplicemente “a braccio”. È così che si generò quel celebre dibattito tra formalisti ed euristi, tra le formiche diligenti e le cicale spensierate. Dibattito che, a ben vedere, fu in gran parte perso dalle formiche, anche per via delle ingenuità linguistiche a cui accennavo prima. Una di queste è la ben nota “incompletezza” di Gödel. Con il suo teorema, Gödel dimostrò che i sistemi formali contengono sempre un numero sconfinato di teoremi; eppure decise di chiamare questa proprietà “incompletezza”. Complimenti vivissimi: la parola evoca la sensazione di un fallimento, quando in realtà descrive un’inesauribile fecondità. Il risultato? Abbiamo scatenato l’orda dei filosofi e dei sofisti che oggi si ergono a commentatori di “una matematica fallita” – come se fosse questo il senso della scoperta di Gödel.
Nello stesso spirito si colloca l’aggettivo “intuizionista”, usato come sinonimo di matematica costruttivista. In realtà, la matematica costruttivista nasce da un problema serio e legittimo: la difficoltà di garantire la coerenza di un sistema man mano che cresce il numero dei teoremi. Come notava già David Hilbert agli inizi del XX secolo, verificare la coerenza di un sistema diventa rapidamente inaccessibile (Über das Unendliche, 1926). Se abbiamo tre teoremi, dobbiamo dimostrare sei relazioni di coerenza; con quattro teoremi, ne servono ventiquattro, e così via, fino a un numero che travalica ogni possibilità umana. A quel punto, il costruttivismo si propone come una via di compromesso: rinunciare a garantire la coerenza complessiva, ma assicurarsi che ciascun teorema sia rigorosamente dimostrato. Se mai un teorema contraddicesse un altro, potremo sempre aggiungere un teorema ulteriore che ne regola la coesistenza, del tipo: “in questa teoria, o vale il Teorema-1, o vale il Teorema-2”.
Fin qui, tutto legittimo. Ma ecco l’equivoco: usare la parola “intuizionismo” spalanca la porta ai profeti dell’improvvisazione. Come se “intuizionista” fosse una licenza poetica per trasformare la matematica in una fiera dell’intuito: un invito a saltare le dimostrazioni e a sostituirle con la parola del Grande Otelma, che dimostra i teoremi “a braccio”, in quanto discendente diretto di paragnosta.
E come se non bastasse, questi stessi profeti portano a sostegno dell’“intuizionismo” l’esistenza dei cosiddetti proof assistant: programmi di calcolo automatico che verificano le dimostrazioni passo dopo passo. Ma anche qui c’è un fraintendimento di fondo: i proof assistant non dimostrano la coerenza dell’intera teoria; non risolvono, insomma, il problema di Hilbert. Offrono solo una verifica locale, non una legittimazione globale. In più, girano su computer binari, mentre gli “intuizionisti” (coerentemente con la loro allergia al principio di non contraddizione) dovrebbero almeno piazzarli su sistemi di calcolo ternari o quantistici, come suggerito dallo stesso Donald Knuth nei suoi studi sul calcolo a tre stati logici (The Art of Computer Programming, 1968-1973).
L’argomento “i proof assistant funzionano, quindi possiamo liberarci di tutta la fatica di costruire teorie coerenti” è, dunque, fragile come un castello di carte. Se davvero non ti interessa la coerenza, se davvero ritieni superfluo il principio di non contraddizione, perché mai vorresti un proof assistant? A che serve una macchina che verifica la correttezza delle tue asserzioni, se hai già deciso che la correttezza è un optional? È la contraddizione di chi, in pubblico, professa disprezzo per la disciplina e, in privato, la invoca come strumento di auto-legittimazione.
Morale della storia: l’uso del termine “intuizionista” al posto di “costruttivista” ha fornito una scusa linguistica a tutte le cicale di questa epoca – coloro che preferiscono l’improvvisazione all’argomentazione, l’estasi dell’intuizione alla fatica della dimostrazione. Ancora una volta, il linguaggio ha offerto loro una patente di rispettabilità, aprendo la strada a equivoci che una scelta più rigorosa avrebbe potuto evitare.
Sia chiaro: non sono un adoratore della fatica. Perché nella scienza – e in ogni campo, se è per questo – la fatica e la pigrizia, alla fine, portano allo stesso risultato: il paragnosta, figlio di paragnosta, che pretende di “dimostrare” cose a braccio, senza passare per il rigore.
A mio avviso, esistono tre tipi di posizioni accademiche:
Le posizioni facili e comode. Quelle dove proliferano i paragnosti, sempre pronti a saltare passaggi e a spacciare l’intuito per conoscenza.
Le posizioni scientifiche. Quelle che richiedono un lavoro giusto e onesto, senza furbizie né scorciatoie.
Le posizioni sacerdotali. Quelle che, deliberatamente, rendono la disciplina più faticosa del necessario. Non per amore della verità, ma per creare un club esclusivo di iniziati, a vantaggio dei “chiarissimi” professori e dei loro riti in pompa magna.
Il vero problema di ogni disciplina è di restare incastrati nel mezzo. Da un lato, bisogna guardarsi dalla tendenza a trasformare la scienza in una cerimonia iniziatica: l’accademia in ermellino, con la marcia del “magnifico” rettore sulle note solenni dell’organo, è solo un modo per erigere barriere artificiali e far fiorire i saperi sacerdotali. Questo atteggiamento è ben visibile sin dal Medioevo: l’università come “studium generale” aveva i suoi rituali d’accesso, come sottolineano storici come Jacques Le Goff (1985, Les intellectuels au Moyen Âge), dove l’abito faceva letteralmente il monaco.
Ma dall’altro lato, bisogna guardarsi anche dall’eccesso opposto: la scorciatoia della semplicità a tutti i costi. È il punto debole in cui si infilano i ciarlatani. Lo ricorda benissimo Paul Feyerabend, che nel suo celebre Contro il metodo (1975) metteva in guardia contro l’illusione che la scienza possa rinunciare ai suoi metodi rigorosi senza finire preda di chiunque brandisca l’“intuizione” come scusa per l’improvvisazione.
Del resto, la scienza ha già avuto i suoi “sacerdoti misterici”, come nella Vienna di fine Ottocento: Ernst Mach e i suoi discepoli cercavano di liberare la fisica dal “metafisico”, ma finirono per creare un linguaggio esoterico a cui solo pochi iniziati potevano accedere (vedi Michael Gordin, Scientific Babel, 2015).
Il punto è che, quando la disciplina si fa troppo comoda e accogliente, spalanca la porta ai paragnosti e ai figli di paragnosta, pronti a infilarsi nella breccia e a proclamare verità improvvisate, tutte rigorosamente “a braccio”. E questa, alla fine, è la vera minaccia: non il rigore, ma l’illusione che basti l’intuito, senza fatica né metodo, oppure che serva essere degli iniziati. Si tratta di una via stretta, affiancata da due errori altrettanto perniciosi.
Sia chiaro: fisica e matematica non sono le discipline che ne soffrono di più. No, il vero Hype è altrove: in questo periodo lo vedete nell’“Intelligenza Artificiale” e, soprattutto, nelle “reti neurali”.
Prendiamo ad esempio la back propagation. È abbastanza semplice far ammettere a un ingegnere informatico che, alla fine, stiamo solo manipolando un tensore: i pesi delle sinapsi sono numeri in un tensore, e l’esecuzione della rete neurale è la moltiplicazione dei valori di input per la trasposta di quel tensore. Fine.
Peccato che quasi nessuno di questi ingegneri si prenda la briga di ricordare un fatto elementare: le trasformazioni tensoriali hanno dei limiti di linearità. Un tensore può mandare un cubo nello spazio di un tetraedro o di un icosaedro, ma non può trasformare un cubo in una sfera o in un cilindro, tanto per capirci. In parole povere: le reti neurali hanno un limite intrinseco. E se non lo sai, finisci a sentire frasi tipo: “Se non sai come risolvere un problema, dai gli esempi in mano a una rete neurale e faglieli imparare.” Uhm. Direi che ci stiamo cercando i guai, non ti pare? Se anche funziona, o meglio sembra funzionare, e' perche' il tensore che ne esce APPROSSIMA il tuo problema nell'intervallo dei tuoi esempi.
La stessa illusione si ripropone oggi, quando l’etichetta “Intelligenza Artificiale” sembra la soluzione a ogni problema. Bisogna ripeterlo, e ripeterlo ancora, alle cicale: un VLLM è un VLLM, punto. No, la tua “fidanzata AI” non ti ama davvero, anche se ti risponde con emoji di cuoricini.
In generale, credo che anche il mondo STEM abbia un grosso problema: la tentazione di liberarsi dall’accusa di “sacerdotalità” usando un linguaggio divulgativo, ma che lascia la porta spalancata ai ciarlatani e ai paragnosti, pronti a spacciare l’ultimo hype come se fosse la pietra filosofale.
Ecco perché mi innervosisce vedere queste parole buttate a caso: se proprio devo scegliere quale dei due errori dovrebbe fare la scienza – tra essere iniziatica e chiusa, oppure cialtronica e alla portata di tutti – preferisco la prima. Senza alcun dubbio.
Alla fine avremo comunque una conoscenza robusta, ad un prezzo: si tratta solo di abituarsi a cerimonie assurde per l'apertura dell'anno accademico, e ad aggettivi random di fronte al titolo, tipo “Magnifico” Rettore, o “Chiarissimo” Professore.
Firmato: il vostro delizioso, saporito, densissimo, invariante, catapulto, detergente [ aggiungi qui altri aggettivi a cazzo] turbovescovo.
Uriel Fanelli
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