Sulla malvagita'.

Sulla malvagita'.
Photo by Marek Piwnicki / Unsplash

Affrontare un tema come la malvagità equivale a infilarsi volontariamente in un campo minato. Non è solo un argomento scomodo: è tuttora un tabù. E ogni volta che lo si sfiora, si finisce per sbattere contro gli stregoni della psicoanalisi, o contro quella vasta costellazione di discipline che iniziano con psico- e pretendono di dire qualcosa sull’anima umana usando scale di valutazione e grafici a torta.

Il problema è semplice: parlare della malvagità come caratteristica ontologica, come qualcosa che alcune persone possiedono e altre no, manda in crisi l’intero impianto culturale che abbiamo costruito attorno al concetto di responsabilità. Immaginate una scena in tribunale: invece di chiedere agli “esperti” se l’imputato sia capace di intendere e di volere, il giudice chiede loro di stabilire se sia malvagio.

A quel punto cala il gelo.

Perché? Perché ci hanno insegnato che la capacità di intendere e di volere sarebbe misurabile scientificamente — cosa che non è, se non in casi talmente estremi da non richiedere alcun esperto — mentre la malvagità sarebbe solo un giudizio morale, variabile, soggettivo, influenzato dal contesto e dall’etica dominante.

Eppure, continuiamo a comportarci come se la malvagità non esistesse, finché non ci esplode davanti. E rimaniamo disorientati.


Storicamente, ogni tentativo di affrontare il tema della malvagità è sempre passato attraverso la religione. Prima ancora di capire cosa fosse, si è iniziato a stabilire chi fosse malvagio. Poi il concetto è scivolato nel più generico “peccatore”.
Risultato? Disastri, persecuzioni, guerre.
Etichettare qualcuno come “malvagio” è sempre stato un marchio a fuoco. Uno stigma. E spesso applicato in modo — per usare un eufemismo — porcamente impreciso.

Ma non è questo il mio punto.
Non mi interessa stilare una lista dei cattivi. Non voglio decidere chi sia malvagio.

Mi interessa un’altra domanda: possiamo parlare di malvagità a posteriori, dopo i fatti, guardando ciò che una persona ha fatto e chiedendoci perché?
Perché certe azioni esistono. Non sono opinioni, sono eventi.

Prendiamo un esempio concreto:
una donna lascia morire di fame sua figlia. Non parlo di supposizioni o di voci: lo sappiamo, lo abbiamo verificato, la scientifica non ha dubbi.
Arrivati a questo punto, cosa fa il sistema giudiziario?
Chiede agli esperti se la donna fosse capace di intendere e di volere.

Fin qui tutto nella norma.

Peccato che questo non risponda alla domanda essenziale:
che cosa la spingeva ad agire così?

Gli psicologi possono tirare fuori tutta la jargon-burocrazia del catalogo DSM: psicosi, depressione, disturbi di personalità assortiti.
Sono etichette rassicuranti.
Ti fanno sentire come se tutto fosse in qualche modo spiegabile, quantificabile, incasellabile.

Ma non ci tolgono quel gelo nello stomaco.

Perché c’è qualcosa che non torna.
E se dicessimo: “l’ha fatto perché è malvagia”?
All’improvviso tutti si irrigidiscono. Sembra una bestemmia, un gesto superstizioso, un ritorno al Medioevo.

Eppure — anche senza scomodare Dio, Satana o altri responsabili immaginari — resta un fatto:


ci sono azioni che non si spiegano tramite lo schema psicologico standard. Non tanto per il fatto che la psicologia non spieghi alcune cose, ma per il fatto che non riteniamo utili queste spiegazioni.


Le religioni abramitiche hanno fatto un disastro concettuale: hanno legato la malvagità alla figura di Satana. O Samael. O Lucifero. Cambia il nome, non cambia la logica: se esiste il male, dev’essere opera sua.
Di conseguenza, ogni volta che si usa la parola “malvagità”, nella testa di molti scatta il corto circuito culturale:
male → demonio → superstizione → roba da Medioevo.

È un automatismo. Un condizionamento secolare.

Risultato: ci riesce difficile pensare che la malvagità possa essere una caratteristica umana, qualcosa di nativo, immutabile, non derivato da una possessione o da un’entità esterna. L’idea ci disturba, perché ci obbliga a considerarci responsabili di ciò che siamo — senza appaltare il lato oscuro della nostra specie a un capro espiatorio metafisico.

Dopo duemila anni di narrativa religiosa, siamo ancora convinti che parlare di malvagità significhi, in qualche modo, parlare del demonio. Come dicevano le vecchie: “È opera dello dimonio”.

E qui casca l’asino.

Perché se vogliamo davvero considerarci più evoluti, dovremmo essere in grado di affrontare il tema della malvagità in modo adulto.
Cioè senza tirar fuori Satana dalla soffitta dei traumi culturali.
Senza trasformare la questione in superstizione.

Se fossimo davvero evoluti — come amiamo raccontarci — potremmo discutere dell’esistenza di una spinta interiore malvagia rimanendo lucidi.
Potremmo analizzare il fenomeno senza sbriciolarci emotivamente, senza isterie moraliste, senza arrampicarci sugli specchi della psicologia clinica.

Ma non è così.

Appena si nomina la malvagità come possibile causa autonoma dei comportamenti umani, il discorso va in tilt. La gente reagisce come se avessi bestemmiato.
Ci irrigidiamo, ci infastidiamo, cambiamo argomento.
Perché è molto più comodo pensare che il male venga dall’esterno — dal demonio, dalla malattia mentale, dal trauma, dal contesto — piuttosto che accettare che alcuni esseri umani possano semplicemente desiderare il male.

Non serve Satana per spiegare certe azioni.
Basta l’essere umano.


Nel post precedente parlavo del piccolo paese di provincia da cui provengo. Un luogo soffocante, popolato da persone meschine, pettegole, miserabili nel senso più stretto del termine. Se oggi mi chiedessero perché fossero così, qualunque spiegazione sociologica verrebbe accolta senza batter ciglio:

Ignoranza, perché il livello di istruzione era basso.
Provincialismo, perché non esistevano stimoli culturali.
Arretratezza, perché la mentalità era ferma agli anni ’50.

Tutte spiegazioni accettabili. Razionali. Rassicuranti.
Sono argomenti di cui si può discutere senza imbarazzo, perché implicano una via d’uscita. Se il problema è l’ignoranza, si aumenta la scolarizzazione. Se è il provincialismo, si portano eventi culturali. Se è l’arretratezza, si favorisce il progresso.

Ma se dico:

«Il problema di quel posto erano gli abitanti malvagi.»

Improvvisamente diventa inaccettabile.
All’improvviso vengo accusato di semplificare.

Perché?

Perché accettiamo solo i problemi che prevedono una soluzione.


Ignoranza → istruzione.
Provincialismo → apertura culturale.
Arretratezza → modernizzazione.

Sono meccanismi che permettono di pensare: si può migliorare.
E ci fanno sentire buoni, efficaci, progressisti.

Ma se dico: «Quelle persone erano malvagie», scatta il panico.

Qual è la soluzione alla malvagità?

Non ce n’è una.

Ecco perché il solo concetto ci infastidisce: la malvagità è percepita come una sentenza definitiva. Se qualcuno è ignorante può diventare colto; se è arretrato può evolversi; se è chiuso può aprirsi al mondo. Ma se è malvagio… non c’è redenzione. Non c’è percorso di recupero. Non c’è “progresso” che tenga.

Dire che un luogo è impregnato di malvagità equivale a dire che non c’è speranza di miglioramento. È una condanna senza appello. Un’etichetta che non può essere strappata.

E forse è questo, in fondo, che spaventa:


l’idea che esistano luoghi, comunità o individui in cui la malvagità non è un incidente, ma una caratteristica.

Non correggibile. Non guaribile.
Solo riconoscibile.


Questo rifiuto di guardare in faccia la malvagità — o persino di ammettere che esista — è ciò che ci rende vulnerabili quando ce la troviamo davanti.
È più facile raccontarsi che Hitler fosse così perché nazista.
È più tranquillizzante credere che fosse un prodotto dell’antisemitismo del suo tempo.
E Hannah Arendt ci ha persino fornito un alibi filosofico: il male sarebbe “banale”, figlio della normalità, dell’obbedienza burocratica.

Peccato che questa sia una scorciatoia.
Elegante, ma pur sempre una scorciatoia.

Attribuire il male a un’ideologia è semplice.
Attribuirlo alla malvagità intrinseca di chi la porta avanti è un’altra storia.

Dire: “Hitler era così perché era nazista” ci permette di dare la colpa a un sistema.
Così possiamo illuderci che, distruggendo il sistema, abbiamo risolto il problema. Una guerra, una resa, un trattato: fine del male.

Ma se osiamo dire: “Hitler e i nazisti erano così perché erano malvagi”, allora crolla tutto.
Non c’è più un nemico esterno da bombardare.
Restiamo nudi davanti all’idea che la malvagità non sia un prodotto di un’ideologia, ma una carburazione interna dell’essere umano.

Ed è una verità che fa paura.

Perché puoi sconfiggere il nazismo.
Puoi proibire simboli, sciogliere partiti, mettere fuori legge un’ideologia.

Ma non puoi abolire la malvagità.

Ora vediamo certi fantasmi tornare:
odio etnico, intolleranza, pulsioni autoritarie.
E ci stupiamo.
Come se non fosse già successo.

Siamo davvero sicuri di aver sconfitto quel male?
Abbiamo distrutto il Terzo Reich, ma abbiamo estirpato la malvagità che lo alimentava?

No.

Abbiamo scambiato la vittoria sul Terzo Reich con la vittoria sul male.
Confusione comoda, politicamente utile, ma falsa.

Quanto ci sta costando, oggi, questo tabù collettivo — filosofico, religioso, psicologico — di affrontare la malvagità come una realtà umana, non come un incidente storico?

Spoiler: più di quanto siamo pronti ad ammettere.


Di fronte a quanto ci viene dai social, dalla societa', dai notiziari, tutto quello che vediamo e' un dilagare di comportamenti malvagi. Prima di tutto malvagi.

E se non abbiamo il coraggio, per ragioni filosofiche o religiose, di analizzare davvero la malvagita e' di capire come si riconosce, e come si combatte, finira' sempre per vincere.Guardiamo i social, leggiamo le notizie, osserviamo ciò che accade intorno a noi: non stiamo assistendo a un aumento di “polarizzazione”, né di “aggressività”.
Quello che vediamo è un dilagare di comportamenti malvagi. Punto.

Prima di tutto malvagi.

E finché continueremo a evitarne l’analisi — per pudore filosofico, per imbarazzo culturale o per riflesso religioso — continueremo a perdere.
Se rifiutiamo di studiare la malvagità, di riconoscerla, di accettare che esiste come realtà autonoma e non solo come effetto collaterale di qualche ideologia o disagio sociale, allora il risultato è inevitabile:

la malvagità vince .