Sul paradosso della tolleranza di Popper.
In questi giorni mi capita una cosa che, alla fine, rimanda al paradosso della tolleranza di Popper. Lo enuncerò tra poco, perché prima voglio chiarire il meccanismo: il punto, in realtà, è semplice e l’ho già visto ripetersi un numero imbarazzante di volte.
Ho cominciato a fare il moderatore quando ancora si moderava su FidoNet. Parliamo dei primi anni ’90, subito dopo gli anni ’80: un periodo in cui era ancora fortissimo quel fastidio generalizzato verso la politica che, paradossalmente, aveva anche “liberato” gli anni Ottanta stessi, rendendoli più leggeri, più cinici e meno sacerdotali. In quel clima, chi viveva di propaganda faticava a trovare spazi ospitali, e dunque iniziava a guardarsi intorno con l’aria di chi ha appena avuto un’idea geniale.
L’idea era sempre la stessa, e puntualmente si presentava come “furba”: prendere uno spazio nato per altro e usarlo come megafono, trasformandolo a forza in strumento di propaganda. All’epoca ci provavano su FidoNet; poi si sono spostati su Internet, e da lì in avanti è cambiata la tecnologia ma non la dinamica. A volte erano politicanti di piccolo cabotaggio; altre volte erano ambienti organizzati, anche religiosi, che a mio avviso contribuivano a costruire o irrobustire reti molto disciplinate (con tratti che io giudico settari) come Comunione e Liberazione. Cambiano i nomi, cambiano le sigle, ma il copione resta identico.
All’epoca mi colpiva questo: il moderatore che, in un forum anche solo limitrofo alla politica studentesca, prendeva e cacciava i fanatici veniva applaudito, e senza troppi distinguo. Ne derivava una regola non scritta, ma chiarissima: se arrivavano quelli del Fronte della Gioventù o del FUAN a postare materiale negazionista (le “teorie” alla David Irving, per capirci) o qualche pamphlet a sfondo razzista, duravano lo spazio di un paio di messaggi e poi sparivano, tra pacche sulle spalle e commenti soddisfatti.
E, con simmetrica brutalità, la stessa sorte toccava anche al versante opposto: quelli dei centri sociali che scambiavano il dibattito per catechismo rivoluzionario, con le loro tirate sulle BR, sulla “necessità storica”, sulla rivoluzione dietro l’angolo; i reduci (o gli imitatori) della stagione della Pantera che trasformavano ogni discussione in un’assemblea permanente; e poi, in un’altra variante ancora, i fanatici religiosi dei CLU o di CL, quando decidevano che lo spazio non era un luogo in cui parlare, ma un luogo da occupare moralmente.
Questa durezza, oggi, suona quasi inconcepibile: ma allora l’idea che un forum potesse diventare una bacheca di propaganda era percepita come una forma di sabotaggio, non come “pluralismo”. E infatti, proprio per questo, in quel periodo iniziano a emergere (e a raffinarsi) le stesse tecniche che poi avrebbero usato su Internet: entrare di lato, non dichiararsi subito, presentarsi come “ragionevoli”, spostare l’asticella un millimetro alla volta, sfruttare ogni spiraglio procedurale, ogni esitazione del moderatore, ogni desiderio di sembrare imparziale.
Erano tecniche spesso stupide e assolutamente prevedibili; però loro si sentivano furbissimi. Si immaginavano menti strategiche, o raffinati politici machiavellici di primo ordine: in realtà, più banalmente, avevano capito una cosa elementare — che la tolleranza, se diventa rinuncia a difendere le regole, smette di essere tolleranza e diventa resa. Ed è qui che, inevitabilmente, torna Popper e il suo paradosso: una società (o un forum) che tollera senza limiti finisce per consegnarsi a chi non tollera affatto.
E qui entra in gioco il paradosso della tolleranza di Popper.
Il paradosso della tolleranza di Popper dice che una comunità che tollera tutto senza limiti rischia di essere distrutta dall’intolleranza al suo interno. Per restare davvero tollerante, una società deve quindi prevedere un confine oltre il quale non “tollera” chi vuole eliminare la tolleranza stessa.
Se l’intollerante può usare liberamente lo spazio pubblico per delegittimare e zittire gli altri, alla lunga può conquistare il campo e rendere impossibile la convivenza pluralista. In questo senso, la tolleranza illimitata non produce più tolleranza, ma finisce per farla scomparire.
Popper non sta dicendo “censura per principio”, ma che una società aperta deve essere pronta a difendersi quando l’intolleranza rifiuta le regole del confronto razionale e mira a sopprimerle. Il punto è proteggere le condizioni minime del dibattito e dei diritti, non garantire una piattaforma a chi vuole chiuderla per tutti.
Ed è qui che arriva il problema: quello che, secondo me, rivela lo sbaglio di fondo su cui poggia questo paradosso.
Sì, lo so: dire che un paradosso è infondato è un esercizio logico delicato, soprattutto quando in mezzo ci sono nomi come Popper o Russell. In logica spaccavano il capello: definizioni, implicazioni, casi limite, tutto serrato, quasi notarile. Ma quando mettevano il naso nella politica restavano — inevitabilmente — uomini del loro tempo, con le loro categorie e i loro presupposti.
Si erano formati dentro sistemi parlamentari, e i sistemi parlamentari (almeno come vengono raccontati) si rappresentano con un “arco”: si parte dal centro, dove stanno quelli che amano definirsi moderati, e poi ci si allontana progressivamente verso le estremità. Da una parte l’estrema destra, dall’altra l’estrema sinistra; e lì, in fondo, si collocano gli “intolleranti” di cui parla Popper, gli estremisti. Finché continui a immaginare la società come un emiciclo ordinato, questa mappa regge: puoi distinguere i moderati dagli estremisti, gli interlocutori dai sabotatori, i conflitti normali dalle pulsioni apertamente illiberali.
Il guaio è che, se resti prigioniero di questa geometria, dal paradosso non esci mai. Perché quella linea — centro, periferia, estremi — ti costringe a cercare l’intolleranza solo dove ti aspetti di trovarla: agli “angoli” dell’arco, come se fosse sempre riconoscibile, sempre dichiarata, sempre in divisa.
E invece il moderatore (o chiunque gestisca uno spazio pubblico) finisce per fare esattamente il gioco dei furbi: quelli che non entrano come estremisti, ma come “ragionevoli”; non dicono subito “sono qui per fare propaganda”, ma si presentano come vittime di censura; non difendono apertamente l’indifendibile, ma lo introducono a rate, un pezzetto alla volta, con la scusa del dibattito.
Così provano a infilare un interesse — che so — per Irving, o per Lysenko, o per altre teorie che hanno prodotto danni reali e storicamente documentati; poi, quando scatta l’esclusione, partono con la recita: piagnucolano perché il meccanismo che li tiene fuori, dicono loro, dovrebbe invece garantire l’inclusione. E arrivano al punto: “la democrazia deve garantire a tutti di partecipare al dibattito”, come se la democrazia fosse un microfono aperto senza regole, e non un sistema che vive proprio di condizioni, limiti e responsabilità.
Questa visione ad arco è l’errore originario. Se infatti ci chiediamo dove debba stare il moderatore, la risposta — dentro quella geometria — sembra ovvia: per risultare equidistante deve collocarsi al centro dell’arco, cioè nel punto in cui, per definizione, ci si proclama “ragionevoli”. Da lì, il suo compito apparente diventa “punire gli estremismi”, come se la politica fosse una passeggiata ordinata dal centro verso i margini, e gli eccessi fossero cartelli ben visibili ai due capolinea.
A quel punto il gioco è fin troppo facile. Per la destra sarà sempre semplice accusarlo di essere di sinistra; per la sinistra sarà sempre semplice accusarlo di essere di destra. Entrambi, quando conviene, lo dipingeranno come “centrone”, come complice del compromesso e della palude. E il centro — che in questa rappresentazione si sente la misura di tutte le cose — potrà invocare la tolleranza, magari persino il pluralismo, magari persino la democrazia, come se fossero formule magiche che assolvono chiunque e disarmano chiunque. In realta', censurando gli estremi.
Il problema, però, inizia proprio quando cominciamo a trattare la politica come un arco. Io, da quell’arco, ne sono uscito in modo quasi banale: capendo una cosa semplicissima, ripensando a Nenni e alla sua intuizione sulla “gara di purezza”, cioè l’idea che nella competizione a mostrarsi irreprensibili spunterà sempre qualcuno pronto a dichiararsi ancora più irreprensibile e a cacciarti fuori dal recinto. Se applichi questa regola, l’arco parlamentare non resta un arco: agli estremi si allunga, si tende, si deforma. E alla fine si chiude.
Ed ecco il punto: l’arco diventa un cerchio. L’estrema destra e l’estrema sinistra, inseguendo ciascuna il proprio assoluto (e soprattutto il proprio nemico interno), finiscono per toccarsi: non perché “siano uguali” in tutto, ma perché in un cerchio non esistono punti privilegiati, o diversi dagli altri — la purezza come arma, l’epurazione come metodo, la scomunica come riflesso, avvengono in tutta la circonferenza del cerchio. Tanti politici sono stati espulsi da partiti "moderati". A quel punto l’intero spettro politico non è più una linea con un centro rassicurante: è una circonferenza che ruota, e gli estremi non stanno più “ai lati”, per la semplice ragione che OGNI PUNTO è un "estremo".
E allora la domanda cambia: dove trovi gli estremisti, se non esistono più “le estremità” come luogo separato e distante? E dove? La risposta arriva solo se prima ti chiedi dove si mette il moderatore. E lì la geometria, finalmente, ti libera: il moderatore non sta più “al centro dell’arco” (che è una posizione ideologica travestita da neutralità), ma al centro esatto del cerchio — cioè in nessun punto particolare della circonferenza e tuttavia in una posizione determinata, precisa e stabile.
E qui, inevitabilmente, viene l’ultima domanda: sì, ma allora chi è che il moderatore caccia via a calci?
Quando capii questo principio, cominciai a moderare in un modo completamente diverso. Lasciavo passare tranquillamente persino le “teorie” di Irving: non perché le ritenessi rispettabili, ma perché volevo vedere che cosa succedeva quando non regalavo al provocatore il martirio a basso costo. Ovviamente, per questo, qualcuno mi appioppava l’etichetta di “moderatore fascista”: succede sempre, è quasi un automatismo. Ma, osservando con un minimo di freddezza l’esito reale, la scena era sempre la stessa: dopo ferocissimi scontri dialettici, tutti restavano della medesima opinione di partenza. E chi tentava di usare la bacheca come strumento di proselitismo, in quel modo, perdeva.
Allo stesso modo lasciavo passare i contenuti dei ciellini, e lasciavo passare quelli dei comitati marxisti-leninisti. Ne veniva fuori una baraonda: ognuno tirava fuori i suoi argomenti, le sue fonti, i suoi slogan, la sua indignazione rituale. Si discuteva, ci si insultava con educazione variabile, si ricominciava da capo. E alla fine, ancora una volta, tutti rimanevano della loro opinione, o al massimo tornavano a casa con la certezza granitica che “gli altri” erano irrecuperabili.
Sul piano del proselitismo, la propaganda estremista è quasi sempre inutile, perché non sposta nessuno. Chi è già di un’idea non la cambia perché vede magnificare Hitler; e chi è già di un’altra non la cambia perché vede magnificare Stalin. Anzi: di solito succede il contrario, si irrigidisce. Il problema vero, quindi, non è “che esistano” contenuti estremisti: il problema è l’uso strumentale di quei contenuti per conquistare lo spazio, piegare le regole, imporre un’agenda e trascinare tutti in un teatro dove l’unico che guadagna è chi ha iniziato la provocazione.
Il lavoro del moderatore, allora, non è fare il censore dei pensieri, né farsi arbitro dell’arco parlamentare con la paletta in mano. È fermare la propaganda nel senso tecnico del termine: impedire che la libertà di parola venga impiegata come grimaldello contro la libertà di pensiero, cioè contro le condizioni stesse che rendono possibile discutere senza essere arruolati, intimiditi o trascinati in una guerra di logoramento.
Se parliamo di propaganda, esistono almeno due grandi modi — quasi due “famiglie” — di intenderla e praticarla.
Il primo, per comodità, lo chiamerei “scuola Goebbels”: magnificare la propria idea e mettere in cattiva luce quella opposta, fino a costruire un mondo binario, con il Bene da una parte e il Male dall’altra. È la propaganda più riconoscibile: ti dice cosa pensare, ti suggerisce chi amare e chi odiare, e pretende persino di darti il tono emotivo con cui farlo.
Poi c’è quella che qui chiamo “scuola sovietica”. Non arriva più tardi in senso cronologico (l’Agitprop nasce nei primi anni Venti), ma arriva più tardi come modello mentale di propaganda moderna: quello che ritroviamo, mutato e aggiornato, in molta comunicazione politica contemporanea. In questo secondo schema non c’è un nome-simbolo come Goebbels, anche se qualcuno indica figure come Andrej Ždanov (specie nel dopoguerra) o Anatolij Lunačarskij; il punto, però, è che il centro operativo fu soprattutto un apparato di partito, l’Agitprop.
Da lì nasce una propaganda di “seconda generazione”: non si limita a dirti cosa devi pensare e cosa non devi pensare, ma lavora perché tu non riesca più a capire con precisione che cosa sia pensabile e che cosa sia impensabile. Prima ti toglie il terreno sotto i piedi; poi ti vende, come unico appiglio, l’interpretazione “autorizzata” che rimette ordine nel caos.
E infatti, dopo che l’Agitprop ha ottenuto un cittadino confuso — uno che non sa più distinguere il vero dal verosimile, il fatto dal sospetto, l’errore dalla menzogna — entra in scena l’altro braccio: l’“educazione”, o se preferisci la “rieducazione”, cioè la macchina culturale e scolastica (in URSS anche attraverso strutture come il Narkompros) che può presentarsi come cura al disorientamento che altri hanno deliberatamente prodotto.
Chi fa propaganda moderna, di solito, lo riconosci da un sintomo: non capisci mai dove voglia andare a parare. Un giorno dice una cosa e il giorno dopo il suo contrario; usa un linguaggio ambiguo; non quantifica mai; qualifica poco; resta sul vago, ma pretende adesione totale. Non vuole convincerti di una tesi: vuole abituarti all’idea che una tesi valga l’altra, e che l’unica scelta sensata sia affidarsi a chi “sembra” più sicuro di sé.
Qui sta il punto che, per anni, ho visto ripetersi identico.
Quando il fanatico entrava in bacheca e attaccava con le solite tesi — “le camere a gas non sono mai esistite”, “la Shoah non è mai successa” — io lo lasciavo parlare, salvo il caso in cui scivolasse nell’illegalità o trasformasse il thread in un’altoparlante monotono. Lo stesso valeva quando arrivava qualcuno a inneggiare alle BR: finché non c’erano gli estremi per un intervento “di codice”, lasciavo correre. All’epoca, soprattutto nel 1990, la cornice normativa e (ancora di più) l’atteggiamento pratico verso certi contenuti, in rete, erano molto diversi da oggi: si discuteva in modo brutale, spesso sguaiato, e la moderazione era più un fatto di stile che di timore reverenziale. (Non necessariamente più giusta: solo diversa.)
Ma poi, quasi inevitabile, arrivava il personaggio che io chiamavo “il gesuita”. E non perché fosse davvero un frate, o avesse un’identità religiosa riconoscibile: poteva essere di destra, di centro, di sinistra; poteva perfino presentarsi come “neutrale”. Entrava così:
È però importante chiedersi cosa sia successo davvero in quegli anni. Porsi delle domande non è vietato né disdicevole: anzi, è libertà di pensiero e l’inizio di una seria ricerca storica. Non dobbiamo quindi chiederci se la Shoah sia avvenuta o meno, ma quali siano stati i metodi con i quali abbiamo determinato ciò che sappiamo. Finora, purtroppo, di questi metodi si è parlato poco; e non è inesatto dire che di loro non si sa nulla.
Il moderatore “classico”, quello a caccia di estremismi dentro l’arco parlamentare, lì non vede nulla di strano: i toni sono civili, la prosa è educata, l’intenzione dichiarata è nobile (“fare domande”), e quindi il messaggio passa come un contributo accettabile. Il moderatore sottoscritto — ai tempi “Anguilla Bassa”, abbreviazione di “Anguilla della Bassa”, o “Loweel” in tempi più moderni — invece si poneva una domanda molto più semplice e molto più cattiva: dove vuole arrivare costui? Perché, a ben guardare, non lo capivo. E soprattutto non capivo che cosa volesse dare alle persone, oltre alla nebbia: poneva domande, ma non offriva risposte; insinuava dubbi, ma non si prendeva la responsabilità di una tesi; e, guarda caso, finiva sempre per suggerire che “non si sa”, che “non si può sapere”, che “non è chiaro come lo sappiamo”.
E allora: zac, bannato.
Perché quello, per me, era propaganda della scuola moderna. Non propaganda che ti impone un credo — quella è rozza, riconoscibile, quasi folkloristica — ma propaganda che lavora come un solvente: scioglie le categorie, confonde i criteri, scardina l’idea stessa che esistano metodi condivisi per distinguere tra vero e falso. In altre parole fa, con stile vellutato, il lavoro dell’Agitprop: non dirti che cosa pensare, ma impedirti di sapere che cosa sia pensabile, e su quali basi.
Se sei al centro del cerchio, tutte le opinioni diventano uguali; tutte “equidistanti”; tutte “rispettabili” per il solo fatto di essere state pronunciate. Tranne una cosa: ciò che distrugge le opinioni, cioè ciò che rende impossibile formarsele. La propaganda, in questa accezione, è precisamente l’uso della libertà di parola contro la libertà di pensiero.
E infatti ho finito per fissare una regola pratica, brutale ma efficace: quando non si capisce dove qualcuno voglia andare a parare, quando si muove solo per allusioni, quando “fa domande” come tecnica e non come ricerca, allora non sta aprendo un dibattito — sta chiudendo la tua testa. E quella è propaganda, stile Agitprop: la seconda ondata.
"Definisco propaganda l'uso della liberta' di parola contro la liberta' di pensiero".
Lemma: se ti impedisce di pensare o non capisci dove va a parare, e' propaganda.
È chiaro: gli affabulatori si illudono di passare sotto il radar del moderatore proprio perché non entrano in scena con l’elmetto dell’estremista. Si credono furbissimi: pensano che nessuno abbia capito il trucco, che basti un tono educato e un paio di frasi “ragionevoli” per rendere presentabile qualunque veleno.
Con me non funziona.
La soluzione al paradosso di Popper, per come l’ho vista funzionare nella pratica, è che la democrazia non deve consumarsi a inseguire gli “intolleranti” dichiarati, quelli che si presentano già con l’elmetto in testa. Quelli non sono un pericolo per la democrazia. Il pericolo sono quelli che distruggono il pensiero, in modo che non sia chiaro se mai abbiamo davvero bisogno della democrazia.
Il vero pericolo, molto più spesso, è l’inconcludente professionale: quello che non capisci mai dove voglia andare a parare, che non afferma e non nega, che scivola tra le frasi come un’anguilla, e intanto ti lascia addosso soltanto nebbia. Questa non è la propaganda che prova a convertire (di solito fallisce), ma quella che mira a disorientare: non vuole spostare un’opinione, vuole rendere instabile il terreno stesso su cui le opinioni si formano, fino a rendere equivalenti il vero e il plausibile, il documentato e l’allusivo. Un modello che, nella sua versione contemporanea, ricorda strategie di disinformazione descritte come “alta intensità e bassa coerenza”, dove la contraddizione non è un difetto ma un metodo.
Ma rimuovere questo segnale non contraddice nessun principio della democrazia, si tratta semplicemente di filtrare il rumore bianco.