Sul mito delle donne forti e indipendenti.

E' estate. Quindi i giornali italiani si sbizzarriscono negli articoli stupidini. Sin qui niente di strano, se non fosse che questi articoli vengono fatti, troppo spesso, scopiazzando da giornali anglosassoni, e quindi ci si ritrova a dover sguazzare nella stupidita' americana, e a spalare la loro montagna di merda, prima che arrivi alla porta di casa.

Mi riferisco ad uno strano luogo comune, che leggo di continuo, e adesso lo trovo anche sulla Stampa, dalla pregiatissima, famosissima, nobilissima, candidata al Nobel, Maria Corbi.

https://www.lastampa.it/specchio/relazioni/2025/07/20/news/l_amore_moderno-15235864/

donnaforte

La protagonista di questa lamentela — una donna di quarant’anni, presumibilmente in buona salute mentale e fisica — si chiede, con un misto di sgomento e vittimismo, per quale insondabile ragione gli uomini non la cerchino. E, anziché azzardare un'onesta riflessione sul proprio vissuto, si rifugia in un luogo comune tanto comodo quanto logoro: sostiene, con trasparente disperazione, che gli uomini sarebbero “spaventati” da lei, in quanto donna forte.

Ora, lasciamo perdere per un attimo il concetto, assai nebuloso, di “donna forte” — categoria che in genere si autoproclama tale, con la stessa credibilità con cui uno si attribuisce il titolo di “genio incompreso” o “cuoco stellato su Instagram” — e concentriamoci sulla tesi in sé. L’assurdità è tale da meritare una breve pausa prima di essere smontata con la dovuta grazia. Come diceva Voltaire, “le préjugé est une opinion sans jugement”: ecco, qui siamo proprio nel regno dell’opinione priva non solo di giudizio, ma anche di contatto con la realtà empirica.

Mi prenderò qualche riga per dissezionare questa narrazione consolatoria, così diffusa da essere diventata quasi un tic ideologico. E sì, sarà un po’ doloroso — ma solo per chi si è abituato a considerare ogni frustrazione come una medaglia al valore.


Cominciamo dunque con un esame, seppur sommario, della psiche maschile — una dimensione che, a giudicare da quanto scrive l'autrice dell’articolo in questione, le rimane del tutto ignota. Supponiamo pure, per amor di dialettica, che le qualità da lei rivendicate con fierezza — autonomia, assertività, forza e compagnia cantante — siano effettivamente percepite dagli uomini come potenzialmente pericolose. Si potrebbe quindi dedurre, con una certa linearità logica, che gli uomini si tengano a distanza non per disinteresse, ma per timore di tale minaccia.

Peccato che questo ragionamento si infranga contro un muro di realtà: la realtà, appunto, della cultura maschile.

C'è un dettaglio che sfugge all’analisi piagnucolosa dell’autrice: noi uomini siamo stati educati. E in modo piuttosto severo, aggiungerei. Sin dall’infanzia ci è stato inculcato, come un mantra ossessivo, che il nostro valore passa attraverso la competenza. Non la simpatia, non l’empatia, non la “bellezza interiore”. Competenza, punto. Siamo cresciuti in un mondo che ci ha ripetuto, giorno dopo giorno, che occorre saper fare, saper agire, saper risolvere. Che il nostro posto nel mondo si conquista a suon di capacità misurabili, convertibili in lavoro, e quindi in reddito. E, in ultima istanza, in dignità.

Non stupisce, quindi, che attribuiamo un valore enorme — quasi sacrale — alla competenza. È il nostro metro di giudizio, il nostro linguaggio nativo, la nostra struttura cognitiva di base.

Ed ecco che giunge, puntuale come un'equazione matematica, la prima doccia gelata per la nostra aspirante Madame Bovary dei tempi moderni: anche se davvero queste tanto sbandierate “virtù” femminili (autonomia, determinazione, spirito d’iniziativa...) venissero percepite come rischiose da parte degli uomini — il che è tutto da dimostrare — il fatto stesso di riconoscere un pericolo prima che si manifesti non è, nel mondo maschile, un segno di debolezza.

No, signora mia.

Nel nostro linguaggio, fuggire da un pericolo perche' lo si riconosce non si chiama “paura”, si chiama competenza.

Evitiamo ciò che riconosciamo come disfunzionale o faticoso non perché tremiamo come foglie al vento, ma perché siamo abituati a leggere i segnali, a prevedere le conseguenze, a non infilare il dito nella presa elettrica una seconda volta. Se la relazione con una donna “forte” somiglia più a una ristrutturazione edilizia non finanziata che a una fonte di equilibrio e piacere, si scansa. Non per paura. Per lucidità.

Come diceva Machiavelli, “non è virtuoso chi si getta a occhi chiusi nel pericolo, ma chi lo misura e lo governa”. E questo, mi creda, non ha nulla a che vedere con la paura. Ha tutto a che fare con l’intelligenza.

Ma non siamo cattivi, eh. E' il patriarcato che ci disegna cosi'.


E ora veniamo alla vexata quaestio, quella che agita editoriali e talk show come un refuso in una prima edizione: gli uomini hanno davvero paura delle donne forti, indipendenti, assertive e via elencando?

Nella prima parte ho preso questa ipotesi sul serio, come esercizio logico. Ma ora, con la pazienza che si deve agli autoinganni più tenaci, occorre dirlo chiaramente: non regge. Non convince. E non convince per una ragione molto semplice, che evidentemente sfugge a chi da tempo si è rinchiuso nella comoda fortezza del women empowerment autoprodotto.

Noi uomini siamo stati educati. E non nel senso soft e terapeutico in voga oggi, ma nella forma dura e strutturante dell'imprinting culturale. Fin da bambini, quando ci mettevano in mano camioncini, betoniere e trattori — rigorosamente in plastica tossica — non ci stavano solo offrendo un giocattolo. Ci stavano addestrando. Ci stavano dicendo, a bassa voce ma con costanza mantrica, che la nostra vita sarebbe ruotata attorno al lavoro, alla produttività, alla fatica. Giocavamo, letteralmente, al mestiere.

Ci dicevano che saremmo dovuti diventare indipendenti, autonomi, economicamente solidi, assertivi e, se possibile, vincenti. Non c’era spazio per varianti: era la norma. Un destino così naturale da non sembrare nemmeno un'opzione, ma una legge fisica. L’alternativa? Essere considerati dei falliti — una categoria sociale che non gode esattamente di indulgenza, né maschile né femminile.

Questo modello lo abbiamo introiettato fino a farne una parte costitutiva del nostro io. È diventato identità, aspettativa, dovere quotidiano.

Ed è proprio per questo che la retorica della “donna forte” ci lascia, nella migliore delle ipotesi, perplessi. Perché ciò che in quell’articolo viene descritto come straordinario, coraggioso, quasi rivoluzionario — assertività, indipendenza economica, spirito d’iniziativa — per noi corrisponde al profilo minimo di un essere umano adulto. Non è un’eccezione che turba, è una norma che rassicura. Non ci troviamo di fronte a un’entità mitologica da affrontare con scudi e corazze, ma a un individuo funzionante, come ce ne sono a milioni, ogni giorno, in ogni luogo.

In altre parole: l’idea che una donna assertiva e indipendente ci incuta timore è tanto credibile quanto sostenere che un uomo abbia paura di incontrare... un collega.

Queste qualità, che per alcune sembrano il frutto di una scalata eroica sull’Everest del patriarcato, per noi si chiamano “lunedì mattina”. O, se vogliamo essere più indulgenti: “un giovedì qualsiasi”.

Ecco perché, alla fine, l’interrogativo iniziale si dissolve da sé, come neve al sole: non è che gli uomini hanno paura delle donne forti. È che non provano nulla di particolare di fronte a loro. Perché, molto semplicemente, non c’è nulla di particolare da provare.

Quella descritta da quella donna, per noi rappresenta un adulto qualsiasi, diciamo anche: il minimo che ci si aspetta da un adulto.


Il tono trionfale con cui la nostra autrice rivendica la propria autonomia ricorda, senza voler mancare di rispetto, una scena tragicomica da teatro dell’assurdo. È come se proclamasse: “Tremate, maschi: so allacciarmi le scarpe da sola”, oppure: “La vostra era è finita, vermi patriarcali: ho preso la patente!”.

Ora, sia chiaro: sono sinceramente felice per lei. L’autonomia è sempre un traguardo importante, anche quando arriva fuori tempo massimo. Riconosco, senza sarcasmo, che non sia sempre ovvia o scontata. Ma rivendicarla come se fosse una conquista eversiva, qualcosa che dovrebbe sconvolgere l’intero ordine maschile — e magari costringerci a rivedere l’asse terrestre — è semplicemente grottesco.

Del resto, viviamo in un’epoca in cui l’eccezione viene celebrata anche quando è, a ben guardare, un ritardo. Prendiamo, ad esempio, la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, che ha ammesso pubblicamente — con l’ingenuità di chi crede di dire qualcosa di illuminante — che a quarant’anni si affida a un’armocromista. Sì, non uno stylist qualunque: proprio un’esperta di armocromia, cioè una professionista lautamente retribuita per scegliere quali colori si abbinano meglio al suo incarnato.

Una funzione che le ragazze normali — quelle che fanno la fila alla Upim e non in redazione a Vogue — imparano a svolgere da sole attorno ai tredici anni, spesso con l’ausilio di una migliore amica, uno specchio decente e qualche tentativo fallito con gli ombretti blu.

Che poi, anche concedendo il beneficio del dubbio, i risultati non è che siano poi così entusiasmanti: certe uscite pubbliche della Schlein sembrano suggerire un conflitto estetico tra la palette “autunno caldo” e un catalogo Pantone buttato giù dalle scale. Ma almeno, in quei casi, non c’è la scusa dell’improvvisazione: c’è una professionista dietro, e anche ben pagata.

Ecco, quindi, il paradosso: mentre l’élite si fa scegliere il colore delle mutande da una consulente di tendenze, la donna media si autoproclama “forte” perché paga l’affitto da sola. E si sorprende che nessuno applauda. Ma davvero credete che questo dovrebbe farci tremare i polsi?

Dovremmo aver paura del fatto che paghi il conto alla cassa sel supermercato con soldi tuoi?


Questo mito degli uomini che avrebbero paura delle donne “forti” — o, più frequentemente, autoproclamatesi tali — è figlio dello stesso impianto narrativo che da decenni ci racconta la fiaba del maschio in crisi a causa dell’emancipazione femminile. Una delle sue versioni più pittoresche è quella secondo cui il povero uomo sarebbe stato gettato nel panico esistenziale quando le donne hanno cominciato a indossare la minigonna e a prendere la pillola anticoncezionale per vivere una sessualità libera e autodeterminata.

Davvero, un colpo durissimo. Un lutto collettivo, oserei dire. Ci siamo messi tutti in silenzio, in cerchio, ad abbracciarci. “Ragazzi, la situazione è grave: adesso si scopa di più, e senza nemmeno doverle sposare. Come faremo ad andare avanti?”

Se non fosse che la realtà — quella concreta, tangibile, misurabile, non quella scritta tra un aperitivo e un corso di gender studies — racconta una storia ben diversa: gli uomini, di fronte alla libertà sessuale femminile, non hanno avuto alcuna crisi. Anzi. L’hanno accolta con una rapidità e un entusiasmo che nemmeno l’avvento dello streaming illimitato.

Ci mancherebbe: la fine del matrimonio riparatore, l’accesso universale al sesso consensuale non vincolato a riti arcaici, la libertà delle donne di esprimersi anche con il corpo… tutto questo non ha provocato né trauma né lutto. Ha provocato, se mai, un gigantesco sospiro di sollievo.

E quanto al “trauma” della minigonna, beh, permettetemi una risata sommessa. Davvero pensate che la vista di gambe femminili ci abbia mandato in tilt il sistema nervoso? Che ci sia stato un momento in cui, camminando per strada negli anni ’70, ci siamo detti:

“Oddio, troppe ginocchia. Non ce la faccio. È finita.”

Il mito del maschio destabilizzato dall’indipendenza femminile è una costruzione tanto consolatoria quanto infondata. Serve, più che altro, a giustificare certe narrazioni eroiche posticce, in cui ogni gesto normale — vestirsi come si vuole, decidere se e quando fare sesso — viene reinterpretato come una rivoluzione. Ma la verità è che, nella stragrande maggioranza dei casi, gli uomini hanno accolto queste libertà con la stessa reazione che si riserva a un regalo inatteso: con un “era ora”, non con un “aiuto”.


Ma allora — si chiederà qualcuno — se davvero gli uomini non hanno paura delle donne forti, perché queste ultime faticano così tanto a trovare marito? Le statistiche parlano chiaro, e non sembrano compatibili con l’idea che siano solo i maschi a “non essere pronti”.

La risposta è molto semplice. E, mi dispiace dirlo, anche terribilmente concreta.

Quando un uomo cerca una compagna — indipendentemente dal fatto che lei faccia la casalinga, la neurochirurga o la CEO di Microsoft — cerca prima di tutto una persona con cui costruire un nido. E per “nido” non si intende una gabbia né un altare sacrificale. Si intende uno spazio mentale e affettivo in cui poter abbassare la guardia. Un luogo dove non è necessario parlare in termini di conflitto, di potere, di rivendicazioni. Dove si può tornare a essere semplicemente se stessi, senza dover reggere una posizione, senza dover combattere.

E sì, certo che si può sposare anche una CEO — ammesso che sia interessata a qualcosa che non sia la sua prossima riunione con il consiglio d’amministrazione — ma ciò che ogni uomo, consapevolmente o meno, chiede è una garanzia: che quel legame non si trasformi in un'estensione del ring.

Per capirlo, basta fare un parallelo semplice. Se sei un pugile, e nella vita sul ring tiri cazzotti per mestiere, va benissimo. È il tuo ruolo. Ma sai anche tu — e lo sappiamo tutti — che per farti accettare nella vita fuori dal ring, devi dimostrare di essere due volte più gentile, due volte più pacato. Perché se esiste anche solo il sospetto che quella violenza possa uscire dalla palestra e entrare in casa, nessuna donna vorrà starti accanto. E, ad essere sinceri, avrà tutte le ragioni del mondo.

Lo stesso vale, mutatis mutandis, per la “donna forte e assertiva”. Se il tuo habitus mentale è quello della polemica, della competizione, dell’aggressività comunicativa, devi sapere una cosa: nessun uomo — e intendo davvero nessuno — desidera che la propria casa diventi un teatro di scontri ideologici o una simulazione di The Apprentice.

Per noi, “casa” è lo spazio in cui possiamo finalmente dismettere l’elmo, togliere l’armatura, e non temere che ogni parola venga archiviata per essere usata come arma al prossimo litigio (sì, sto parlando proprio di quell’“ouch” che ogni uomo riconosce fin troppo bene). È il luogo dove possiamo non essere archetipi. Dove possiamo, per una sera, non dover dimostrare nulla a nessuno.

Se volessimo esprimerci nel linguaggio delle attiviste, potremmo dire così: la casa è lo spazio in cui nemmeno il patriarcato dovrebbe poter entrare.

Figuratevi, quindi, se abbiamo voglia di condividerla con chi porta energia bellicosa, competitiva o rancorosa. Se proprio devo dormire con qualcuno che tiene il pungiglione alzato… tanto vale scegliere uno scorpione. Almeno non ti fa una guerra passiva-aggressiva mentre ti prepara il caffè.

Ma sia chiaro: non sto dicendo che sia un male essere assertive, indipendenti, forti, eccetera. Non e' il messaggio, il problema.

E' la parte mancante.


Il tuo problema, cara signorina, non è quello di essere forte, assertiva, inossidabile, termoplastica, antigraffio o qualunque altra qualità mutuata da un catalogo di materiali edili. E non è nemmeno quello di dichiararlo con orgoglio, in maiuscolo e con tanto di cornice motivazionale su Instagram.

No, il punto è un altro.

Quello che manca, nel tuo messaggio — e che, guarda caso, gli uomini colgono al primo sguardo — è la seconda metà della frase.

Quella che dovrebbe suonare più o meno così: “…ma in casa, poi, sono una persona diversa.”

Questo è il vero codice non scritto che molti uomini aspettano di leggere. Non perché vogliano donne sottomesse o passive — sciocchezze che servono solo a chi ha bisogno di un nemico per darsi importanza — ma perché nessuno vuole vivere con qualcuno che non sa smettere di combattere.

Spero davvero, con tutta la delicatezza di cui sono capace, di non averti bloccato la crescita rivelandoti questo minuscolo “segreto” maschile. Non lo troverai nei manuali di autodeterminazione, né nei reel da trenta secondi, ma fidati: fa la differenza tra una relazione e un interrogatorio.

Devo fare un disegnino? Un paio di slide, non piu' di quattro, senno' divento troppo tecnico, signorina manager?

Uriel Fanelli


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