Sul Leonka & co.

In questi giorni ha fatto notizia — o meglio, ha già smesso di farla, scivolando via come tutte le polemiche effimere — lo sgombero del “Leoncavallo” e le inevitabili manifestazioni che ne seguono, stanche repliche di una liturgia che da decenni si ripete uguale a sé stessa: cortei irrilevanti, slogan consunti, noia rituale.
Non ho mai nutrito particolare simpatia per i Centri Sociali Occupati, fin dagli anni Ottanta. Ricordo bene quando a Ferrara aprì il “Resistenza”, ovviamente in via della Resistenza: una fantasia urbanistica che già di per sé diceva tutto. E a Bologna, poco dopo, quell’insopportabile pozzo di idiozia che si chiamava “Isola nel Kantiere”, la cui sola frequentazione bastava a vaccinare chiunque contro certe retoriche da collettivo.
La ragione della mia antipatia era semplice e personale. Attorno al 1984 o al 1985, io e altri avevamo ottenuto — grazie all’aiuto del padre di uno di noi — di fondare una sorta di club, in realtà registrato come associazione culturale. Un ritrovo per ragazzi appassionati di musica metal, dark, videogiochi e computer: all’epoca bastava un Sega SC-3000 o un Galaksija per sentirsi pionieri della tecnologia.
Eppure, proprio allora, ci siamo trovati contro quell’ambiente. Non tanto i centri sociali in sé, quanto l’apparato politico che li sosteneva e li alimentava: quella zona grigia che orbitava intorno al PCI e che poi sarebbe confluita in Democrazia Proletaria. A noi, ragazzini di provincia che volevano solo ascoltare dischi, programmare in BASIC e giocare a qualche arcade, apparve subito chiaro quale fosse il vero obiettivo di quei “centri sociali”: non la cultura, non l’autogestione, ma il controllo politico. E, sullo sfondo, il business dell’eroina, che in quegli anni era la vera regia invisibile di molte occupazioni.
Per cominciare, è necessario sfatare una leggenda dura a morire: nei centri sociali non c’è mai stata tutta questa creatività, né tantomeno una fioritura di arte o cultura “alternativa” come amano raccontarsi. Basta esaminarne il linguaggio, la grafica, i contenuti e i loro stessi protagonisti per accorgersi subito di due cose: in quarant’anni non è cambiato nulla, e non poteva cambiare nulla.
Il linguaggio è la cartina di tornasole di qualsiasi movimento. Lì invece è rimasto statico, immobile, fossilizzato. Parlano allo stesso modo da decenni, scrivono con le stesse K inutili, ascoltano la stessa musica, si vestono allo stesso modo, ripetono all’infinito lo stesso canovaccio di slogan e volantini. Se osservate l’evoluzione di qualsiasi altro movimento giovanile o politico, vedrete mutazioni evidenti: cambiano le parole d’ordine, cambiano i simboli, cambiano persino i colori. Nei CSOA no: la loro estetica e il loro linguaggio sono un disco rotto che gira dal 1983.
Non tiratemi fuori, per favore, il solito Dario Fo come alibi culturale: Fo era un’eccezione ingombrante, non la regola. La regola, invece, era ed è lo stereotipo: una pigrizia intellettuale che diventa omologazione totale.
Ma la vera cristallizzazione riguarda altro: in quarant’anni non sono mai cambiati né i metodi né le dinamiche di potere. E, soprattutto, non sono mai cambiate le persone. Quei centri che avrebbero dovuto essere spazi di autodeterminazione non sono mai stati altro che oligarchie, in cui una cricca di “compagni storici” ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo. Niente libertà, niente anarchia, niente reale autogestione: persino una banale democrazia interna è rimasta fuori portata.
Chiarito dunque che cosa i CSOA non sono stati, al netto della mitologia che certi artisti interessati hanno contribuito a costruire per convenienza, possiamo finalmente guardare in faccia la realtà e domandarci: che cosa erano, davvero, questi spazi occupati?
Lo scopo dei centri sociali non era di coltivare l'underground italiano, ma di soffocarlo trasformandolo in una "nicchia".
Non so se siate mai stati in UK, quando ancora erano gli UK che ci piace ricordare. Avrete notato la presenza, nelle zone che oggi chiameremmo della “movida”, dei cosiddetti locali underground. Anche se non tutti erano davvero sotto il livello della strada (alcuni erano cinema o teatri), si trattava di posti che non avreste mai voluto smettere di visitare. Se anche non vi fosse piaciuto ciò che si suonava dentro — oi, ska, punk, rock alternativo — entrarci sarebbe comunque valso la pena, perché era interessante. (Altra categoria che i centri sociali italiani non hanno mai avuto).
E non parlo solo di quel leviatano di citta' che era Londra. Anche Liverpool, Brighton, Manchester, Bristol, Sheffield, Leeds, Nottingham, Birmingham erano in quelle condizioni: un underground enorme, vario, vivo e vibrante.
E no, non voglio sentire la solita scusa che si tira fuori con Londra, quando si dice: “e grazie al cazzo, Londra ha gozzillioni di abitanti, in Italia non c’era una città così”. Bastava molto meno.
Ecco la tabella con le principali città inglesi che ho menzionato e la loro popolazione stimata attorno al 1985.
Città | Popolazione (circa 1985) |
---|---|
Liverpool | 500.000 |
Manchester | 430.000 |
Bristol | 370.000 |
Sheffield | 530.000 |
Leeds | 725.000 |
Nottingham | 290.000 |
Birmingham | 1.050.000 |
Brighton | 220.000 |
Come vedete, citta' di dimensioni simili in Italia esistevano eccome, da Nord a Sud, eppure nessuna vide la crescita di movimenti underground non di nicchia.
Il confronto e' impietoso.
Città inglese | Popolazione (1985 circa) | Underground 1985 | Città italiana equivalente |
---|---|---|---|
Liverpool | 500.000 | Post-punk, new wave, primi fermenti rave | Genova (~520k) |
Manchester | 430.000 | Post-punk, New Order, Haçienda nascente | Bologna (~420k) |
Bristol | 370.000 | Reggae/dub, Wild Bunch, graffiti, proto-trip hop | Firenze (~390k) |
Sheffield | 530.000 | Industrial e synth-pop (Cabaret Voltaire, Human League) | Palermo (~530k) |
Leeds | 725.000 | Post-punk e goth (Sisters of Mercy), scena dark | Torino (~750k) |
Nottingham | 290.000 | Indie rock alternativo, primi esperimenti elettronici | Venezia (~300k) |
Birmingham | 1.050.000 | Metal (Sabbath, Priest) + grindcore nascente (Napalm Death) | Milano (~1.25m) |
Brighton | 220.000 | Indie, punk, club culture universitaria | Parma (~220k) |
Che cosa avevamo, in Italia, nello stesso periodo di riferimento? A Bologna, l'Isola nel Kantiere. Fine. Il resto, a parte gli sproloqui di certi politici , era irrilevante. Si certo, radio citta' di questo e dell'altro. E poi? Roba che non usciva dai confini della provincia.
Perche' questa differenza? Mancavano i giovani? No. Anzi, in Italia i giovani si dividevano in tribu' urbane quanto e come loro. Non dimentichiamo che i "paninari" erano un fenomeno autoprodotto. A proposito, che musica facevano?
Mancavano i soldi? No, Liverpool era in crisi economica nera ed era vibrante, Genova nel 1985 era in pieno boom economico degli anni '80. E avevate al massimo il Mercy degli Ianua. Diobau.
Qual'era la differenza tra l'inutilita' irrilevante dell'"underground" italiano e la realta' britannica, viva e vibrante? Semplice: il "centro sociale okkupato".
E qui lo ripeto:
Lo scopo dei centri sociali non era di coltivare l'underground italiano, ma di soffocarlo trasformandolo in una "nicchia".
L'underground italiano e' rimasto al palo per colpa loro.
Oggi si parlerebbe, in un linguaggio molto complottista, di gatekeepers.
Ma perche'? Perche' i CSOA sono stati creati come strumento di controllo, da parte del Ministero degli Interni italiano, e proprio a quello scopo.
Immaginate che per disgrazia nel panorama italiano fosse sorta una citta' con una scena vibrante di locali "underground" cone in una citta' degli UK. Dentro il ministero degli interni sarebbero impazziti. Per la mentalita' del ministero degli Interni, sarebbero stati:
- classificati tutti come "anarchici" semplicemente perche' mancava quasi una matrice politica.
- classificati come "cani sciolti" perche' mancava un'organizzazione militante.
- classificati come eversivi in quanto la cultura del posto sarebbe risultata imprevedibile nella sua estensione: quella roba poteva esplodere e diffondersi in tutto il paese, se non in tutto il mondo - e in alcuni casi lo fece, almeno sul piano identitario o musicale.
- Difficilmente infiltrabili. Oggi c'era una band rock, domani una punk, dopodomani post-punk, e poi metal , e poi ancora, ancora, ancora....la gente cambiava di continuo, come diavolo ti infiltravi? Quanti guardaroba dovevi avere? E quanti gerghi giovanili dovevi imparare tu, agente del ministero?
I centri sociali italiani, invece, per il ministero degli interni italiano, erano un paradiso di omologazione e controllabilita'.
- Ogni CSOA aveva una chiarissima matrice politica: l'ispettore che si era infiltrato a Milano poteva infiltrarsi anche a Palermo, e senza cambiare T-shirt.
- Ogni CSOA aveva una chiarissima organizzazione militante, con un Kollettivo, con i capetti, con le loro assemblee , tutto rigidissimo, e sempre uguale in tutto il paese. Infiltrato uno, ne sapevi infiltrare mille.
- La cultura dello CSOA era prevedibilissima, stagnante, sempre uguale, monotematica fino all'ossessione. Niente che si potesse diffondere in un attimo. E specialmente, per suonarci dovevi piacere alla cricca del Kollettivo di turno, il che eliminava la differenza e la creativita'. Il caso dei Disciplinatha insegna.
- Facilissimi da infiltrare. Non solo se eravate maschi e allora vi bastava poco per imparare il gergo e conoscere le persone giuste, ma mancava completamente il ricambio, c'erano le stesse persone ogni sera, o meglio, le stesse persone c'erano ogni sera.
Il confronto chiarisce tutto:
Underground europeo (anni ’80) | CSOA italiani (stesso periodo) |
---|---|
Classificati come “anarchici” semplicemente perché mancava quasi del tutto una matrice politica. | Ogni CSOA aveva una chiarissima matrice politica: l’ispettore infiltrato a Milano poteva riciclarsi a Palermo senza nemmeno cambiare T-shirt. |
Classificati come “cani sciolti” perché mancava un’organizzazione militante. | Ogni CSOA aveva un’organizzazione militante rigida: Kollettivo, capetti, assemblee infinite, stesso copione ovunque. Infiltrato uno, li infiltravano tutti. |
Classificati come eversivi perché la cultura del posto era imprevedibile, capace di esplodere e diffondersi ovunque. | La cultura del CSOA era prevedibilissima, stagnante, monotematica. Per suonarci bisognava piacere alla cricca del Kollettivo, con l’effetto di sterilizzare differenze e creatività (vedi caso Disciplinatha). |
Difficilmente infiltrabili: oggi una band rock, domani punk, dopodomani post-punk, poi metal, poi altro ancora. La gente cambiava continuamente: come ti infiltri? Quanti guardaroba e quanti gerghi devi imparare, agente del Ministero? | Facilissimi da infiltrare: nessun ricambio generazionale, sempre le stesse persone ogni sera. Bastava poco per imparare il gergo e conoscere i soliti noti. |
In pratica, il Ministero degli Interni si era costruito un underground ad imbuto, capace di ingoiare di tutto, anche in grandi volumi, ma di restiruire un piccolo rivolo di nulla fritto dall'altra parte.
La vera caratteristica undergroundicida dei centri sociali era questa: qualunque cosa vi entrasse, finiva tritata dentro un format tossico, un cocktail micidiale di mentalità sovietica, estremismo estetico, puzza di merda ed eroina. Per starci dentro bisognava avere il naso blindato per non vomitare, il cervello spento per non scoppiare di noia, e la coscienza lobotomizzata per non ridere davanti a quella diarrea spacciata per arte.
E poi, la droga.
Basta con le favole: chi vi dice che i CSOA non fossero mercati di eroina mente. Punto. La scusa standard? “È la polizia che ce la porta dentro per incastrarci.” Una balla ripetuta fino allo sfinimento, utile solo a lavarsi la coscienza. La verità è che dal 1985 per tutti gli anni ’90 i vari “kollettivi” — o meglio, i capetti che li comandavano — hanno fatto soldi veri spacciando. Soldi abbastanza da comprarsi appartamenti in Riviera uno dopo l’altro.
Ed eccoli lì, i nostri “rivoluzionari”: dentro al Resistenza a incitare alle occupazioni proletarie, e pochi mesi dopo, ai lidi, trasformati in proprietari benpensanti pronti a difendere con le unghie i propri affitti dagli stessi occupanti che a parole incoraggiavano. La coerenza non abitava nei CSOA: lì c’era solo eroina, cialtroneria e ipocrisia.
Ma torniamo a bomba, perché l’operazione riuscì benissimo. Il fatto che queste fogne maleodoranti, luride di vomito e merda, non potessero essere popolari, e quindi restassero per forza “di nicchia”, fu il primo fattore devastante. Se un gruppo ci metteva piede dentro, poteva scordarsi qualsiasi successo. Nessun talent scout, come quelli che a Liverpool o Manchester giravano per i club, avrebbe mai potuto entrarci: la puzza lo avrebbe steso già sulla soglia.
Il secondo punto, altrettanto micidiale, fu il monopolio degli eventi. In teoria, in Italia, organizzare un concerto significava trovare un locale, pagare l’affitto, fare la pratica SIAE e via. Ma da quando nacquero gli CSOA, quella via finì miseramente.
Dentro uno CSOA potevi fare di tutto: locali fatiscenti, senza uscite di sicurezza, con bagni da Chernobyl della merda, cucine illegali, tossici morti in decomposizione nei cessi, nessun rispetto delle norme. Ma se volevi organizzare il tuo evento in un posto “legale”, allora scattava la perfezione assoluta: controlli, ispezioni, ministeri mobilitati anche solo per la festa di fine anno di un liceo con due chitarre e una batteria.
E se per caso ci riuscivi lo stesso, ecco che arrivavano i paladini dello CSOA: si infilavano dentro, alzavano il solito parapiglia, e la polizia doveva intervenire. Risultato: il proprietario del locale non te lo affittava mai più. Copione già scritto, collaudato, sempre uguale.
Così, con un misto di metodi mafiosi e complicità ministeriali, i CSOA si presero il monopolio de facto delle loro zone. Certo, a Milano qualcosa sopravviveva: ma o era lontano chilometri dal centro sociale, oppure era talmente centrale e frequentato da un altro pubblico che nessun tafferuglio “programmato” sarebbe stato possibile. Con una conseguenza semplice: il locale centrale era caro, e quello lontano diventava di nicchia per definizione.
Il nostro club, di fatto un garage - laboratorio di un negozio di elettrodomestici, stereo e computer, venne:
- ripetutamente vandalizzato dai soliti, specialmente la vetrina.
- soggetto ad ispezioni di SIAE, ufficio igiene, ed enti di cui non conoscevamo neppure l'esistenza, alla perpetua ricerca del permesso giusto.
- il comune,, di matrice PCI-DP, sentiva la necessita' di fare dei lavori alla strada, nel chiaro tentativo di realizzare il famoso "marciapiede michelangiolesco", oppure il famoso "Tunnel fino alla Cina". A scelta.
Ovviamente, se avevate una band e volevate suonare, cosa restava? Il Centro Sociale Occupato. E lì, se riuscivate a non vomitare per la puzza, non vi sareste comunque divertiti: i maschi puzzavano tutti di quell’ascella pezzata che ricordava Sid Vicious in decomposizione da tre anni, e le femmine (poche) erano già tutte pre-assegnate al solito “rivoluzionario” comunista, terrone e gelosissimo.
Il massimo a cui potevate aspirare era diventare “di nicchia”.
Una nicchia lurida, soffocante e senza uscita.
Non per nulla, a Birmingham nascono i Judas Priest; a Milano, i Bulldozer. Famosissimi, certo. Ma principalmente in Giappone. (No, non scherzo: i Bulldozer giuravano di essere delle star in Giappone. In fondo, cosa ci vuole? Il Giappone è subito dopo Lambrate, no? Giappone, provincia di Milano: da ora in poi “Giappone (MI)”). Non chiedetemi se sia mai stato vero: non voglio saperlo. Ma loro lo dicevano con serietà.
Del resto, se a Milano fossero mai esistiti dei Judas Priest, si sarebbero disintegrati al rientro nell’atmosfera fatta di eroina, piscio rancido, merda e tossici che crepavano nei cessi. (Ma tranquilli, non era mica colpa loro: vi diranno che li aveva messi lì la Digos. Secondo loro un reparto apposito per gli arredi, con l’ispettore Gianpiernaik che progetta interni da architetto pelato col codino. Il tossico morto va alla grande, come arredobagno).
Ma se i centri sociali erano così utili a tenere l’ordine e a soffocare qualsiasi cosa potesse essere innovativa, creativa o capace di diffondere messaggi incontrollabili, perché oggi vengono chiusi?
Semplice: perché non servono più.
Il loro ruolo è stato sostituito da strumenti molto più efficienti. Oggi basta un gruppo Facebook chiamato “Rivoluzione”, o un canale Telegram dal titolo “Evviva il Che”, per ottenere lo stesso effetto — con meno puzza di piscio, senza eroina sparsa per i cessi, e soprattutto con un controllo infinitamente più capillare.
- e' piu' economico schedare i partecipanti.
- e' piu' semplice infiltrarsi.
- e' piu' facile relegare qualsiasi cosa (canali youtube, tiktok, eccetera) alla nicchia.
- intercettare un flash mob e' piu' semplice che fermare una protesta in via montenapoleone usando gli idranti e i lacrimogeni.
E così: finita la loro utilità, evaporato il loro vantaggio emotivo, i CSOA non servono più.
Non mi stupisce che vengano chiusi, non mi dispiace, e onestamente l’unica parola che mi viene in mente è karma.
E ricordate: se in Italia non c’è mai stato un vero underground, come altrove in Europa, lo dovete a loro.
In culo — anzi, in Kulo — a Dario Fo.
E tutti questi tossici morti nei cessi, che oggi il reparto arredamento del Ministero deve pure smaltire: non possono mica infilarli su Telegram.
Una tragedia, davvero.