Su Judith Butler (e sul perche' il decostruttivismo fa male).

Su Judith Butler (e sul perche' il decostruttivismo fa male).

Il mio pensiero di oggi va a Judith Butler, la “filosofa” passata alla storia come l’inventrice di quella che a destra viene ridicolmente etichettata come “teoria del gender”. Oggi la ritroviamo sulle pagine de La Stampa, intenta a lamentarsi perché negli Stati Uniti starebbero crollando i suoi diritti fondamentali.

Ora, il mio problema non è tanto con lei in quanto persona, quanto con l’intera corrente decostruzionista e poststrutturalista della cosiddetta “filosofia americana contemporanea”. Una corrente che, a ben guardare, non fa altro che replicare il vizio storico della sinistra: adottare schemi concettuali che sul breve periodo sembrano offrire strumenti utili, ma che nel lungo periodo si rivelano boomerang teorici e politici.

Sia chiaro: Butler non è una relativista pura. È molto più furba di così. Piuttosto, è una maestra nell’arte di piegare il decostruzionismo in chiave relativista solo quando le conviene — o meglio, quando questo espediente le offre un vantaggio retorico. In questo senso, non è meno politica dei suoi avversari: semplicemente veste il tutto con l’apparenza della riflessione accademica.

E così, eccola lì, oggi, a piagnucolare sui giornali italiani.

Io nel tunnel di K, orfana dei miei diritti
All’Università di Berkeley, California, cuore dei movimenti per i diritti civili negli anni Sessanta, è esploso un caso che mostra a che punto sia giunta la politica trumpiana di repressione delle libertà accademiche. L’ateneo ha trasmesso all’amministrazione Trump i nomi di 160 persone, tra docenti, ricercatori e studenti, coinvolte in un’inchiesta federale su presunti “episodi di antisemitismo”…

Il problema che ho con il decostruttivismo è, in fondo, molto semplice. È la versione accademica di quello che fanno i bambini quando ti urtano con il continuo “e perché? e perché?”. Quella che a prima vista può sembrare l’insaziabile curiosità di un bambino brillante si rivela ben presto per ciò che è: il gioco verbale di un ragazzino annoiato e scassacazzi.

I decostruttivisti non fanno altro che reiterare questa logica: “e perché è così?” all’infinito, fino a quando l’interlocutore si stanca, cede, o muore di vecchiaia e di noia. Judith Butler appartiene pienamente a questa categoria. Di per sé, potrei anche fregarmene: il mondo accademico umanistico americano è già quello che è, un parco giochi autoreferenziale. Se non fosse, però, che qui vedo una pericolosità politica e sociale: sdoganare questo metodo fuori dall’accademia significa legittimarlo come strumento del dibattito pubblico.

La Butler è diventata celebre per aver “distrutto” — o meglio, “decostruito” — il concetto di genere. Lei stessa lo rivendica con orgoglio. Personalmente, non ne sono affatto convinto: affermazioni come “non sono funzionalmente una donna perché sono lesbica” mi strappano più una risata che una riflessione filosofica. Ma lasciamo stare.

La vera domanda è un’altra: cosa succede se un giorno la destra impara davvero questo giochetto, e comincia a usarlo non sul genere, ma su concetti come i diritti, la democrazia, la libertà? In fondo, lo strumento è lo stesso. Cambia solo la mano che lo impugna.


Il paraculismo decostruttivista della Butler funziona più o meno così: il decostruttivismo si applica solo alle cose che stanno sul culo alla Butler. Peccato che la politica e la società non funzionino affatto in questo modo. Anzi: funzionano esattamente al contrario. Una volta sdoganato un metodo, chiunque può usarlo contro qualsiasi cosa. E il gioco, da raffinata esercitazione accademica, diventa un’arma a doppio taglio.

La Butler oggi sostiene che gli Stati Uniti stiano vivendo una perdita generalizzata di “diritti”. Bene. Ma a quel punto la domanda è inevitabile: cosa sono, esattamente, questi “diritti”? Se applichiamo il suo stesso metodo, li possiamo “decostruire” fino a ridurli a un’invenzione arbitraria dell’Occidente moderno, frutto di un desiderio collettivo di vedere accadere certe cose e di impedirne altre. Niente di più.

E se davvero le cose stanno così, perché mai — a oltre settant’anni dal processo di Norimberga, che ha codificato quei principi — Butler dovrebbe aspettarsi che i suoi “diritti” vengano presi sul serio e garantiti universalmente?

Stesso discorso per le leggi. Butler dice che oggi tutto questo avviene in sfregio alla legalità. Ma cosa sono, poi, queste "leggi"? Ma, se prendiamo sul serio il decostruttivismo, arriviamo alla loro arbitrarietà ancora più in fretta di quanto non arriviamo a quella del genere. Le leggi non sono che decisioni storiche, politiche, culturalmente contingenti. E allora perché mai aspettarsi che siano rispettate come se fossero un fondamento assoluto? Lo stesso vale per i “diritti civili”: se li decostruiamo, troviamo solo che presuppongono un’idea arbitraria di “civiltà”.

In fondo, se accettiamo davvero fino in fondo questa logica, possiamo dire che così come esistono persone transgender, possono benissimo esistere persone (e governi) translegali o persino transcostituzionali. La Costituzione, dopotutto, non è anch’essa uno spettro? E la legge pure, no?

Basta con questi generi assegnati alla nascita, basta con questi diritti "naturali", basta con questa "costituzione" che aleggia su tutto. E poi, che cos'ha di speciale questa "costituzione", rispetto ad "Anal Whores III"? Dal punto di vista decostruzionista, niente: persone bizzarre si riuniscono in una stanza per fare cose bizzarre senza una ragione specifica, tutto qui.


In questo senso, ritengo che il decostruzionismo, esattamente come il relativismo, sia un’arma che una volta liberata dal recinto accademico diventa incontrollabile. Butler lo sa bene, e lo teme: il metodo sta già venendo usato contro di lei, in quanto lesbica, da alcune frange di musulmani che smontano i suoi stessi presupposti. Ed è qui il punto: il metodo, di per sé, può essere giusto o sbagliato, elegante o rozzo, ma una volta sdoganato presso il pubblico diventa uno strumento di demolizione universale, capace di colpire anche ciò che — a torto o a ragione — costituisce il poco di buono che la nostra società ancora riesce a offrire.

Il guaio è che concetti come “diritti” o “stato di diritto” sono infinitamente più facili da distruggere rispetto al genere. Per scalfire l’idea di genere Butler ha dovuto scrivere interi volumi, tessere argomentazioni sofisticate, insistere per anni. Io, al contrario, potrei liquidare qualsiasi discussione sui “diritti” in due righe: basta dire “quelli che tu chiami diritti io li chiamo porci comodi”. È un’argomentazione brutale, ma funzionerebbe in ogni singolo dibattito pubblico: non serve una biblioteca di testi, basta la battuta giusta.

E se volessi abbattere la Costituzione? Ancora più facile: mi basterebbe chiedere quanti anni abbia e se abbia ancora senso in questo contesto storico. Stesso discorso per la legge, che alla fine non è altro che la volontà codificata della fazione militarmente dominante su un territorio.

Non ho nemmeno bisogno di scrivere ponderosi tomi come ha dovuto fare lei sul concetto di “genere riproduttivo” — che, per inciso, è molto più robusto e radicato di categorie come “legge” o “diritti”, per non parlare dello “stato di diritto”. E se perfino il genere può essere “decostruito”, immaginate con quanta facilità possa esserlo il resto.


È sempre lo stesso vecchio difetto di certe sinistre: regalare alla destra gli strumenti dialettici con cui poi verranno sconfitti. Convinti di aver trovato l’arma definitiva per prevalere nell’immediato, scoprono solo in seguito che i fascisti sanno fare i fascisti meglio di loro, e che quelle armi teoriche, appena messe in circolo, si ritorcono contro i loro stessi inventori.

Perciò, rilassati Judith: quei “diritti naturali” che ti hanno assegnato alla nascita, ora ti sono stati revocati. E i tuoi pronomi, per quanto sofisticati, si riducono a due: “vittima” e “di pestaggio”. Spiacente, ma in fondo siete voi a ripeterlo nei vostri dipartimenti: i diritti sono performativi, giusto? Bene, se sono davvero come il genere, allora sono anche un costrutto sociale.

E se la società americana, nel suo insieme, ha deciso che tu non ne hai più, di che cosa ti stai lamentando?