Sandman e Netflix, come uccidere una cosa nata bene.
Non so che cosa leggeste voi alla fine degli anni '80, e all'inizio degli anni '90, ma io possedevo - e credo sia ancora li' , da qualche parte , insieme alle polaroid sdrucite - una collezione completa di Sandman. Arrivo' che ero gia' all' Uni, quindi siamo nel 92/93, e rimase fino a verso meta' del 1996. A memoria, eh. Anno piu', anno meno. Sebbene sia una serie anni'90, era una serie anni'80. Come erano fatti i personaggi, e perche' era una saga gotica? Bene, il punto e' questo;
Adesso voi direte: perche' i protagonisti sono cosi' gotici? Perche' e' una saga gotica. E perche' non ci sono neGri? Perche' e' una saga gotica. Lo stile gotico nasce nella Francia settentrionale intorno alla metà del XII secolo, in particolare nella regione dell’Île-de-France, come evoluzione dell’architettura romanica. La prima manifestazione compiuta si ha con la ricostruzione della Basilica di Saint-Denis, nei pressi di Parigi, sotto l’impulso dell’abate Suger. Da lì, il nuovo linguaggio architettonico, basato su slancio verticale, archi a sesto acuto, volte a crociera ogivale e vetrate istoriate, si diffonde rapidamente in gran parte d’Europa. In Inghilterra il gotico arriva poco dopo, verso la fine del XII secolo, e prende direzioni autonome. Le cattedrali inglesi mantengono una maggiore orizzontalità rispetto a quelle francesi, con navate più lunghe, facciate meno slanciate e un gusto spiccato per la decorazione. L’evoluzione inglese è lenta e prolifica, tanto che il gotico sopravvive in forme nazionali fino al tardo Quattrocento. In Germania lo stile gotico si insinua con qualche ritardo, inizialmente contaminato da forti elementi romanici. Tuttavia, una volta affermatosi, produce monumenti grandiosi e imponenti, come la cattedrale di Colonia. Le costruzioni gotiche tedesche tendono ad avere un carattere più massiccio e severo, spesso con torri slanciate e una profusione di dettagli scultorei. Anche in Austria e nell’Europa centrale il gotico si diffonde, soprattutto attraverso il Sacro Romano Impero. Le grandi città mercantili adottano lo stile per chiese e municipi, ma anche in contesti monastici e rurali. In Italia, invece, il gotico arriva filtrato da sensibilità locali: Firenze, Siena e Milano accolgono l’estetica gotica, ma ne smussano le componenti più estreme, mantenendo un senso dell’ordine e della misura di impronta classica. In Spagna, il gotico si mescola con influenze moresche e romaniche, dando vita a forme ibride e spettacolari, come nella cattedrale di Siviglia. Nel mondo slavo, infine, l’arrivo del gotico è sporadico e più tardivo, spesso limitato a edifici religiosi voluti da sovrani filo-occidentali. In sintesi, il gotico è un fenomeno profondamente europeo, che si irradia dalla Francia e assume sfumature diverse a seconda delle aree geografiche: austero in Germania, decorativo in Inghilterra, ibrido in Spagna, classicizzante in Italia.
Il legame tra il gotico architettonico medievale e il “gotico” come stile culturale, musicale ed estetico degli anni ’80 non è diretto, ma è profondo e simbolico. Quello che negli anni ’80 chiamavamo “gotico” — riferendoci alla sottocultura dei dark, ai Cure, ai Bauhaus, ai Siouxsie and the Banshees, e poi a tutta l’estetica che ne derivava — è una rielaborazione moderna, post-industriale e romantica di suggestioni che affondano le radici proprio nel Medioevo e nella sua immaginazione cupa e trascendente. Chi si identificava come “gotico” negli anni ’80, o veniva così etichettato, non lo faceva tanto perché leggeva Viollet-le-Duc o studiava la pianta della cattedrale di Chartres, quanto perché ritrovava in quell’universo immaginario medievale — o meglio: in una sua versione decadente, noir e simbolica — una forma di rifugio, di espressione e di identità. L’architettura gotica, con le sue guglie, i rosoni, le cripte e le ombre colorate dalle vetrate, diventava un’icona culturale. Non a caso, molte copertine di dischi, video musicali o scenografie teatrali della scena dark-wave e post-punk riprendevano esplicitamente cattedrali, rovine, archi a sesto acuto, e figure religiose o demoniache in stile medievale. Ma il legame non è solo visivo. Il gotico medievale era l’arte del sublime, della luce mistica che perfora l’oscurità, della tensione verso l’alto e l’ignoto. Allo stesso modo, il gotico anni ’80 era un’estetica dell’abisso interiore, della malinconia esistenziale, del mistero e della trascendenza profana. Entrambi evocano un mondo fatto di ombre, simboli, ritualità e dolore trasformato in forma. Se da un lato richiama l’architettura medievale con le sue ombre e le sue verticalità, dall’altro si ricollega molto più direttamente al gotico letterario inglese del Settecento e Ottocento: castelli in rovina, tempeste, candelabri, follia, incesto, vampiri, donne pallide e disperate, eroi dannati. È lì che si forma il vero immaginario “gotico” moderno. La sottocultura gotica degli anni ’80 eredita questa atmosfera più che le pietre di Chartres: si nutre dei romanzi di Mary Shelley, Bram Stoker, Horace Walpole, Ann Radcliffe e dei racconti di Edgar Allan Poe. Quei mondi cupi, tormentati, segnati dal sublime e dal macabro, si riflettono nella musica, nella moda e nell’arte visiva dei goth anni ’80. Il vestire in nero, l’uso di pizzi, corsetti, camicie vittoriane, giacche alla Byron, cilindri, mantelli, tutto richiama più l’Inghilterra ottocentesca e il romanticismo nero che la Francia del XII secolo. C’è anche un gusto teatrale per la morte estetizzata, per il dolore trasformato in stile, per la decadenza vissuta come eleganza. Elementi che derivano dritti dal gotico romantico e vittoriano. È come se il gotico ottocentesco fosse diventato una seconda pelle, un’identità alternativa per chi rifiutava la banalità del mondo moderno. E infatti, la figura del dandy decadente — da Baudelaire a Wilde — è una sorta di archetipo spirituale del gotico anni ’80. In breve, il gotico medievale fornisce l’architettura e l’aura sacrale. Ma è il gotico inglese ottocentesco a fornire i personaggi, gli abiti, le emozioni e le storie. E il goth degli anni ’80 li mette in scena entrambi, come un rituale personale e collettivo, in cui la notte, la bellezza e la morte si tengono per mano. Quindi sì, i due “gotici” sono distanti nel tempo e nello scopo, ma collegati da una stessa radice culturale: il fascino per ciò che è oscuro, vertiginoso e sublime. E in fondo, sia nella pietra di Reims che nel trucco di Robert Smith, c’è la stessa nostalgia di un aldilà, reale o simbolico, che si intravede solo nell’ombra. Bello. Fatto il bignamino, c'e' un problema. Avete visto parlare, per caso, di Africa? No. No, perche' e' , probabilmente, sia nella sua eccezione antica che in quella moderna, # con il gotico, l' Africa non c'entra UN CAZZO.
Bene. Inizia la serie, e cominciamo male.
Ed è così che anche Destino e Morte, due dei personaggi più iconici dell’intera saga, vanno a farsi benedire. Perché Sandman è una storia gotica — nel senso profondo del termine: oscura, simbolica, metafisica, carica di archetipi europei e romanticismo nero — e l’Africa, semplicemente, non è gotica. Non lo è storicamente, non lo è esteticamente, non lo è nel sistema di immagini e simboli su cui si fonda questa narrativa. Quindi nel momento in cui assegni a personaggi chiave un’estetica del tutto scollegata da quell’universo, stai strappando pezzi di goticità all’opera originale. E senza gotico, Sandman si svuota. Diventa un’altra cosa. Quello che vediamo è l’effetto di una mutazione sistemica: un algoritmo culturale che impone criteri di rappresentanza come priorità assoluta, anche a costo di distruggere l’identità dell’opera. È lo stesso modo di pensare "mettiamo Mike Tyson a interpretare la protagonista nel prossimo film di Biancaneve", o che sta generando in serie aborti concettuali come IronHeart, The Acolyte e altri ancora. Titoli pensati non per raccontare, ma per esibire inclusività, come se l’estetica fosse una quota da rispettare e non un linguaggio da rispettare. E qui non si tratta di "non voler vedere attori neri". È una questione di coerenza narrativa. Se la storia è gotica, l’estetica dev’essere gotica. Se togli l’ossatura simbolica dell’opera per rincorrere l’approvazione dell’algoritmo sociale, non stai adattando: stai mutilando. E infatti, una cosa si nota subito: in questa foto, uno dei personaggi NON e' gotico.
Ditemi voi quale. Sia chiaro: non ce l’ho con i personaggi in sé. Prendiamo Desire, ad esempio. Nell’adattamento, è interpretato da un attore non binario. E funziona. Funziona perché Desire era già così nel fumetto. Ambiguo, fluido, magnetico. Ma sembrava uscito da una copertina dei Duran Duran, mescolando estetica new romantic, androgina, elegante e inquietante. Il casting è woke, certo, ma è anche fedele. Non una copia conforme, ma una risonanza coerente con l’originale. E grazie anche alla bravura dell’attore (o attrice, o come preferite), il personaggio funziona alla grande. Questo è il punto. Non è una questione di pelle, di sesso, di pronome. È una questione di senso. Se un personaggio è pensato con determinate caratteristiche — estetiche, simboliche, narrative — e tu le cambi per moda, per algoritmo, per accontentare un consiglio marketing, senza rispettarne la funzione nell’universo narrativo, allora stai tradendo l’opera. Ma se l’attore è in linea con il personaggio, anche se non identico, se la sua presenza è potente e coerente, allora va tutto bene. Anzi: ben venga. Il problema non è l’inclusività. Il problema è l’ipocrisia algoritmica che scambia la rappresentazione per un filtro di Instagram e l’arte per un questionario HR. E in un’opera come Sandman, dove ogni scelta estetica è carica di simbolismo, spiritualità e tensione mitologica, questa superficialità è un crimine contro l’immaginazione. Non e' una copia conforme, ma complice la bravura dell'attore/ice, ci fa un figurone.
Quindi no, non e' un problema se ci sono figure "woke" . C'erano nella storia, quindi vanno bene. Certo che se ci aveste messo The Rock ad interpretarlo, avrei avuto da ridire. (per quanto, forse l'abbigliamento poteva ottenere un effetto potente. )
L'opera va avanti in maniera dignitosissima per qualche tempo. Per la precisione, prima che a Netflix prendesse un attacco di americanite. Cioe' il momento in cui Dream, in un atto di pietà amorosa, versa il proprio sangue per dare al figlio una morte umana, come richiesto. È un gesto definitivo, intimo, simbolico. E a quel punto deve morire. Perché ci sono delle leggi. E le leggi sono le leggi. Non importa se divine, cosmiche o narrative: sono ineluttabili. Eppure, l’adattamento americano riesce a distruggere anche questo. La sindrome americana si manifesta in tre forme, sempre uguali. - Primo: "Io ho pagato, quindi ho diritto a sapere." L’americano medio non tollera il mistero. Ogni cosa va spiegata, verbalizzata, decomposta, didascalica. Il mistero, per lui, è solo una pagina mancante in un libro per cui ha sborsato 9,99 dollari su Amazon. Se non capisce, si lamenta. Se non viene spiegato, si sente truffato. Il concetto di magia viene ridotto a una sequenza in CGI, e quindi va spiegata. Così facendo, ovviamente, la magia muore. - Secondo: la compulsione inclusiva. Inserire minoranze ovunque, indipendentemente dal contesto, dallo spirito dell'opera o dalla coerenza interna. Se fosse un film porno, nessun problema. Ma questo è Sandman, un’opera gotica, profondamente legata a un’estetica, a una simbologia, a una coerenza visiva e mitologica ben precisa. Il gotico ha un linguaggio, e non basta cambiare i colori sulla palette sociale per aggiornarlo. Iniettare etnie a caso non è inclusione: è marketing, ed è pigro. Non c’entra nulla col racconto. Non c’entra nulla con l’opera originale. - Terzo: la chirurgia della plausibilità. Sandman è onirico, surreale, illogico per natura. Non c'è spiegazione, non c'è coerenza lineare, e non ce n'è bisogno. Accadono cose perché devono accadere. È un’opera che si muove come un sogno: sfilacciata, simbolica, delirante. È mistica, non realistica. E invece no: l’adattamento cerca di spiegare ogni passaggio, razionalizzare l’irrazionale, rendere tutto comprensibile, digeribile, impacchettato come un manuale di istruzioni per gente che ha paura del silenzio. Ed è così che si arriva al finale, devastante, dove Dream deve morire. Ma mentre nel fumetto la sua morte è poetica, tragica, densa di letture e significati, qui viene trasformata in una sequenza prevedibile, lineare, "spiegata". Il pubblico americano vuole l’interpretazione giusta, come se la fantasia fosse un quiz con una sola risposta. E se gliela neghi, si offende. Perché l’americano medio non sogna: compra sogni prefabbricati. Il problema, però, è Daniel. Perché nel fumetto, Daniel è un altro Dream. Bianco come il latte, capelli inclusi, misterioso, distaccato, ultraterreno. Gotico a modo suo. Se Morfeo era il gotico decadente alla Robert Smith, Daniel è il gotico etereo, angelico, alieno. Ma sempre gotico. Qui invece ci troviamo di fronte a un personaggio che non ha nulla: né aura, né stile, né mistero. Non emana nulla. Non incanta. È come se Pedro, il venditore di donuts sulla Quinta Strada, si fosse improvvisato signore dei sogni dopo aver visto due puntate di Doctor Who. E il risultato è, semplicemente, offensivo. Non per il colore della pelle. Ma per la totale assenza di magia. Questo:
Nel film cosa fanno? Ci mettono un benzinaio negro omosessuale preso dal uno svincolo stradale attorno a Birmingham.
Identici, vero? ## In un'opera dove l'atmosfera e l'aspetto visivo sono TUTTO, questi mi trasformano Daniel in quella portcheria li'.
Ovviamente, l'atmosfera e' completamente rovinata. L'aspetto visivo va in culo. Perche' se vi trovate di fronte un tizio come questo:
non vi viene voglia di cagargli il cazzo. Lo capite, che quello se vuole vi trasforma in un pomodoro da cucina e vi punta a sessantanove minuti ogni volta che cuoce la pasta. A questo qui, invece:
se lo vedete sulla strada statale per Birmingham, lo stirate col SUV e non vi fermate nemmeno. Detto proprio come va detto.
C’erano già attori perfetti per quel ruolo, nel cast stesso. Tom Hiddleston — sì, quello che fa Loki — avrebbe potuto incarnare Daniel con una miscela di ironia e abisso. Boyd Holbrook, il Corinthian, aveva una presenza più misteriosa e ambigua in un singolo sguardo che l’attuale Daniel in tutta la stagione. Persino Gwendoline Christie, che interpreta Lucifero, riusciva a restituire l’ambiguità e la potenza ultraterrena che il ruolo richiedeva. Tutti, senza eccezione, più adatti. E invece ci siamo ritrovati con… questa specie di benzinaio queer pescato a caso su un marciapiede della tangenziale di Birmingham. Ma il peggio arriva dopo. Negli altri casi di “iniezione etnica”, la bravura degli attori aveva comunque tenuto in piedi il castello. Wanda, per esempio, non è più la rossa transessuale intransigente e disfunzionale del fumetto, ma funziona. Destino, con il suo saio e la voce profonda, è una scelta azzeccata: inizialmente spiazzante, poi perfettamente coerente. Persino Morte — che è stata completamente decostruita, privata di ogni estetica gotica e trasformata in una ragazza solare (in una storia che di solare non ha nulla, e con un personaggio che si chiama, appunto, Morte, non Samba) — alla fine riesce comunque a bucare lo schermo. Ma Daniel… Daniel no. Daniel è insopportabile. Sin dalla prima scena è chiaro che non c’è magia, non c’è carisma, non c’è nulla. Potresti frullarlo con il Mago Otelma e otterresti comunque un frappé di normalità deprimente. Dove ci si aspetterebbe un’epica gotica, un senso del mistero, dell’altrove, dell’inumano, arriva invece la recitazione da spot pubblicitario di un venditore di donuts messicano sulla Quinta Strada. Il mistero? Assente. Il pathos? Estinto. Il viaggio interiore? Riassunto in tre consigli dati da personaggi random (alcuni persino morti) che spuntano come tutorial di un videogioco, e gli dicono cosa fare. Il tutto con una banalità così industriale che, per un attimo, ho davvero temuto che Tom Cruise piombasse dalla finestra a salvarci dal nulla.
Sia chiaro: non è affatto detto che tutto questo sia accaduto contro la volontà di Gaiman. Anzi, conoscendo le sue posizioni pubbliche, la sua simpatia per l’universo woke è ben nota. Dunque, non piango per lui. Non mi commuovo se, in quello stesso ecosistema ideologico in cui ha scelto di nuotare, qualcuno lo trascina nel fango con accuse assurde di molestie, violenze, blasfemie assortite o qualsiasi altra follia da tribunale Twitter. Karma's bitch, darling. Hai scelto tu i tuoi compagni di viaggio, e ora ti pugnalano. Lo trovo molto gotico. So benissimo che è innocente. Ma stavolta voglio giocare con le sue stesse regole. Quelle del mondo che lui stesso ha contribuito a costruire, dove il sospetto basta, dove l’allegoria diventa condanna, dove bisogna sempre credere alla "vittima". Hai prodotto la serie che ha distrutto la tua opera? Bene. Hai versato il tuo stesso sangue. Allora adesso paga.
Perché? Perché sì. Come diceva un saggio: Inculammammeta. (cit.)