Revolut? Meh.

Revolut? Meh.

Questo post potrà sembrare bizzarro, quasi una contraddizione in termini, visto che sono stato tra i primissimi utenti di Revolut, ai tempi in cui ti aprivano ancora un conto in sterline su CitiBank a Londra, ben prima che arrivasse l’attuale versione lituana e le mille variazioni successive. Insomma: ero un entusiasta della prima ora. Ma le cose cambiano — o meglio, è il mondo intero a cambiare — e devo ammettere che il mio entusiasmo originario si è progressivamente raffreddato, fino a diventare un tiepido “vediamo un po’”.

Quando comparve Revolut, la mia reazione fu di autentico sollievo: finalmente il fintech faceva il suo ingresso anche nella vita dell’utente comune. E questa, mi dissi, sarebbe stata una buona notizia, perché le banche tradizionali vivono da decenni in una situazione di mercato che definire distorto è un eufemismo: un “non-mercato” blindato da regolamentazioni e protezioni statali.

Che cosa intendo? Facciamo un esperimento mentale.
Immaginate un fornaio che decida di vendere un chilo di pane al modico prezzo di venticinquemila euro. Logico pensare che chiuderebbe bottega nel giro di una settimana. Ora però immaginiamo che quel fornaio si trovi in un forno storico, e che il Comune, mosso da un’improvvisa passione per le tradizioni, decida di pagargli tutte le spese: affitto, energia, personale. Non solo: lo stesso Comune garantisce anche uno stipendio a chiunque ci lavori, così che nessuno resti senza reddito.

E non finisce qui. Perché il colpo di genio arriva quando viene proibito a chiunque altro di vendere pane in paese, specie se straniero — orrore! Risultato: voi non comprereste mai quel pane assurdo, ma non potreste neppure farne a meno, perché arriva il governo e vi OBBLIGA, con tanto di legge, ad acquistarlo da quel fornaio.


Ecco: le banche funzionano grosso modo così. Basta osservare la tragicommedia infinita del Monte dei Paschi di Siena, e i miliardi di euro bruciati in salvataggi a carico dei contribuenti, per rendersi conto di quanto lo Stato sia sempre pronto a buttarsi nel fuoco pur di proteggere un settore che dovrebbe, almeno in teoria, stare in piedi da solo. Senza contare i blocchi sistematici ogni volta che un concorrente estero prova davvero a entrare sul mercato italiano acquistando una banca locale. Per non parlare di tutte le situazioni in cui la legge stessa ti obbliga ad avere un conto corrente: pensioni, stipendi, tasse, bollette.

Il mio paragone, quindi, non è esagerato: è quasi chirurgicamente perfetto.

Ma all'epoca sembrava quasi che qualcuno volesse davvero portare il fintech sul mercato bancario. E piano piano cominciavano a nascere ed arrivare anche i regolamento europei, o in questo caso la direttiva.

La normativa è la PSD2 (Direttiva (UE) 2015/2366), ossia la Payment Services Directive 2.

Caratteristiche principali relative all’API / open banking:

  • PSD2 impone che gli “Account Servicing Payment Service Providers” (ossia le banche che gestiscono conti di pagamento) permettano l’accesso, via API sicure, ad alcune informazioni di conto (saldo, transazioni) e la possibilità di iniziare pagamenti, se il cliente (titolare del conto) dà consenso.
  • PSD2 è una direttiva: ogni Stato membro la trasponibile nel proprio diritto interno, entro una certa data (entro il 13 gennaio 2018 era la scadenza per la trasposizione).
  • Accanto alla direttiva stessa, ci sono Regolamenti tecnici delegati e standard tecnici (RTS - Regulatory Technical Standards) che definiscono le modalità “aperte” e sicure di comunicazione (es. i requisiti tecnici per l’API, i certificati, l’autenticazione forte).
  • PSD2 ha introdotto le categorie AISP (Account Information Service Provider) e PISP (Payment Initiation Service Provider) per terze parti che vogliono accedere a informazioni di conto o avviare pagamenti, con l’autorizzazione necessaria.

Infine, ad oggi si sta ragionando su una PSD3 (una futura direttiva/regolamentazione che potrebbe inasprire requisiti, migliorare le API, rimuovere fallback meno sicuri, ecc.).


Cosa potreste fare se la banca ti fornisse queste API? Beh, potresti integrarle in qualsiasi SW di gestione/contabilita', compreso Microsoft Money, e potresti anche aprire money e farti le tue analisi, grafici, capire come spendi i soldi, dove, eccetera.

Apri il programma, e siccome e' configurato, puf.

Ci aspetteremmo che, esistendo gli standard, Revolut li implementi. E invece no. Certo, potete sentirvi giurassici e scaricare di volta in volta i file OFX/QFX/QBO e QIF/CSV, come in qualsiasi altri banca, ed importarli a mano.

Di usare Openbanking non se ne parla proprio.

Per dire, la situazione in Germania (similmente a ... tutta Europa) e' questa.

  • Revolut supporta Open Banking in GermaniaRevolut ha annunciato che in Germania gli utenti possono collegare altri conti (Comdirect, Commerzbank, Deutsche Bank, ING-DiBa, Sparkasse) tramite Open Banking direttamente nell’app Revolut.Questa funzione è gratuita per gli utenti Revolut in Germania.Gli utenti possono dare il consenso affinché Revolut richieda le informazioni degli altri conti e mostrarle all’interno dell’app, con aggiornamenti attraverso API sicure.
  • Revolut definisce la funzione “Open Banking / integrazioni esterne” anche per il mercato tedesco (Business)Nella sezione tedesca del sito Revolut, nella parte “Business → Open Banking / integrazioni con app esterne”, si legge che l’Open Banking è un meccanismo che permette di condividere i dati finanziari con terze parti con il consenso, e anche di avviare pagamenti tramite app di terzi. Revolut spiega che l’API Open Banking richiede l’utilizzo di certificati validi (eIDAS o OBIE) per accedere in produzione.
  • Limitazioni nell’accesso alle transazioni e nei tempiL’API transazioni di Revolut ha restrizioni: la cronologia completa è accessibile solo entro i primi 5 minuti dopo che l’utente ha dato consenso all’accesso.Dopo quei 5 minuti, l’accesso è limitato agli ultimi 90 giorni e le richieste devono rispettare certi limiti (non fare più di 4 richieste al giorno per lo stesso account).

Sembra bello, ma....

  • Chi può usare l’API Open Banking di RevolutSolo TPP regolamentati sotto PSD2 (Account Information Service Providers — AISP, o Payment Initiation Service Providers — PISP) possono accedere all’Open Banking API di Revolut, presentando certificati e rispettando le normative. Revolut accetta l’uso di certificati eIDAS o OBIE (riguardo alla autenticazione / crittografia lato cliente/applicazione) per registrare applicazioni in produzione, ma sembra limitato a clienti Business.

E come se non bastasse,

  • Non è chiarissimo se i conti personali Revolut in Germania abbiano tutti accesso “nativo” all’API Open Banking per estrazione transazioni in modo continuo (come farebbe un TPP). La documentazione tende a concentrarsi sui casi di “terze parti autorizzate” o “account business / integrazioni”.
  • Non è ben documentato se esiste un “endpoint OFX/QIF diretto per utenti retail tedeschi” che un client desktop (come Microsoft Money) possa usare direttamente (forse no).
  • Non ho trovato una conferma ufficiale aggiornata che dice “in Germania un utente retail può collegare un client come MS Money via API” — quindi è probabile che non sia supportato “out of the box”.
  • Non c’è evidenza pubblica recente che riveli che Revolut in Germania consenta accesso completo storico (oltre 90 giorni) via API personale. Le restrizioni già citate sull’API delle transazioni suggeriscono che non è illimitato.
  • Anche per i conti “joint” (coniugati), online si leggono lamentele che Revolut non mostra l’accesso via Open Banking API al conto congiunto in certi casi (altre giurisdizioni), il che potrebbe essere analogo anche per la Germania

Dove dico che non e' chiaro, la risposta e' semplice: no, non si puo'. A meno di non essere una terza parte autorizzata.

Di collegarci un cliente desktop e di consumare "normalmente" le API, non se ne parla.

Almeno, non per un cliente retail, cioe' Giuseppe Rossi. I clienti Business possono, a quanto pare. Forse.


A questo punto vi chiederete: una simile situazione non viola forse la normativa europea?


La risposta è no. Formalmente, Revolut è perfettamente in regola. Quello che fa, come del resto succede anche in Italia con sorprendente puntualità, è implementare le regole comunitarie nel modo più minimale possibile, rispettandone la lettera ma svuotandone lo spirito.

Ed è qui che nasce la delusione. Perché se ti presenti al mondo proclamando di essere “la prima vera applicazione di fintech banking in Europa” — e ai tempi lo era, senza ombra di dubbio — allora non puoi ridurti, qualche anno dopo, a fare il meno possibile, a indossare i panni di una banca qualunque, anzi: della banca meno innovativa che ci si potesse immaginare. È un po’ come aprire un ristorante con la promessa di rivoluzionare la cucina e poi avere nel menu' soltanto spaghetti AOP.

Deludente, direi.


I critici a questo punto mi obietteranno: «Ma allora perché Revolut continua a crescere così tanto?».
La risposta è disarmante nella sua semplicità: perché ti evita lo sportello. Ti risparmia quella penosa liturgia dell’andare in banca, dell’aprire un conto fingendo di gradire la conversazione con l’impiegato, o peggio ancora di apprezzarne il fascino se capita che sia una giovane impiegata “carina”. Con Revolut questa pantomima non serve: niente strette di mano sudaticce, niente sorrisi di circostanza.

Pensate soltanto alla carta di credito: in Italia, per ottenerne una, serve quasi un rito iniziatico. Devi presentarti allo sportello con il primogenito, firmare col sangue e magari invocare anche gli antenati. Tutto questo, con Revolut, non esiste: si riduce a qualche clic, in silenzio, sullo schermo del telefono.

Il vero successo commerciale di Revolut, insomma, dimostra una sola, incontrovertibile verità: lo sportello bancario fa schifo. Punto.


E non è soltanto un problema di praticità. È un’esperienza antropologicamente spiacevole: impiegati con la simpatia di un Vogon in ferie, arredamenti che sembrano usciti da un improbabile crossover fra un film di Fantozzi e una scenografia Klingon, code interminabili e senza senso, la percezione costante di non sapere mai quando arriverà il tuo turno.

E poi la burocrazia: ogni documento richiede sette firme, tre fotocopie, un timbro in carta bollata e, naturalmente, la benedizione finale del megadirettore galattico direttore di filiale, che compare come una divinità capricciosa solo per farti perdere altro tempo.


Ma era davvero questo il grande problema degli utenti? Certo, usare lo sportello bancario è una tortura — su questo non ci piove — ma siamo sicuri che valesse la pena di costruirci sopra un’intera banca virtuale? Possibile che la rivoluzione fintech si riduca, in fondo, a questo?

E voi, a questo punto, obietterete: «Però costa meno!».
La risposta è: ni. Sì, a patto di limitarsi al minimo sindacale, trattando il conto Revolut come un salvadanaio digitale in cui depositare qualche spicciolo e nulla più. In quel caso, forse, un risparmio c’è. Evitiamo di parlare di interessi attivi sul conto — favole buone per le brochure, niente più. Il punto cruciale è un altro: Revolut non si presenta solo come un conto “leggero”, ma offre una gamma sempre più vasta di servizi finanziari aggiuntivi.

Ed è qui che iniziano i guai.
Prendiamo il settore crypto, per esempio. Non voglio addentrarmi troppo nei dettagli, ma la questione si può riassumere così: possedete delle criptomonete… che in realtà non possedete. O meglio, Revolut le “detiene” per conto vostro, ma spesso senza darvi la possibilità di ritirarle, trasferirle o gestirle liberamente. Solo di recente, e solo per alcune monete, questa limitazione sta lentamente cambiando. Per altre, invece, si resta nella situazione paradossale in cui avete qualcosa che però non potete davvero toccare.

E non è solo un problema di crypto. Lo stesso meccanismo — costi nascosti, condizioni mutevoli, offerte che appaiono e scompaiono come funghi dopo la pioggia — si applica anche a molti altri servizi del portfolio Revolut. E lì, come per magia, il famoso “costa meno” evapora, sostituito da una serie di commissioni e complicazioni che rendono la convenienza molto più teorica che reale.


C’è poi un aspetto che raramente viene sottolineato, ma che per me è fondamentale: Revolut non funziona senza i Google Services. In pratica, se avete scelto un sistema operativo alternativo, come /e/OS o qualsiasi Android “de-googlizzato”, l’app si rifiuta semplicemente di girare.

E questo dettaglio tecnico ha una conseguenza precisa: ogni volta che usate Revolut, state regalando a Google una finestra completa sulle vostre attività finanziarie, sotto forma di metadati. Non importa quanto Revolut vi rassicuri con i suoi discorsi su sicurezza e protezione dei dati: se l’app si appoggia in modo strutturale ai Google Services, allora Google sa tutto. Ogni login, ogni transazione, ogni singola interazione passa inevitabilmente attraverso quell’ecosistema.

È una contraddizione palese. Da un lato si parla di fintech come strumento di libertà, innovazione e rottura degli schemi; dall’altro si vincola l’intero sistema al più grande monopolista dei dati personali al mondo. Una rivoluzione bancaria che, di fatto, porta con sé il pedaggio obbligatorio della sorveglianza digitale.

Naturalmente, loro si giustificano spiegando che hanno degli obblighi di KYC — Know Your Customer — e che quindi certe procedure sono inevitabili. Fin qui nulla da dire: è la legge.


Il problema è come hanno scelto di rispettarla. Perché appoggiarsi all’ecosistema Google significa trasformare quel KYC in un ben più inquietante GKYC: Google Knows Your Customer.

Tradotto: non solo Revolut “conosce il cliente”, ma ora anche Google ha accesso a una quantità enorme di informazioni sulle vostre abitudini finanziarie. In pratica, avete appena invitato un osservatore esterno, con la più grande macchina di profilazione pubblicitaria del pianeta, a sedersi accanto a voi ogni volta che fate un pagamento.

Ed è qui che il sogno fintech si incrina: non più libertà e innovazione, ma una dipendenza ancora più forte da quei colossi tecnologici dai quali, teoricamente, si sarebbe dovuto cercare di emanciparsi.


E allora, alla fine, cosa rimane davvero di questa tanto decantata Revolut?
Rimane il fatto che non dovete più varcare la soglia di un orribile sportello bancario. Tutto qui. Un risultato che, a ben vedere, un architetto d’interni con un minimo di buon gusto avrebbe potuto ottenere molto meglio — e che persino Doris, anni e anni fa, aveva già saputo risolvere senza bisogno di algoritmi, app o proclami rivoluzionari.

Rispetto alle promesse iniziali, il bilancio è piuttosto deludente. La grande rivoluzione del fintech si riduce a un “non devo più fare la fila in banca”. Tutto il resto è fumo, marketing e compromessi.

Insomma: meh.