Quel senso di vuoto.

Quel senso di vuoto.
Photo by Markus Spiske / Unsplash

Lo scorso post ha forse lasciato qualche perplessità in chi mi conosce — o crede di conoscermi — come un tecno-entusiasta.E sia chiaro: lo sono ancora.Nel senso più profondo del termine. Credo, oggi come allora, che la tecnologia sia il vero motore dell’economia, e che — come scriveva Marx con la sua brutale lucidità — l’economia sia il burattinaio della storia. Lo ha detto anche l'ultimo premio Nobel per l' Economia, appena assegnato.


In fondo, tutto ciò che accade nel mondo moderno, dai mercati globali alla politica, dai flussi migratori all’informazione, ruota attorno a quella catena di cause e effetti che parte dalla tecnologia, si traduce in economia e finisce per modellare la società.

Fin qui, tutto bene.
Ma la domanda che mi pongo ultimamente è: cosa sta succedendo davvero alla tecnologia, e in particolare all’IT?

Il settore si è espanso e continua a espandersi a dismisura. Ogni mese nascono nuovi acronimi, nuovi framework, nuove mode digitali, nuove startup “disruptive” che promettono di rivoluzionare qualcosa di cui la maggior parte delle persone non ha mai sentito il bisogno. E con questa espansione arrivano anche dei cambiamenti di mentalità, di ritmo, di valori — e, onestamente, iniziano a stancarmi.

Quando ho cominciato a lavorare nell’IT “high end”, mi sentivo utile.
Non nel senso vago di chi “fa parte del progresso”, ma nel senso concreto di contribuire a qualcosa che contava davvero.

Uno dei primi progetti a cui partecipai — insieme al gruppo di eccellenza di HP a Grenoble — fu, di fatto, uno dei primi cluster HPC (High Performance Computing) sviluppati in collaborazione con la Fondazione Dulbecco. L’obiettivo era supportare la ricerca farmaceutica.

La mia competenza, ovviamente, si fermava alla parte IT. Ma ricordo quella dottoressa — una mente brillante, un QI che sembrava oltre il limite umano — che leggeva le sequenze di DNA con la stessa naturalezza con cui io leggo un manuale tecnico.


Non ho mai fatto ricerche sul DNA, ma sapere che quel cluster, ottimizzato per far girare CHARM (o qualcosa del genere, non ricordo più tutte le sigle di vent’anni fa), poteva aver contribuito, anche solo in minima parte, allo sviluppo di una terapia reale… beh, ti faceva sentire parte di qualcosa di più grande. Ti faceva sentire utile.

Poi mi mossi nel settore delle telecomunicazioni, e lì la distinzione tra “VAS” (Value Added Services) e “Core Network” mi apparve subito evidente. I primi erano accessori, abbellimenti commerciali; la seconda era la sostanza: la rete vera e propria, quella che tiene in piedi il sistema nervoso della società. Quella con cui chiami i pompieri, i carabinieri, l’ambulanza.

Quando passai a lavorare sul “Core”, tornai a provare quel senso di utilità che raramente si trova oggi in ambito IT.

Dopotutto, l’introduzione del cellulare ha letteralmente dimezzato i tassi di criminalità in molti Paesi. Ha reso possibile chiedere aiuto da qualunque luogo, documentare un’aggressione, segnalare un’emergenza. Oggi molti studiosi concordano: quell’“inspiegabile” calo del crimine tra gli anni Novanta e Duemila è stato, almeno in parte, il risultato di questo gigantesco facilitatore sociale.

La rete “Core” fa cose che contano.


E non mi è mai sembrato scandaloso che le telco provassero a farci anche del profitto. In fondo, anche escludendo le chiamate di emergenza, le persone usano il telefono per contattare la polizia, un medico, un parente in pericolo.
E quando l’Unione Europea rese obbligatorio l’“e-call” — il sistema che chiama automaticamente i soccorsi in caso di incidente automobilistico — non ebbi mai la sensazione di lavorare su un lusso per ricchi. Secondo alcune stime, quella tecnologia avrebbe potuto salvare fino a 20.000 vite umane.


Ma poi le cose sono cambiate.


A un certo punto, l’ambiente si è riempito di gente che voleva “fare la app per fare i miliardi”.

E lì, tutto è diventato un altro mestiere.


Perché se vuoi fare miliardi, non devi risolvere problemi reali.
Devi convincere l’utente ricco e il venture capitalist ancora più ricco.
E il punto è che nessuno dei due ha la minima idea di cosa sia un problema vero.

Il caso emblematico, per me, resta sempre lo stesso: “Tinder per gatti”.
Sessanta milioni di euro raccolti in un round di venture capital.
Sessanta. Milioni. Di euro.

Il destino di quell’abominio digitale era segnato da due verità lampanti:

  1. Nessun padrone di gatti ha mai sentito il bisogno di un Tinder per gatti.
  2. Nessun GATTO ha mai sentito il bisogno di un Tinder per gatti.

Ma i ricchi stronzi che fanno startup, cresciuti in bolle di comfort dove non hanno mai incontrato un problema reale, non se ne accorgono. E i manager del venture capital, immersi nella stessa aria rarefatta, ancora meno.

La realtà è semplice: se, negli ultimi dieci anni, una nuova app ha “risolto” un tuo problema, allora o quel problema non era reale, o tu non l’avevi davvero.


Negli ultimi anni l’IT ha perso il contatto con la realtà: non serve più a risolvere, ma a creare bisogni finti da monetizzare.

Uscendo dall’esempio ormai abusato di Tinder per gatti, prendiamo qualcosa di più concreto, dove però esiste un controesempio interessante.

Una nota casa automobilistica tedesca — e non è la sola — ha introdotto un sistema che, se ti addormenti al volante, prende il controllo dell’auto, la parcheggia in sicurezza e chiama automaticamente i soccorsi.
Ne sentivamo davvero il bisogno?


Beh, se fai lunghi viaggi notturni (come quando io torno in Italia, per dire, ma l'autostrada non e' mai vuota, quindi non sono l'unico) e temi il colpo di sonno, sì: un sistema del genere ha senso.


Mi è capitato di guidare per ore, tornando in Italia, e di pensare: “se solo la mia auto potesse farlo…”.
Ecco, questa è intelligenza artificiale utile. È innovazione che serve.

Ma ora sto lavorando su una rete backbone che serve tre di queste case automobilistiche, e il tema è la “connected car”.
E allora mi viene spontanea una domanda: chi di voi l’ha mai chiesta, questa connessione?

Quante volte avete pensato:
— “Ah, se solo la mia auto fosse più sicura!”
o magari:
— “Ah, se solo fosse più veloce, o entrambe le cose!”
Certo, questi sono desideri sensati.

Ma ditemi sinceramente: quante volte avete pensato “Ah, se solo la mia auto potesse essere al centro di un ecosistema di servizi digitali connessi”?
Ecco.

Se oggi le nuove auto si vendono poco, la risposta è tutta qui.
La sola rete a cui un’auto dovrebbe connettersi è quella stradale. Punto.

Sì, essere connessi significa anche poter attivare sistemi di emergenza che ti salvano la vita se ti senti male al volante — e quella è una connessione sensata.
Ma chi, di grazia, ha mai sognato un’auto da cui comprare servizi digitali, fare shopping online o lavorare da remoto? Tutte cose che puoi già fare fermandoti un attimo in un’area di servizio e usando il tuo telefono.

E per favore, non venitemi a raccontare che “guiderete lavorando”, con gli occhi fissi sul tablet della vostra Tesla.
A volte basta un secondo di realtà per capire quanto siamo diventati ridicoli.

Poi vedi questi geni del marketing automobilistico che si stupiscono perché non vendono.
Ma cosa si aspettavano?
Le auto di oggi sembrano uscite da quella puntata dei Simpson in cui Homer ha un fratello industriale che gli chiede di disegnare “l’auto dell’uomo comune”.
E lui la disegna.
Risultato: un mostro inguardabile, costosissimo e totalmente inutile.
Ecco: l’industria IT e quella automobilistica, oggi, sembrano aver preso la stessa strada.


L’esempio dell’automobile mostra perfettamente come si sia ribaltata la gerarchia dei valori nell’IT.
Un tempo la tecnologia era al servizio dell’utile, oggi serve solo al superfluo che si finge indispensabile.

Abbiamo il “cool”: la tua auto al centro di un “ecosistema di servizi digitali connessi”, un tripudio di API, app companion, widget e intelligenze artificiali che si parlano tra loro per dirti che hai lasciato il finestrino leggermente aperto.
E poi abbiamo l’importante: la tua auto che, se ti addormenti, ti salva la vita.

Solo che da quando il settore IT è stato invaso dai tecnofighetti digitali — quelli che sognano startup più che soluzioni — il paradigma si è capovolto.
Siamo entrati nell’era del paradigma massimo dell’IT contemporaneo:

Cool before important.

È lo stesso paradigma che regge il mio nuovo smartwatch — un “best seller mondiale”, dicono — al centro di un intero ecosistema di add-on, app, AI e servizi cloud che sembrano conoscere il mio corpo meglio di me.

Sa dirmi se dormo bene, se respiro nel modo corretto, se ho abbastanza ossigeno nel sangue, se sono stressato e se mi muovo a sufficienza.
Fantastico, vero?
Ah, e non vi dico quanto è preciso nel ricordarmi che mancano ventuno giorni al mio prossimo ciclo mestruale. Chissa' se devo farmi la barba il giorno prima.


Peccato che io non ne abbia mai avuti: poi ci lamentiamo se si diffonde l'ideologia gender. Come ci aspettiamo che un adolescente riconosca un maschio da una femmina, se il suo orologio gli dice che mancano tre settimane al ciclo mestruale, e lui ha la minchia?

E no, non e' utile alle donne: funziona solo su donne estremamente regolari, che ovviamente sanno benissimo quando arriva.

Stamattina, però, volevo solo sapere se avevo la febbre. Ho usato lo smartwatch? No.


Sono andato in bagno, con il mio bellissimo smartwatch al polso, e ho aperto l’armadietto per prendere il termometro. Un termometro digitale. Se lo smontate (io lo feci, lo confesso) , il suo sensore e' grande un paio di millimetri quadri. Sarbbe semplice integrarlo nello smartwatch. Perché sì, la febbre è importante.
Ma non abbastanza cool.

Il PAI, invece, è fichissimo.
Ti dice quanto sei “fitness”, quanto vali come individuo in un mondo dove la salute è ormai gamificata: se cammini, guadagni punti; se dormi male, perdi status.

E la cosa più ironica è che per dirmi se dormo abbastanza, il mio smartwatch misura proprio la temperatura. Cioè, ha i dati sotto mano — o meglio, sotto polso — ma non li usa per ciò che serve davvero.

Perché?


Semplice: cool before important.

E così, a duecento anni dalla sua invenzione, ancora nessuno è riuscito a costruire un’auto che sappia davvero quanti litri di carburante ci sono nel serbatoio.


Ma niente paura: secondo la vostra app, che gira anche sul tablet/display della vostra auto connessa, “Alina, casalinga calda e bagnata”, vi aspetta a 1,3 chilometri di distanza.


Anche se state viaggiando a 180 all’ora.

Alina, dicono, è molto fitness.


E il problema è che questa mentalità si sta diffondendo ovunque: dal mercato al posto di lavoro.
È una metastasi culturale.

L’adolescente che sogna di lavorare nell’IT — perché “da noi si diventa miliardari se si hanno idee, entusiasmo e si lavora duro” — non fa altro che assorbire il paradigma dominante e aspettarsi che le aziende si comportino allo stesso modo.
E così succede: il risultato è la più spettacolare infantilizzazione dell’ambiente di lavoro che si sia mai vista nella storia.

Entrate in un ufficio IT oggi, e vi sembra di essere finiti in un asilo nido.
Certo, all’inizio aveva un senso: avere uno spazio silenzioso vicino all’open space (che, per inciso, era stata una conquista importante per i diritti delle donne, perché riduceva certe “occasioni di molestia”) poteva servire.
Una stanza per rilassarsi e scaricare lo stress? Ci sta.
Un po’ di umanità, dopo tutto, non guasta.

Ma poi è arrivata la deriva.
Oggi gli uffici delle aziende IT sembrano la casa dei Teletubbies.
Divanetti color pastello, peluche di unicorni — perché all’ultima convention si regalavano proprio gli unicorni — console per videogiochi e tavolini da calcetto piazzati tra le scrivanie, come se bastasse un joystick per compensare il burnout.

Che cazzo è successo?
Quando, esattamente, le aziende si sono trasformate in tanti Kindergarten aziendali?
E, soprattutto, perché nessuno sembra accorgersene?

Il risultato è che sì, apparentemente tutti sono felici.
C’è entusiasmo, sorrisi, “team spirit”.
Ma poi la mia manager mi chiama di nascosto, quando ha bisogno di confidarsi o di affrontare un problema serio… perché, parole sue, “almeno tu sei un adulto”.

È questo il punto.
L’IT è diventato un luna park per adulti che fingono di divertirsi mentre fanno finta di lavorare. Manager che si comportano come animatori da villaggio turistico, convinti che il loro mestiere sia “divertente”.
E magari lo è, non lo metto in dubbio: sarà la mia ignoranza, ma continuo a non capire cosa ci sia di così spassoso nel fare il manager.
Forse un giorno qualcuno me lo spiegherà. D'altro canto, adesso anche i manager sono cambiati, e a cinquant'anni giocano a sembrare dei quindicenni. Va bene, il dress code era troppo, ma ora se non freghi i vestiti al tuo figlio liceale , non sei cool. Io , avendo una figlia, forse sono esentato.

Nel frattempo, i programmatori sembrano usciti da una convention di cosplay: magliette con meme incomprensibili, ciabatte da gamer, zainetti kawaii.
Mancano solo i furries in ufficio — i “programmatori-procioni” — e il quadro sarebbe completo.

In compenso, sotto molte scrivanie — quasi sempre di colleghe donne — spuntano piccole cuccette imbottite per il cagnolino aziendale, il sostituto emotivo perfetto dei figli che non hanno (e, realisticamente, non avranno).
Il tutto condito da gridolini infantili, selfie con filtro “dog face” e una nuova borsetta per il cane da borsetta: totalmente instagrammabile.

Mi chiedo sinceramente cosa ci trovino di bello i cani a stare immobili otto ore sotto una scrivania.Io ne ho avuti diversi, e tutti stavano male se non camminavano almeno due chilometri al giorno. Ma forse anche loro, poveri animali, stanno imparando a essere “cool”.

Altrimenti finiscono nel cassonetto insieme alle relative borsette.
E sì, devo ammettere che quando hai uno Schnauzer da sessanta chili, l’idea di una “borsetta per cani da borsetta” perde molto del suo fascino. Non stava nemmeno nel mio borsone da Judo, che comunque non pesava cosi' tanto, nemmeno con i Judoji da competizione, novecento grammi al metro quadro.


Forse è per questo che non l’ho mai portato al lavoro: non esistono borsette per cani se il cane e' un terranova, o un altro cane grande. Ma quanto e' moderna e divertente, pero', un'azienda dove puoi tenere un cane - immagino , anestetizzato - sotto la scrivania.

Perché ormai non si tratta più di lavorare bene, ma di mettersi in scena.
Di aderire all’estetica del “tech environment”: colori pastello, cagnolini felici, scrivanie zen, post-it motivazionali, e sorrisi da catalogo HR.
La sostanza? Evaporata.
La serietà? Archiviata.

E allora mi viene spontaneo chiedermi — e lo chiedo senza ironia:


ma si può sapere che cazzo stiamo facendo di utile, a parte imitare i Teletubbies?

Ci diamo arie da pionieri digitali, ma sembriamo tutti impegnati in una recita collettiva. Abbiamo trasformato l’ufficio in un parco giochi, i problemi reali in “challenge divertenti”, e la produttività in un indicatore di felicità fasulla.

Stiamo qui a dire che risolviamo i problemi della gente, ma a parte Alina, la casalinga arrapata a 1.3 Km da qui, chi mi sa dire che problemi gli abbiamo risolto?


E questo senso di inutilità, alla fine, è ciò che mi spinge a scrivere articoli come questo.
Perché da qualche parte bisogna pur dirlo: qualcosa, in questo mondo dell’IT, si è incrinato.

Forse il mio prossimo lavoro sarà sulle ferrovie.
O sugli acquedotti.
O su qualunque altra cosa che abbia ancora un impatto concreto sul mondo reale.
Qualcosa che, se smetti di farlo funzionare, qualcuno davvero resta senza acqua o senza treno.

Perché onestamente, tutto questo mantra del “cool before important” ha un po’ rotto il cazzo.
Abbiamo sostituito l’utilità con l’apparenza, la competenza con la performatività, e la realtà con la messinscena.

Ecco, solo per chiarirci: qui non siamo i Teletubbies.

E gli unicorni sono solo rinoceronti che hanno fatto una dieta.