Post-rurali?

Post-rurali?
Photo by Simona Toma / Unsplash

Vedo che si è aperto un certo dibattito — e ovviamente sta già degenerando nella solita caciara nazionale — sulla decisione del tribunale dei minori di strappare i figli a una coppia che aveva scelto deliberatamente uno stile di vita spartano: niente corrente elettrica, niente acqua in casa, niente telefono, niente scuola, bagno esterno. Un quadro che, secondo i giudici, costituirebbe un ambiente “indegno” o “inadatto” alla crescita dei bambini. Bambini che, peraltro, chiunque li abbia incontrati descrive come felici, sereni e circondati d’affetto.

Su questa storia ci sarebbe un intero libro da scrivere. Ma tanto vale partire da un confronto elementare, quello che nessuno fa perché incrinerebbe immediatamente la narrativa comoda.

Se vivete all’estero e poi tornate in Italia, vi accorgete all’istante di qualcosa che ormai qui consideriamo normale per assuefazione, ma che normale non è affatto: i campi nomadi. L’unica cosa vagamente paragonabile che ho visto nei miei spostamenti di lavoro sono i “travellers” irlandesi — e lì parliamo di una popolazione sopravvissuta a un tentativo di genocidio, la Grande Fame, quando a Londra decisero che milioni di irlandesi potevano tranquillamente morire di stenti pur di non far lievitare il prezzo del fish & chips, minacciato dall’epidemia che devastava le patate. Contesto storico, non folklore.

In nessun altro paese, che io sappia, si tollera quello che in Italia passa senza battere ciglio: bambini sporchi, malnutriti, fuori da ogni percorso scolastico, esposti a violenze di ogni genere, confinati in baraccopoli che definire “campi” è già un esercizio di pietà linguistica. Uno spettacolo che esiste solo nei nostri campi nomadi, e che pure sembra non scandalizzare quasi nessuno.

E lo stesso discorso vale per un altro paio di “dettagli” che in Italia fingiamo di non vedere. Per esempio: non si tolgono quasi mai i figli alle famiglie dei mafiosi. Non parlo dei boss da film, ma del sottobosco reale — affiliati, fiancheggiatori, piccola manovalanza — gente che vive immersa in un contesto criminale strutturato, dove violenza, intimidazione e illegalità sono l’aria che si respira. Lì no: lì i bambini possono restare, crescere, assorbire la cultura del clan come latte materno. Quello non viene considerato un ambiente “indegno”: al massimo si parla di “situazioni complesse”, “fragilità territoriali”, “rischi di devianza” — la solita litania anestetizzante.

E poi c’è l’assurdo dei bambini che oggi, nel 2025, crescono fisicamente dentro un carcere. Non perché abbiano fatto qualcosa, ma perché la madre è detenuta e l’alternativa sarebbe affidarli chissà a chi. Nelle patrie galere italiane ci sono neonati che imparano a gattonare tra le brande e a distinguere le voci non dai cartoni animati, ma dagli ordini delle guardie. Bambini che escono a fare “la passeggiata” nel cortile del penitenziario, come fossero già reclusi a tre mesi di vita. Ma anche quello va bene: è “la legge”, dicono. È “inevitabile”, dicono.

Dunque: campi nomadi, famiglie mafiose, bambini in cella. Tutti ambienti che lo Stato considera, per qualche misterioso motivo, meno problematici di una casa senza corrente elettrica ma piena d’amore. E se questo non è un paradosso, allora siamo davvero oltre la soglia della follia amministrata.


A questo punto penserete che io stia per lanciarmi nella solita denuncia sui due pesi e due misure, o nella retorica stantia del “forti coi deboli, deboli coi forti”. No. Qui siamo oltre. Sto per fare di peggio, perché il punto non è morale: è commerciale. Sì, commerciale.

Domandatevi una cosa molto semplice: chi sarebbe disposto ad adottare — o anche solo ad affidare per anni — dei bambini rom? O i figli di prostitute? O i figli di mafiosi, impregnati loro malgrado di un contesto che nessuno vuole portarsi in casa? Nessuno. O quasi. E infatti quelle situazioni restano lì, marciscono, vengono romanticizzate o ignorate, purché non generino problemi allo Stato.

Ed eccoci al cuore della faccenda.

I bambini sottratti oggi, invece, hanno già una fila di aspiranti genitori affidatari lunga quanto la lista d’attesa per un trapianto. Persone adorabili, tutte col cuore gonfio d’amore, tutte convinte di poter offrire un destino migliore.

E quando si è sigillato questo destino? Nel preciso istante in cui la stampa li ha incorniciati come bambini perfetti: sani, sorridenti, puliti, sereni, felici. Una fiaba a portata di copertina.

E quindi sì, la domanda finale è brutale ma inevitabile: chi non vorrebbe adottare dei bambini cresciuti in montagna, robusti, sorridenti, sereni, felici? Sono l’“offerta ideale” per un sistema che, quando annusa l’occasione, improvvisamente si scopre efficienza pura.

Quei bambini sono stati presi per un motivo tanto semplice quanto brutale: sono facili da ricollocare. Punto. Provate davvero a pensarci, senza romanticismi. Qualsiasi istituzione, qualsiasi ufficio, qualsiasi gruppo che svolge un lavoro viene valutato sulla base dell’efficacia: quanti risultati porta a casa, quanti “successi” può esibire.

E in un sistema così, chi scegli di prelevare? I bambini difficili, ingestibili, segnati da ambienti devastati? Quelli che nessuno adotterà mai? No. Scegli i bambini appetibili, sani, sorridenti, pronti per essere inseriti in una nuova famiglia come un puzzle già quasi completo.

È aritmetica, non etica. E finché la valutazione resterà basata sui numeri, questa selezione resterà il pilastro nascosto dell’intero meccanismo.


Mettiamola così: se i “servizi sociali” decidessero davvero di mettere mano ai campi nomadi, o alle famiglie dei delinquenti, dei mafiosi, dei tossici cronici, sapete cosa succederebbe? Che su 100 bambini sottratti, 100 resterebbero in carico allo Stato. E, nella migliore delle ipotesi, riuscirebbero a trovare una famiglia per due o tre. Efficacia: un misero 3%. Fallimenti: il restante 97%, da mantenere a vita tra comunità, strutture, psicologi, educatori, tribunali, ricorsi, contro-ricorsi. Una voragine.

Se invece sottrai bambini sani, sorridenti, puliti nonostante la povertà, gentili, sereni, felici… allora il gioco cambia. Ogni 100 bambini sequestrati, ne “piazzi” praticamente 100. Percentuale di successo stellare, grafici che sorridono, relazioni trionfanti. Promozioni & fondi.

Ecco la verità nuda: si sono procurati il prodotto che si vende meglio. L’hanno preso, impacchettato e messo sullo scaffale, complice la stampa. Il resto è solo storytelling istituzionale.

La logica è la stessa di un supermercato. Non si espone merce che nessuno vuole: si mette in vetrina quella che va a ruba. Tutto qui.


Chiariamo subito un punto, prima che qualcuno si ecciti inutilmente: non sto insinuando che esistano giri di corruzione per “procurarsi” i bambini, né che le famiglie desiderose di adottare debbano pagare tangenti sotto banco. Non è questo il discorso, e non ho alcun interesse a scivolare nella dietrologia da bar.

Il discorso è un altro, molto più semplice e molto più imbarazzante per chi dovrebbe avere a cuore il bene dei minori: un ufficio che sequestra 100 bambini e ne ricolloca 100 può vantare un tasso di successo del 100%. Un ufficio che ne sequestra 100 e ne ricolloca 2 appare come un disastro gestionale.

Ecco tutto. È pura matematica amministrativa.

E questo risultato trionfale non può arrivare sequestrando i figli dei mafiosi, o delle prostitute, o delle famiglie rom che vivono in condizioni disastrose. Perché quei bambini — a torto o a ragione — non li vuole nessuno. Nessuno li “sceglie” in un iter di adozione. Nessuno li reclama come figli.

Dunque il sistema, per continuare a esibire percentuali brillanti, deve pescare altrove: dalle famiglie fragili ma affettuose, dai genitori eccentrici ma presenti, da chi vive fuori dagli standard ma non in un mondo criminale. Da lì escono i bambini appetibili per la macchina dell’affido.

Tutto qui. Nessun complotto: solo un algoritmo umano, spietato come tutti gli algoritmi.


In questo caso — ironia della sorte — è stata proprio la stampa, pur animata dalle migliori intenzioni, a decretare la condanna dei bambini. Nel momento esatto in cui li ha dipinti come “desiderabili”, sani, felici, luminosi e innocenti, ha firmato il loro destino: li ha trasformati in merce pregiata, in un prodotto perfetto per il mercato degli affidi.

Poi, certo, potete credermi o no. I motivi per cui la penso così sono aneddotici, lo ammetto senza problemi. Ma pesano. Per anni ho vissuto vicino a uno dei posti più singolari d’Italia: la comunità degli Elfi di Pistoia. Non so nemmeno se esista ancora. Un gruppo di hippie che aveva deciso di vivere “nella natura”, con tutto ciò che quella scelta comportava. Si erano sistemati in vecchie case di pietra, disperse sulle montagne, raggiungibili solo a piedi. Un esperimento durato decenni.

E siccome erano maschi e femmine, e gli hippie non hanno mai avuto problemi a praticare l’amore libero, nascevano bambini. Che crescevano in una sorta di edificio comunitario, semicrocivilizzato: acqua calda, stufe, un minimo di organizzazione. I maschi, più spartani, vivevano in tuguri senza riscaldamento, si lavavano come capitava e d’inverno pareva di essere in una spedizione artica. I servizi sociali, all’epoca, venivano celebrati come eroi: portavano le maestre fin lassù con i loro Land Rover perché non esistevano strade. Letteralmente niente: né sterrati, né mulattiere praticabili.

Si discuteva parecchio del destino di quei bambini. Ricordo perfettamente le lettere appassionate di signore “zanarine” bolognesi — il corrispettivo locale del quartiere Coppedè romano — tutte pronte ad accoglierli nelle loro villette sui colli. Gli opliti del bene, ovvero i servizi sociali, erano prontissimi all’azione. Una vera crociata morale.

Poi accadde l’incidente.

Un giornalista di un giornale online annunciò di essere andato a trovarli. Raccontò che uno dei bambini — descritto come “selvaggio” — lo aveva morso a un braccio, costringendolo a farsi mettere dei punti. Una sciocchezza, forse. Ma da quel momento, tutto crollò.

La popolazione capì improvvisamente che quei bambini potevano essere “problematici”. Non più perfetti. Non più da salotto buono. Non più adatti a essere esibiti come trofeo di civiltà nella veranda con vista su San Luca. E allora le stesse signore che il giorno prima scrivevano lettere commoventi si trasformarono di colpo: “Qualcuno faccia qualcosa — ma non io. Ora servono specialisti.”

In un lampo, i bambini non erano più vendibili. E quando un bambino non è vendibile, l’interesse dei servizi sociali evapora come la rugiada d’agosto. Fine dell’eroismo. Fine della missione. Fine del fervore morale.

Ecco perché penso ciò che penso. Non perché creda davvero che quei ragazzini fossero selvaggi violenti: anzi. Conoscevo gli Elfi. Avevano capre che si limitavano a mungere e tosare, non le toccavano nemmeno per fare un arrosto, perché “sorella capretta non si uccide”. E non erano decisamente grassi, anzi. Pace e amore fino al ridicolo, altro che violenza. Non avrebbero saputo da chi imitarla, la violenza.

Il punto, ancora una volta, è uno solo: nel momento in cui la gente credette che quei bambini fossero difficili, non furono più vendibili. E i servizi sociali li lasciarono dov’erano.

Fine della storia.


Morale?

La stampa dovrebbe imparare a capire le regole del gioco prima di ficcare il naso in meccanismi più grandi di lei e, soprattutto, prima di trasformare dei bambini in icone spendibili. Perché ogni volta che li santifica, li etichetta, li incornicia come “perfetti”, in realtà li espone. E li espone al peggio.

Quanto ai servizi sociali, il loro operato andrebbe misurato con criteri completamente diversi, non con il feticcio delle percentuali di “successo”. Perché se il parametro resta quello — quante collocazioni azzeccate, quante relazioni brillanti, quanti casi da mostrare in convegno — il sistema continuerà a premiare la selezione della merce più facile da piazzare, non la tutela dei bambini più fragili.

E allora non parliamo più di protezione dell’infanzia. Parliamo di marketing.