Porno e insicurezze femminili.
Ho ricevuto un paio di reazioni stizzite allo scorso post sul porno, e nel rileggerlo mi sono accorto anch’io di aver girato un po’ troppo attorno al punto centrale invece di metterlo subito in chiaro. Lo esplicito adesso, senza giri di parole:
le leggi che cercano di limitare il porno non hanno come obiettivo reale quello di limitare il porno.
Il vero bersaglio è un altro, e non è un bersaglio maschile. E' un bersaglio delle insicurezze femminili.
Per spiegarmi meglio devo partire da un aneddoto, che chiarisce in modo chirurgico ciò che intendevo con “Porno al forno”: la questione delle insicurezze femminili e dell’enorme potere regolativo che esercitano, spesso senza bisogno di scriverlo nero su bianco.
Quando ero all’università arrotondavo facendo il buttafuori. Niente di glamour, parliamo di discoteche di provincia. Un sabato mi chiedono di coprire una serata in un locale nella bassa mantovana — zona cattolica dura e pura, quella dove se una donna si sposa e non sforna figli, chiedono al marito perché non l’abbia “messa incinta prima” per essere sicuri che funzionasse tutto.
Arrivo presto, conosco PR e PR, scambio due parole col proprietario, ci prepariamo. Manca ancora diverso tempo all’apertura, quando si presenta un gruppetto di una decina di ragazze che chiedono di parlare subito con il padrone. Hanno qualcosa di “molto sgradevole” da segnalare, e da qualche settimana — dicono — la situazione è diventata insostenibile.
Le facciamo parlare, perche' ovviamente il proprietario e' interessato.
E la “situazione insostenibile” era questa:
nel locale aveva cominciato a girare un piccolo-ma-crescente gruppo di ragazze molto più disinibite, molto più curate, molto più “on-fire” di loro. Parole testuali: “vestite come prostitute”. E molto piu' facili di loro.
Il punto non era la morale.
Il punto era la concorrenza.
Temevano che queste nuove arrivate — e le eventuali imitatrici — spostassero l’attenzione maschile tutta su di loro, relegando il resto del parterre femminile a fare la tappezzeria. Ed erano terrorizzate che il livello “medio” della platea femminile si spostasse di qualche tacca in più: se la nuova normalità diventavano quelle lì, loro sarebbero finite invisibili.
La richiesta, dunque, era chiara: imporre un dress code e un controllo più rigido sui divanetti in ombra, dove secondo loro succedeva “troppo”.
E il lavoro sporco — far valere la nuova moralità selettiva — sarebbe toccato a noi della security e allo staff dei PR.
Non sto raccontando questo episodio per nostalgia. Lo racconto perché riassume perfettamente il meccanismo che volevo esporre nel post precedente:
quando le donne percepiscono un rischio di svalutazione relativa — estetica, sessuale, sociale — si attivano dinamiche di regolazione che non hanno nulla a che vedere con la moralità, la sicurezza o il bene comune.
Hanno a che vedere con il controllo dell’ambiente competitivo.
E le leggi sul porno, sul “decoro”, sulla restrizione di certi contenuti “per il bene delle giovani generazioni”, non fanno eccezione. sono la versione istituzionale dello stesso fenomeno che ho visto nella bassa mantovana:
regolare il mercato dell’attenzione maschile per ridurre l’ansia femminile.
Su una piccola disco di paese, sia chiaro, la richiesta avrebbe anche potuto funzionare. Bastava imporre un dress code all’ingresso, dare due istruzioni alla security e fine della storia. Ma il proprietario aveva altre idee.
Voleva crescere — e infatti qualche mese dopo aprì un locale più grande, in un paese vicino. Fece un ragionamento semplice:
le ragazze “leggerine” portavano molti più clienti maschi della decina di suorine indignate.
Punto.
Assecondarle avrebbe significato castrare l’unico elemento che stava rendendo quel posto più vivo della media provinciale. Così le ascoltò con cortesia, promise di “valutare”, e non cambiò nulla.
Benvenuti nel mondo delle insicurezze femminili: quello in cui il porno “deve” chiudere perché quelle lì attirano troppi sguardi maschili, e in cui bisogna adottare il modello scandinavo perché — evidentemente — persino le prostitute calamiteranno comunque tutta l’attenzione degli uomini.
Spero, con questo, di aver chiarito cosa intendevo in “Porno al forno”. Ma il tentativo di delegittimarmi — quasi sempre un attacco alla persona, mai all’argomento — non finisce lì. Quindi passo al secondo punto.
Sono del tutto d’accordo sul fatto che i minorenni debbano perdere l’accesso ai siti porno.
Nessun problema.
Quello che non approvo è l’idea che i minorenni non debbano accedere a qualunque forma di intrattenimento con contenuti sessuali. E nemmeno che vadano sottoposti a un “trattamento Ludovico” scolastico per compensare la perdita del porno come unica educazione sessuale.
Perché qui nasce una contraddizione evidente:
dire che bisogna vietare il porno e, nello stesso tempo, imporre un’“educazione sessuale e affettiva” dipinta come il suo opposto significa mescolare due ideologie che non stanno in piedi insieme.
Da un lato c’è la sopravvalutazione tutta marxista dell’“educazione” come panacea; dall’altro c’è l’ossessione puritana per il divieto. Metterle insieme crea un ibrido incoerente: un proibizionismo pedagogico che non educa e non protegge, ma pretende di riplasmare i giovani secondo una visione moralistica travestita da progresso.
Volete ridurre la sessualità degli adolescenti alle poche ore che passano a scuola? Noiose come le altre materie scolastiche, pedanti come le altre materie scolastiche, burocratiche come tutto ciò che passa per la scuola pubblica?
Ma questo film l’abbiamo già visto.
Il risultato, allora, fu che milioni di persone si presentarono in libreria dicendo:
“Devo farmi una cultura, mi dia il libro più noioso che ha.”
E infatti arrivò la noia totale della cultura “impegnata”, con la scomparsa dagli scaffali di tutto ciò che era allegro, leggero o semplicemente divertente, sommerso dallo sdegno degli pseudointellettuali.
La logica, oggi, è identica:
vietare il porno ludico mentre si obbligano gli studenti a un trattamento ludovico travestito da “educazione affettiva”.
Il prodotto finale è ovvio: adulti che entrano nel letto e dicono al partner:
“Dai, facciamolo nel modo giusto. Annoiamoci a morte, dai.”
Il valium al posto del vibratore.
E sia chiaro: io so cosa si insegna nei corsi di educazione sessuale. Vivo in un paese dove si fanno ovunque, ho visto i libri e ne ho parlato con mia figlia, che ha frequentato le scuole qui.
Se la sessualità dei giovani tedeschi dovesse basarsi solo su ciò che apprendono a scuola, probabilmente sceglierebbero tutti la pesca al salmone. Maschi e femmine, indistintamente.
Per fortuna, sopra quell’educazione sessuale grigia e scolastica si stratifica qualcos’altro: una libertà personale e sessuale che in Italia verrebbe giudicata “inappropriata”, una tolleranza reale verso la sperimentazione, e una discreta facilità nel reperire contenuti pornografici.
Le leggi tedesche sono severe, sì, ma la classificazione dei contenuti è — diciamo così — sorprendentemente ampia.
| Fascia | Germania – Contenuto consentito | Italia – Contenuto consentito | Nota comparativa (con esempio) |
|---|---|---|---|
| 0+ | Nessun contenuto sessuale. | Nessun contenuto sessuale. | Identico – (es.: film per bambini senza allusioni in entrambi i paesi). |
| 12+ | Allusioni leggere, doppi sensi casti. | Allusioni minime, quasi nulle. | Germania più permissiva – (es.: una battuta a doppio senso è ammessa in DE, non in IT). |
| 14+ | Fascia non esistente in Germania. | Allusioni più chiare, qualche scena affettiva meno “casta”, ma niente nudità o sesso. | Italia più permissiva su questa fascia – (es.: un teen-drama con bacio “intenso” può essere 14+ in IT). |
| 16+ | Nudità non pornografica, sesso non esplicito, erotismo soft. | Praticamente nulla: nudità e sesso quasi sempre esclusi. | Germania molto più permissiva – (es.: nudità integrale frontale 16+ in DE, 18+ in IT). |
| 18+ | Tutto, pornografia inclusa. | Tutto, pornografia inclusa. | Identico, con tabù informali italiani – (es.: la TV italiana evita nudità integrale pur essendo legale). |
Come potete vedere, il punto che sollevo è semplice: se applichiamo i criteri italiani, fuori dall’educazione sessuale scolastica c’è il deserto.
Tolto il porno, con le leggi così come sono, agli adolescenti non rimane praticamente nessun contenuto sessuale accessibile.
E qui torniamo alla mia osservazione dello scorso articolo: il porno, piaccia o no, in Italia ha funzionato come detonatore della rivoluzione sessuale.
Perché?
Perché se ne parlava.
E se ne parlava perché la gente sapeva di cosa stava parlando, era esposta, aveva un riferimento concreto, non un trattato di biologia travestito da “educazione affettiva”.
Vietare tutto — insieme al già rigido impianto legale — significa lasciare gli adolescenti con un’unica idea di sesso: quella scolastica, pedante, anodina, burocratica. L’equivalente emotivo di un manuale dell’INPS.
Per chi a letto è noioso — e non sono pochi — sarebbe una manna: nessuno più li farebbe sentire inadeguati, nessuno li metterebbe a confronto con un immaginario più ricco, più vario, più libero.
Possiamo renderlo ancora più chiaro con una proposta semplice:
perché non consentire il porno anche ai 16+? O perfino ai 14+?
Se davvero la vostra “educazione affettiva” funziona, dovrebbe essere uno strumento cognitivo anti-porno, no?
Ovviamente una proposta simile non sarebbe mai accettata.
E questo cosa dimostra? Che le due campagne — proibire il porno e imporre l’educazione affettiva — seguono agende nascoste che non coincidono con ciò che dichiarano.
- Vietare il porno ai 14+ o ai 16+ non serve ad evitare i famosi “danni del porno”:
serve a sedare l’insicurezza di chi teme di non essere mai davvero bravo a letto — “brava” per le donne, “dotato” per gli uomini. - E l’insistenza sull’educazione affettiva non riguarda affatto il “bene dei piccoli”:
è soprattutto un modo per scaricare sulla scuola ciò che, almeno in parte, dovrebbe essere responsabilità della famiglia.
In questo senso vale il mio solito discorso: una società non può essere moderna da un lato e obsoleta dall’altro. O è moderna in blocco, o è arretrata in blocco.
E nel caso italiano — come in quello americano — l’arretratezza emerge esattamente nella rigida contrapposizione femminismo/patriarcato. Due etichette che sembrano opposte, ma che in realtà condividono lo stesso meccanismo psicologico.
- Le richieste sociali del “patriarcato” servono soprattutto a colmare le insicurezze maschili.
- Le richieste sociali del “femminismo” servono soprattutto a colmare le insicurezze femminili.
Questo diventa evidente — in maniera quasi comica, se non fosse tragica — quando si parla di sesso, di pornografia e, peggio ancora, di piacere.
Tutto qui.