Paywall is bitch, man...
Il discorso sulla vendita del gruppo GEDI – che Exor sta negoziando col gruppo greco Antenna per circa 140 milioni di euro nonostante perdite oltre i 30 milioni annui – insieme all'evoluzione del gruppo Mondadori verso una dimensione più europea (già avviata negli anni Duemila con acquisizioni in Francia, espansione del network internazionale di Grazia in oltre venti paesi e partnership con piattaforme digitali come Kobo ), dovrebbe suggerire domande diverse rispetto alle solite questioni sull'italianità o sull'appartenenza politica. Occorrerebbe forse interrogarsi sulla crisi generalizzata della stampa e sulle strategie che ne hanno accelerato il declino.
È vero che molti giornali online sono in crisi, ma è altrettanto vero che non tutti lo sono allo stesso modo. Come mai ad essere in crisi sono, prevalentemente, proprio i giornali che hanno scelto il paywall come politica editoriale? I dati mostrano che negli ultimi quattro anni i quotidiani italiani hanno perso oltre il 31% delle copie vendute, mentre ricerche della Harvard Business School dimostrano che l'effetto netto dei paywall sui ricavi digitali risulta negativo per molte testate: il calo delle entrate pubblicitarie digitali, dovuto alla drastica riduzione delle visite ai siti, annulla praticamente i proventi degli abbonamenti digitali. Persino il New York Times, caso di successo del modello paywall, ha registrato un calo del 15,3% nei ricavi pubblicitari digitali dopo l'implementazione del muro a pagamento
Bisogna innanzitutto interrogarsi sulla reale buonafede dei paywall. Il problema che osservo è che gli articoli dietro paywall non sono articoli qualsiasi né vengono scelti in base al traffico potenziale, ma si tratta quasi sempre degli articoli più "spinti" dentro lo spettro politico di riferimento del giornale.
Una ricerca pubblicata su PNAS Nexus nel dicembre 2024 conferma che i paywall funzionano come meccanismo di discriminazione dei lettori basato sulla loro propensione a pagare, e che le testate con maggiore contenuto politico ottengono risultati migliori con i paywall rispetto a quelle con meno articoli politici. Questo suggerisce una strategia deliberata: quando un giornale vuole pubblicare un articolo che presenta una lettura ideologizzata – e spesso conclusioni assolutamente propagandistiche – lo colloco sistematicamente dietro paywall. È come se il giornale volesse dire delle stupidaggini per soddisfare i lettori più politicizzati e mantenere alta la loro fedeltà all'abbonamento, ma non volesse poi rovinarsi la reputazione giornalistica mostrando pubblicamente di aver scritto delle solenni castronerie.
Il meccanismo è subdolo: il paywall crea una bolla ideologica protetta dove le opinioni più estreme circolano solo tra abbonati già allineati, mentre il resto del pubblico – quello che potrebbe contestare o verificare le affermazioni – rimane fuori. Come ha osservato The Washington Post (che ironicamente usa proprio questo modello), si rischia che "la democrazia muoia dietro il paywall" invece che "nell'oscurità"
Un altro problema introdotto dai paywall è che essi non esistono nel vuoto cosmico. Nel senso che quello dell'informazione è un mercato basato anche sulla concorrenza, e la scelta di erigere barriere economiche produce conseguenze competitive immediate.
Un giornale che usi il paywall, come hanno deciso di fare molti geniacci, perderà ovviamente quote di mercato rispetto a giornali che rimangono aperti. Il guaio di questa logica è che gran parte degli outlet di propaganda – primi tra tutti quelli russi come RT e Sputnik, finanziati direttamente dal Cremlino e distribuiti gratuitamente come strumenti dichiarati di politica estera, o semplicemente molti di quelli MAGA come Breitbart, OAN e Newsmax (che solo di recente ha introdotto paywall parziali su YouTube mentre mantiene canali gratuiti) – non richiedono alcun pagamento per accedere ai contenuti.
Il lettore viene quindi lasciato con l'alternativa tra leggere notizie gratuite (per quanto propagandistiche) o pagare per leggere le stesse notizie da fonti più affidabili. Non è difficile capire cosa sceglierà la maggioranza, tranne i lettori già fortemente politicizzati che sono attaccati a una certa visione del mondo e disposti a pagare per confermarla. Come ha osservato efficacemente Current Affairs nel 2020, "la verità è dietro paywall, ma le bugie sono gratis": mentre il 94% degli outlet digitali nativi offre accesso gratuito e tutti i broadcaster mantengono contenuti aperti, proprio i giornali più autorevoli si sono barricati dietro muri a pagamento. Questa asimmetria ha decretato la vittoria degli outlet di propaganda rispetto alla stampa istituzionale, creando un paradosso perverso dove l'informazione di qualità diventa privilegio economico e la disinformazione rimane democraticamente accessibile a tutti.
In questo senso, la crisi di GEDI non è solo la crisi di un gruppo editoriale. Il problema di questa crisi è la crisi di un modello nel quale si sono mescolati contenuti coperti da paywall e contenuti liberamente accessibili, secondo una logica che fa svalutare le testate e, come se non bastasse, le espone alla concorrenza degli outlet propagandistici che, essendo finanziati da enti politici, possono permettersi di essere completamente gratuiti.
Se osservate infatti i giornali del gruppo GEDI, noterete quasi subito una stranissima decisione di marketing: i contenuti che NON sono dietro paywall sono più "stupidi", sia per tema trattato che per il modo in cui viene trattato, rispetto a quelli protetti. Questa strategia, nota nel settore come "freemium paywall", divide i contenuti in due categorie qualitativamente differenti: materiale base gratuito contro contenuti premium a pagamento. Il problema è che GEDI ha applicato questa logica con una differenziazione così marcata da rendere il contenuto gratuito quasi repellente per lettori esigenti.
Non è solo una questione di argomento, bensì una questione di livello di trattazione: gli articoli che rimangono fuori dal paywall sono trattati in maniera leggerina, di quel leggerino anglosassone che irrita le menti razionali e produce un rifiuto di istupidimento. Insomma, un pochino come Huffington Post, notoriamente criticato per l'enorme quantità di spazio dedicato a notizie superficiali e sensazionalistiche su celebrità e argomenti frivoli – quel tipo di giornalismo dove un bombardamento diventa prima di tutto un problema di "e adesso come mi vesto?" anziché una questione geopolitica da analizzare seriamente.
Il risultato è paradossale: il contenuto gratuito serve teoricamente ad attrarre lettori verso l'abbonamento, ma se è volutamente stupido allontana proprio i lettori più sofisticati che sarebbero disposti a pagare, mentre attrae un pubblico che non valuterà mai l'acquisto di un abbonamento. Nel frattempo, le fonti propagandistiche offrono contenuti ideologicamente coerenti e narrativamente compiuti senza chiedere un centesimo, vincendo facilmente la competizione per l'attenzione.
Ma la cosa è stata gestita con uno spirito da bottegai: poiché gli articoli più "intellettuali" vengono venduti a un prezzo superiore, hanno pensato di poter massimizzare i profitti. Quello che si sono dimenticati è che la vetrina, in questo modo, è fatta di mediocrità e stupidità, condita però con il clickbait dei titoli accattivanti. Ricerche empiriche hanno dimostrato che i titoli clickbait generano sì curiosità e arousal iniziale, ma vengono percepiti come di bassa qualità conoscitiva e poco credibili, creando un forte rischio di delusione negli utenti e danneggiando la reputazione della testata.
In più, a rendere repellenti le prime pagine c'è il problema che tutto questo paywall ha ristretto gli spazi pubblicitari disponibili, costringendo gli editori a compensare con pubblicità sempre più invasive. Il risultato è che entrare in un giornale online significa superare un campo minato fatto di ads e pubblicità di ogni genere che ti si aprono in ogni modo possibile, compreso sequestrarti lo schermo e ridartelo a fine spot. Studi sulla pubblicità intrusiva dimostrano che questi formati – specialmente gli interstitial a schermo intero – vengono percepiti come estremamente invasivi, riducono la credibilità del sito e provocano reazioni di rigetto talmente forti che gli utenti chiudono semplicemente l'applicazione. Altre ricerche confermano che la pubblicità intrusiva ha un impatto negativo significativo sulla percezione del brand e sull'esperienza utente.
E se provi ad usare qualche adblock sul browser, ti minacciano anche: la maggior parte dei siti ora rileva gli adblocker attraverso "bait elements" e script di controllo, mostrando overlay di blocco o messaggi che limitano l'accesso. Alcune testate hanno ridotto del 45% il tasso di adblock con sistemi di detection aggressivi e hanno recuperato milioni in entrate bloccando l'accesso a chi usa questi strumenti.
Il risultato di tutto questo è che le home page NON invogliano l'utente né a sottoscrivere un abbonamento – dipingono il giornale come un covo di sciocchine leggerine femministine (come La Stampa) – né tantomeno a tornare per una seconda visita. Anzi, appaiono come una specie di ammasso di clickbait conditi da ads a ripetizione, senza poi contenuti che corrispondono alla qualità che vorrei per pagarli, dal momento che il clickbait (come anche il paywall) è anche riservato ai contenuti più politicizzati, che di qualità giornalistica non ne hanno affatto.
Se sommate questi tre effetti – contenuto gratuito mediocre, pubblicità invasiva insopportabile, minacce agli utenti che usano adblocker – è ovvio che il modello stia esplodendo. Se la tua vetrina fa schifo, non convincerai mai nessuno a comprare prodotti di qualità, specialmente se metà di essi sono illeggibili a causa della pubblicità che ti sequestra lo schermo ogni tre secondi.
Ma c'è di peggio: nel senso che esistono dei colpevoli precisi. Perché i giornali non si limitano a tornare, sul web, a un modello basato su "pura pubblicità", vivendo soltanto di quella?
Il problema è che se i giornali "aprissero" completamente i loro contenuti, verrebbero indicizzati e saccheggiati completamente dai vari OTT – Google in primis, ma anche Meta e altri aggregatori – che poi offrirebbero le notizie (magari vendute a qualche inserzionista pubblicitario) con gli ads di qualcun altro, trattenendo la quasi totalità dei ricavi. I dati sono devastanti: nel 2025 il traffico di referral da Google Search verso gli editori premium è calato del 10% in sole otto settimane, con CNN che ha perso il 30% del traffico e Business Insider e HuffPost circa il 40%. Alcuni editori indipendenti riportano cali del 70% nelle visite organiche. Questo accade perché gli AI Overviews di Google – quei riassunti automatici che appaiono in cima ai risultati di ricerca – mostrano direttamente il contenuto senza che l'utente debba più cliccare sul sito dell'editore. Nel frattempo, la quota pubblicitaria di Google è passata da un rapporto 50/50 con il resto del web a oltre il 90% nell'ultimo trimestre del 2024, mentre Meta ha semplicemente smesso di pagare gli editori statunitensi per i contenuti aggregati nel News Tab dopo aver speso 105 milioni di dollari in un "esperimento che non ha dato risultati".
E qui non stiamo parlando di un problema di copyright: stiamo parlando al massimo di un problema di falsificazione del prodotto e di appropriazione indebita del valore. La "soluzione" più brutale per i giornali sarebbe quella di consentire l'accesso ai contenuti reali solo a chi viene dalla rete d'accesso nazionale – sto dicendo rete d'accesso, non "IP nazionale": rete d'accesso significa chi ha una SIM di un operatore nazionale o una linea domestica di un operatore nazionale – mentre gli altri IP che non sono parte di quei pool potrebbero essere inviati a un sito di qualità inferiore, per esempio uno snapshot di tre giorni fa, sufficiente per soddisfare i bot degli aggregatori ma inutile per chi cerca notizie fresche.
È un proiettile d'argento? No. Nel senso che dopo aver accusato il colpo, i vari OTT comincerebbero a cercare di bypassare il limite, magari usando VPN residenziali o acquistando accessi tramite proxy nazionali.
In generale, quindi, la crisi manovra a tenaglia: se tolgono i paywall, finiscono nelle mani degli OTT che vogliono pubblicare news senza pagarle (o pagandole cifre ridicole come i 10 milioni annui che Meta offriva al Wall Street Journal, mentre ne tratteneva decine di volte tanto in ricavi pubblicitari); mentre se mettono i paywall, finiscono per fallire perché perdono traffico, pubblicità e rilevanza, lasciando campo libero agli outlet propagandistici grat
Ma stranamente, del problema si sente parlare poco. Evidentemente i giornalai credevano di aver risolto il problema col paywall.