Paradossi temporali, o solo mentali?

Ti accorgi di avere davvero degli amici quando, dopo qualche birra, la conversazione inizia a deviare verso territori affascinanti e insidiosi come la meccanica quantistica, la fantascienza o, per i più coraggiosi, i paradossi temporali. Il fatto curioso è che questi cosiddetti “paradossi” non esistono davvero: sono il frutto di un equivoco tutto mentale, radicato in una serie di pregiudizi cognitivi. Anzi, per essere precisi, si basano su alcuni errori concettuali fondamentali.

Quando si parla di viaggi nel tempo, e in particolare di quelli che ci porterebbero indietro nel passato, il problema viene spesso formulato più o meno così:

Ma se io tornassi indietro nel tempo e, che so, mangiassi una mela? Magari quella era l'ultima mela rimasta dal fruttivendolo. Una persona che contava su quella mela non la trova più, decide di andare in un altro negozio, e nel tragitto viene investita e muore. Ecco, quella persona era mia madre.

Ed ecco che l’orrore si manifesta: il nostro viaggiatore nel tempo si ritroverebbe in un passato che sembra un campo minato, paralizzato dalla paura che ogni minimo gesto – anche solo il mordere una mela – possa provocare conseguenze catastrofiche e irreversibili per “la storia”.

Tutto molto suggestivo. Peccato che ci sia un piccolo, trascurato dettaglio che rovina tutta questa costruzione.

La domanda vera è: dove finisce, esattamente, “la storia”? Se oggi, nel presente, io mangio una mela, potrei allo stesso modo innescare una catena di eventi imprevedibili che si propagano nel futuro. Eppure non vivo nella costante angoscia di causare disastri solo perché ho uno spuntino in mano. Perché mai allora dovrei essere così terrorizzato se compio la stessa azione nel passato?

Forse, il problema non è il viaggio nel tempo. Forse, il problema è come lo pensiamo.


Abbiamo osservato come, quando si ipotizza un viaggio nel tempo verso il passato, emerga una certa angoscia: quella di alterare la “storia”, di provocare danni irreparabili solo con la nostra presenza. Ma curiosamente, non proviamo lo stesso timore quando agiamo nel presente, pur sapendo che ogni nostra azione può modificare profondamente il corso degli eventi futuri. E allora, qual è davvero la differenza tra ciò che chiamiamo “storia passata” e quella che consideriamo “storia futura”?

Dal punto di vista fisico, rigorosamente parlando, non ce n’è alcuna.

La distinzione è interamente mentale: il passato è ciò che ricordiamo (o almeno potremmo ricordare), il futuro ciò che ancora non possiamo ricordare. È una separazione costruita sulla nostra percezione soggettiva del tempo, non su una realtà oggettiva.

Tutto nasce dal modo in cui interpretiamo il tempo: lo immaginiamo come una linea di eventi ordinati, dove l’ordine è determinato dalla relazione causa-effetto. In questo schema, in un dato istante X, possiamo — almeno in linea teorica — ricordare tutti gli eventi che lo hanno preceduto, ma non quelli che lo seguono. È da questa asimmetria della memoria che nasce l’illusione del tempo che scorre.

Ma se ammettiamo la possibilità di spostarci lungo questa linea — ed è esattamente ciò che ipotizzano i viaggi nel tempo — allora l’intera idea di “modificare la storia” perde di senso. Per esempio: se vi ritrovate in un tempo in cui vostra madre è ancora viva e vi domandate se uccidendola “cambiereste la storia”, la risposta è sorprendente. In quel momento, non siete nel vostro passato. Ma su questo torneremo tra poco.

Il punto è che, in uno spazio quadridimensionale in cui il tempo è semplicemente una delle coordinate, la distinzione tra passato e futuro è una convenzione mentale, utile alla nostra coscienza ma arbitraria. Il passato è ciò che potrebbe essere contenuto in una memoria; il futuro è ciò che, per definizione, non vi è ancora inscritto.

Ora, se fossimo creature capaci di percepire una quinta dimensione — e quindi di osservare lo spazio-tempo quadridimensionale come noi osserviamo un foglio bidimensionale — vedremmo una realtà assai diversa. Tutti gli eventi, da quelli più remoti nel passato a quelli ancora da venire, sarebbero lì, simultaneamente presenti. E vedremmo anche questa strana razza di esseri, gli umani, affannarsi ad applicare etichette su ogni accadimento, definendolo “passato” o “futuro” in base a un unico criterio: se lo ricordano o no?

la prima causa di questo paradosso e' di aver introdotto nel ragionamento il concetto di “storia”. Ma siamo stati noi ad infilare quest'etichetta arbitraria nel ragionamento, non la fisica.


Il secondo errore concettuale che commettiamo, quando ragioniamo sui viaggi nel tempo, è altrettanto insidioso quanto il primo: è quello che potremmo chiamare principio di onnipotenza retroattiva.

In pratica, immaginiamo che se riuscissimo a tornare indietro nel tempo, saremmo liberi di compiere qualunque azione, proprio come nel presente. Ad esempio, potremmo tranquillamente decidere di mangiare una mela, con tutte le conseguenze assurde che questo potrebbe comportare — come nel famoso esempio in cui, attraverso una catena di eventi improbabili ma logicamente coerenti, quel gesto finisce per impedire la nascita di nostra madre. E da lì, il classico cortocircuito narrativo: “Ah-ha! Paradosso temporale!”

Ma fermi tutti: chi vi ha detto che sia davvero possibile? Siete in grado di moltiplicare una birra con lo sguardo? No? Quindi esistono cose impossibili, cose che non potete fare. Lo accettiamo? Si.

E allora perché vi ostinate a credere che, una volta tornati nel passato, avreste lo stesso grado di libertà fisica e causale che possedete nel presente? Da dove nasce questa presunzione?

L’idea che nel passato possiamo agire come facciamo nel presente è un'assunzione gratuita, mai dimostrata, eppure spesso data per scontata. Ma cosa accadrebbe se non fosse così?

Esiste un’alternativa, altrettanto coerente — e molto più rispettosa del caro vecchio rasoio di Occam: supponiamo che, una volta giunti nel passato, non possiate fare assolutamente nulla. Nessuna azione, nessuna interazione, nessuna influenza. Zero.

E quando diciamo “nulla”, intendiamo proprio nulla: nemmeno spostare un singolo fotone. Questo implicherebbe, tra le altre cose, che non potreste nemmeno vedere ciò che vi circonda, dal momento che la visione richiede l'interazione con la luce. Risultato? Dal vostro punto di vista, il passato sarebbe un vuoto oscuro, silenzioso, completamente privo di segnali intelligibili. Un abisso cieco e muto. E le persone del passato, ovviamente, non vi vedrebbero: non perché siete nascosti, ma perché non esistete per loro in alcun modo osservabile.

Dunque, torniamo alla domanda iniziale: avete paura di mangiare la mela e causare un effetto domino catastrofico nel tempo? Bene. Ma chi vi ha mai garantito che, tornando nel passato, sareste effettivamente in grado di mangiarla?

È proprio questo — l’assioma dell’onnipotenza retroattiva — il secondo ingrediente che genera il paradosso. Se lo eliminate, se accettate la vostra totale impotenza nel passato, il problema scompare. Potete viaggiare nel tempo quanto volete: non accadrà assolutamente nulla. Nessun paradosso, nessun effetto farfalla. Solo buio.


Esiste anche una terza possibilità, una sorta di via di mezzo tra l’impotenza assoluta e l’onnipotenza fantasiosa: una soluzione che ci viene offerta dalla buona, vecchia termodinamica.

Accettiamo il principio, ormai ben consolidato, secondo cui l'entropia dell'universo è in costante aumento, e che ogni trasformazione di energia comporta inevitabilmente una degradazione: l’energia si disperde, si rende meno utile, meno disponibile. Da ciò discende una conseguenza interessante — e spesso trascurata — per la questione dei viaggi nel tempo.

In questo contesto, ogni evento, anche il più banale, ha sì delle conseguenze, ma non necessariamente scatena reazioni a catena di portata illimitata. L'effetto delle azioni, con il tempo, si affievolisce, si dissolve, si annulla nell’oceano crescente dell’entropia. In altre parole: la maggior parte di ciò che facciamo svanisce nel rumore di fondo dell’universo. E questo, guarda caso, è esattamente ciò che la termodinamica ci insegna da secoli.

Dunque, se applichiamo questa logica ai viaggi nel tempo, otteniamo un modello interessante: tornare nel passato non implica automaticamente la possibilità di fare qualsiasi cosa. Le vostre possibilità d’azione saranno proporzionali al costo energetico delle conseguenze che volete innescare.

In concreto: potreste compiere azioni a bassa energia, eventi destinati a perdere ogni effetto entro un certo tempo — come magari spostare un sasso o assaggiare una mela qualsiasi — senza modificare il corso della “storia”. Ma se invece tentate di compiere un’azione in grado di produrre conseguenze irreversibili e durature — come, ad esempio, ingerire proprio quella mela che, attraverso una sequenza miracolosa di eventi, porterà alla morte prematura di vostra madre ancora vergine — allora l’energia richiesta per violare la coerenza causale dell’universo diventerebbe semplicemente inaccessibile.

Così, la termodinamica ci regala un principio di limitazione naturale: il passato non è un terreno di gioco libero, ma un paesaggio con vincoli energetici precisi. Potete agire, sì, ma entro certi limiti. Non siete impotenti come nel modello del vuoto oscuro, ma nemmeno divinità capaci di riscrivere il destino.

In questa prospettiva, se viaggiate dal 2025 al 2015, allora il 2025 diventa, per voi, un orizzonte degli eventi. Finché vi trovate nel 2015, non avete alcuna possibilità di influenzare o comunicare con ciò che accade nel 2025. È fuori portata, come una stella dietro un buco nero: c'è, ma non potete toccarla.

Un equilibrio affascinante: siete presenti, ma contenuti. Attivi, ma vincolati. E finalmente, niente più paradossi.

Abbiamo contestato il principio di onnipotenza (potete fare tutto) ma non quello di potenza (potete fare qualcosa).Ma per inciso, il principio di onnipotenza non e' necessario alla fisica, come la conosciamo.


Parentesi.

La celebre farfalla del caos, quella che con un battito d’ali a Pechino genererebbe un uragano a New York, non esiste davvero. O meglio: è una semplificazione estrema, spesso fraintesa, di ciò che avviene nei sistemi dinamici complessi. Ogni volta che faccio notare che non tutte le alterazioni di un sistema generano catastrofi a cascata, qualcuno tira fuori questa metafora con tono trionfante, come se fosse una legge universale e incontestabile.

È necessario chiarire un punto fondamentale: questa affermazione vale soltanto per sistemi già intrinsecamente instabili. In tutti gli altri casi, quelli cioè in cui esistono stati stabili o comunque dotati di attrattori dinamici, l’effetto farfalla non si manifesta. Non si può invocare il caos come scusa universale per giustificare qualunque cataclisma emergente da un evento microscopico. La termodinamica ci insegna che non è possibile che un cambiamento infinitesimo causi automaticamente una reazione a catena crescente: perché ciò accada, è necessario che esistano le condizioni strutturali adatte, e che ogni passo della sequenza sia in grado di generare l’energia necessaria per alimentare il successivo.

L’effetto che Lorenz descrisse nei suoi modelli meteorologici è reale, certo, ma riguarda soltanto sistemi caotici, quelli in cui piccolissime variazioni nelle condizioni iniziali possono portare a esiti completamente diversi, per via della loro sensibilità esasperata. Ma questo non implica affatto che ogni microscopico gesto del passato sia in grado di riscrivere il destino del mondo. Se schiacciate un moscerino ai tempi di Cesare, non è affatto detto che l’Impero Romano crolli di lì a poco per questa ragione.

È possibile, certo — qualora il sistema fosse già sull’orlo di un’instabilità critica — ma è ben lontano dall’essere la norma. Anzi, nella maggior parte dei casi, il sistema tende a riassorbire le fluttuazioni minori, e l’effetto cumulativo svanisce con il tempo. Pensare il contrario è come vivere in un mondo dove ogni respiro potrebbe scatenare un’eruzione vulcanica: suggestivo, ma profondamente scorretto dal punto di vista fisico.


Un altro principio che possiamo — e forse dovremmo — mettere in discussione è l'idea, data troppo spesso per scontata, che il tempo possieda le stesse proprietà dei numeri reali. Nei modelli fisico-matematici tradizionali, il tempo viene rappresentato proprio come una variabile reale: una quantità continua, ordinata, infinitamente divisibile. Ma questa assunzione, apparentemente innocua, porta con sé un’intera valanga di complicazioni concettuali, spesso ignorate proprio da chi dovrebbe occuparsene: i teorici.

Per esempio:

Insomma, sostenere che il tempo sia una linea continua, liscia e ben ordinata come R è, quantomeno, discutibile. Forse sarebbe il caso di abbandonare del tutto questa idea, per evitare di appiccicare alla fisica un modello che funziona solo sulla carta.

Ma provate a dirlo a un “fisico teorico”. Vi guarderà come se foste pazzi, balbetterà qualcosa tipo “ma i modelli funzionano nei laboratori”, e si ritirerà rapidamente dal confronto, dimenticando all’istante di essere un teorico. Perché, si sa, i teorici sono teorici solo fino a quando le domande non diventano troppo teoriche. Tipo: “Ma sei sicuro di aver scelto i numeri giusti per rappresentare il tempo?”.

E perché tutto questo è rilevante per il nostro discorso? Perché prima di morire, Stephen Hawking aveva proposto un’idea affascinante: descrivere il tempo non con i numeri reali ®, ma con i numeri complessi ©, cioè un insieme bidimensionale.

Hartle–Hawking State J. B. Hartle and S. W. Hawking, “Wave function of the Universe,” Physical Review D, Vol. 28, No. 12, pp. 2960–2975 (15 December 1983)

E a quel punto la domanda non diventa più “Come torniamo indietro nel tempo?”, ma “Indietro, in quale direzione?”. È come voler andare a sud, ma dover scegliere: sud-est o sud-ovest? E nel modello temporale complesso di Hawking esistono anche cose tipo il “sud-nord”, ma per ora evitiamo di complicarci la vita ulteriormente.

Ora, certo: C eredita da R buona parte delle sue caratteristiche teoriche, comprese le sue assurdità. Ma l’intuizione interessante sta altrove: se smettiamo di pensare al tempo come a una linea ordinata unidimensionale, molti dei nostri paradossi temporali iniziano a sbriciolarsi.

In questo scenario, potreste essere partoriti da vostra madre in un punto temporale “a dieci gradi a destra”, mentre mangiate quella famosa mela “a cinque gradi a sinistra”. In coordinate più astratte: vostra madre vi mette al mondo in {A, B}, ma voi sgranocchiate la mela in {A, C}. E quei due eventi non sono in contraddizione, perché non sono nemmeno nella stessa direzione temporale.

Sì, è un’ipotesi molto teorica. Ma se consideriamo che Hawking ha passato la vita su una sedia a rotelle pensando in silenzio a queste cose, direi che glielo possiamo concedere: non poteva fare molte cose pratiche. O almeno potremmo ascoltarlo, prima di tornare a disegnare lineette su un grafico. Anche perche', se arriviamo a questo punto non siamo piu' sicuri che abbia scritto la sua teoria PRIMA di morire.

Comunque, anche mettendo in dubbio il principio secondo cui il tempo ha una dimensione sola, che non e' indispensabile in fisica – il lavoro di Hawkins e' compatibile con la fisica che conosciamo – vengono meno i paradossi temporali.


Un ulteriore “hack” concettuale che vale la pena prendere in considerazione riguarda la nostra convinzione — tutta di impronta euclidea — che l’universo in cui ci troviamo sia strutturato come uno spazio vettoriale dotato di un numero intero di dimensioni: tre spaziali, o al massimo quattro se includiamo il tempo.

Ma cosa accadrebbe se ipotizzassimo che le dimensioni non siano intere? Supponiamo, per esempio, che le dimensioni dello spazio non siano quattro, ma 3.5. Dal punto di vista intuitivo, la nostra mente andrebbe in tilt: non riusciamo nemmeno a visualizzare agevolmente uno spazio a quattro dimensioni, figuriamoci uno a 2.5. Ma questo limite è nostro, non della matematica.

So che l’idea può sembrare stravagante, ma consideriamo i frattali. Quando li osserviamo, siamo portati istintivamente a pensare che, essendo disegnati su un piano, abbiano dimensione 2. Tuttavia, questa è un’illusione percettiva. Prendiamo ad esempio queste due immagini:

sierpinsky
Questa figura, nota come triangolo di Sierpiński, ha una dimensione frattale di circa 1.585.

koch
Questa, invece, rappresenta la curva di Koch, che ha una dimensione frattale pari a circa 1.2619.

Si tratta di curve frattali, cioè strutture autosemili: ingrandendole, troverete che ogni porzione della linea riproduce la forma complessiva. Sono oggetti che non rientrano nella geometria tradizionale, ma che vivono in dimensioni non intere. Nonostante ciò, riusciamo comunque a rappresentarli, a manipolarli e perfino a studiarne le proprietà matematiche.

Dunque, l’impossibilità di “immaginare” uno spazio a dimensione frazionaria non implica che esso non possa esistere o essere utile. Certo, si tratta di spazi che non sono vettoriali nel senso classico, ma la loro geometria è ben definita.

Cosa perdiamo, allora, se abbandoniamo il rassicurante ottimismo di Euclide e iniziamo a pensare all’universo come a uno spazio frattale? In primo luogo, perdiamo la norma. Abbiamo ancora una metrica — ovvero possiamo ancora definire una distanza tra due punti — ma non possiamo più misurare la lunghezza di un segmento nel senso tradizionale. La nozione stessa di “lunghezza” si frantuma in un mondo dove la norma non esiste più, o non è ben definita.

Un disastro? Non proprio. Lo spazio-tempo relativistico, per esempio, si trova in una situazione analoga: la sua metrica non è definita positiva e può restituire valori negativi o nulli. Eppure funziona, e molto bene, nelle sue predizioni fisiche.

Quindi, se abbracciamo l’idea che il continuum spazio-temporale possa avere una struttura frattale, riusciamo a dissolvere anche molti dei paradossi legati ai viaggi nel tempo. In uno spazio simile, potreste tranquillamente mangiare la mela, e vostra madre resterebbe perfettamente in salute. Gli eventi non si concatenerebbero più secondo logiche lineari, ma secondo un tessuto metageometrico più complesso e articolato, dove causa ed effetto potrebbero seguire sentieri divergenti e ramificati.

Certo, rimarrebbe il problema di come costruire un tensore metrico adeguato per descrivere un tale universo e per calcolare, con una precisione soddisfacente, quanti coccobrilli bloppano la magannovvia.

O qualcosa del genere.


In definitiva, quindi, quello che sto dicendo e' che il paradosso temporale non e' necessario: e' una costruzione che ci porta ad una conclusione paradossale, ma solo perche' usiamo degli assiomi che non sono necessari, ma solo comodi.

Se cominciamo a toglierli e metterci delle proposizioni piu' logiche, o verosimili, non necessariamente il viaggio nel tempo funzionerebbe come pensiamo.

Personalmente, quella che preferisco e' l'ipotesi entropica. L'idea che potremmo ancora produrre cambiamenti, ma saremmo limitati dalla portata delle conseguenze.

Insomma, se cerchiamo di mangiare la mela, semplicemente mangeremo quella sbagliata.

Uriel Fanelli


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