Ozzy.
Chi, come me, ha conosciuto Ozzy Osbourne — o, più precisamente, la sua musica — intorno agli anni ’80, dunque in una fase relativamente tarda della sua carriera, lo ha sempre percepito come una sorta di padre fondatore dell’heavy metal. Se negli anni ’80 ti identificavi come “metallaro”, era chiaro che l’heavy metal esisteva già da tempo come genere musicale. Tuttavia, erano anni di fermento incessante, in cui il metal si trasformava e si ramificava in sottogeneri a una velocità vertiginosa, quasi inafferrabile. Ozzy, in mezzo a questo turbine creativo, restava una figura cardine, un punto di riferimento che travalicava le mode e le etichette.
Il genere, all’epoca, si portava dietro una pessima fama: quella del satanismo. Una nomea da cui però si liberò facilmente… semplicemente accontentando i detrattori. Ricordo ancora un giorno, in classe, quando il professore di religione — lo stesso che era convinto che il miracolo fosse una realtà quotidiana, perché le galline fanno le uova senza gallo — tentò di convincerci che ascoltando al contrario una cassetta dei Van Halen si sentisse Satana in persona ordinarti di toglierti la vita.
La scena era surreale. E divertente. Anche perché, per seguire la sua logica, bisognava prima rovinare una cassetta. Occorreva svitare le quattro viti del guscio, estrarre il nastro, invertirne la direzione, rimetterlo a posto e richiudere tutto con cura. Con l’elevata probabilità, però, di compromettere irrimediabilmente il meccanismo. Il più delle volte, la cassetta risultava inutilizzabile.
Così, la domanda fu inevitabile: — Ma scusate, perché dovrei rovinarmi una cassetta per sentire messaggi satanici al contrario, quando posso comprarne una dei Venom, dei Possessed o dei Bathory (quelli del periodo oscuro), che certe cose le dicono apertamente, senza nascondersi dietro trucchetti da prestigiatore da sacrestia?
Il professore rimase senza parole. Perché la verità era evidente: quei gruppi non avevano nulla da nascondere. E allora, a cosa serviva quell’aria da saputelli del tipo: — Ah! Lui voleva nasconderlo, ma noi siamo più furbi! Abbiamo capito il trucco, basta invertire il nastro! Quando invece c’era chi diceva tutto alla luce del sole?
E poi, perché proprio Van Halen?
La canzone incriminata, tra l’altro, era questa:
…che, a dire il vero, di diabolico ha ben poco. A meno che non vi chiamiate Waldo.
Ecco perché tutta la narrazione su Ozzy Osbourne satanista faceva sorridere. Certo, è vero: una volta ha staccato la testa a un pipistrello con un morso. Ma era convinto che fosse finto, una trovata di scena. Il risultato? Una bella infezione e, più avanti, una cirrosi epatica. Non riesco proprio a immaginare Satana con la cirrosi. Davvero no.
Il mondo del metal impiegò quasi un decennio a liberarsi di quella schiera di investigatori della domenica. Lo fece nel modo più semplice: confessando il reato, reiterandolo, enfatizzandolo fino allo sfinimento — finché il simbolo stesso non si disintegrò sotto il peso della ripetizione. È anche per questo che l’arrivo di Marilyn Manson sconvolse molti provenienti dall’industrial e dalla techno, ma sui metallari di vecchia data provocò poco più che una raffica di sbadigli.
Ma nel periodo di Ozzy, il metal non si liberò soltanto della questione religiosa o para-religiosa. Si scrollò di dosso anche la zavorra della politica. Con lui si può osservare con precisione il passaggio da brani come War Pigs — canzone esplicitamente politica, ancora intrisa degli echi del ’68, e quindi perfettamente in linea con la tradizione del rock contestatario — verso un heavy metal “moderno”, che della politica semplicemente se ne frega.
Certo, esistono ancora oggi investigatori della domenica che tentano di dimostrare che il metal sia nazista. E tutto quello che riescono a produrre è la constatazione che alcuni nazisti ascoltano metal (cosa che, francamente, non stupisce), o che esiste una manciata di cantanti che fanno metal nazista — per lo più figure marginali, senza carriera e senza pubblico. È la stessa storia del satanismo: certo, certo, Waldo, la tua parrocchia di segugi morali ci ha scoperti. Oddio! Siamo distrutti.
Serve che vi ricordi chi fosse Billy Milano?
Noi non cantiamo il NOSTRO fascismo, bastardi, noi cantiamo IL VOSTRO.
Questa canzone è fascista in modo totale: ontologicamente, spiritualmente. Ma è un fascismo talmente portato all’eccesso da svelarne tutta la stupidità, diventando una parodia dei fascisti stessi. Un po’ come Lobo, ma in musica. Solo che il fascismo in questione non è quello con la camicia nera, ma quello profondamente americano, quello del patriottismo ossessivo, dell’eccezionalismo da supermercato, del “speak English or die”. Una forma primitiva di ciò che oggi possiamo ammirare in tutto il suo splendore nel governo Trump.
Insomma, anche l'accusa di fascismo rivolta all’intero genere metal si sgretola sotto il peso della realtà: il fascismo, in quella forma culturale, era già parte integrante del pensiero americano, e bastava estremizzarlo per renderne palese la natura anarcoide e ridicolmente bellicosa. Speak English or Die è, in fondo, un manifesto proto-trumpiano: grottesco, esagerato, trash — e proprio per questo rivelatore.
Noi non cantiamo il NOSTRO fascismo, bastardi, noi cantiamo IL VOSTRO.
Ozzy, in tutto questo, è stato l’interprete perfetto di un’epoca di transizione: da un rock politicizzato, militante, con la puzza sotto il naso e il pugno chiuso, a un heavy metal edonista, sfrontato, profondamente popolare e deliberatamente dumb as fuck.
Con Ozzy si passa da War Pigs, Children of the Grave, Electric Funeral, Hole in the Sky — canzoni cariche di significato e tensione politica — ad album sempre più lontani da qualsiasi contenuto ideologico. Il rock gridava che schifo! contestiamo!. Il metal rispondeva che schifo! facciamoci un’altra birra e ridiamoci sopra! Fottetevi tutti, bastardi.
Anche il resto del mondo metal, sia chiaro, seguiva la stessa traiettoria. Prendiamo i Metallica: passano da Master of Puppets — un album che, neppure troppo velatamente, critica l’alienazione e l’indottrinamento militare — a… tutto ciò che è venuto dopo. Sono gli anni del disimpegno, del “riflusso”, come ci chiamavano con un certo disprezzo gli intellettuali. Una categoria per la quale, inutile nasconderlo, nutrivamo una considerazione piuttosto bassa.
Nemmeno il femminismo, in quegli anni, se la passava troppo bene nel contesto metal. Le accuse di maschilismo tossico si sprecavano, e a ragione. Ma la risposta non fu un tentativo di conciliazione o autocritica: fu il classico dito medio. Un esempio?
La logica con cui si combattevano politici, giornalisti, benpensanti e sociologi da rivista era sempre la stessa:
— È inutile che tu mi accusi di veicolare messaggi nascosti, simbolismi subliminali e ideologie devianti.
Io non nascondo niente. Le cose te le urlo in faccia. Non c’è sottotesto, non c’è messaggio cifrato: c’è solo brutalità frontale. E con me, la cancel culture — anche se all’epoca non si chiamava ancora così — non funziona.
In questa trasformazione profonda, due eventi biografici segnano un cambio di paradigma per Ozzy. Il primo fu la tragica morte di Randy Rhoads, il 19 marzo 1982, in un incidente aereo durante il tour promozionale di Diary of a Madman — album pubblicato pochi mesi prima, nell’ottobre del 1981. È proprio in quell’album che si inizia a percepire un cambio di direzione: Ozzy si allontana dalla retorica collettiva per entrare nei territori cupi della psiche individuale. Diary of a Madman non parla più di guerra, di religione o di potere: parla di follia, angoscia, isolamento mentale. È un’autoanalisi isterica in 4/4.
Il secondo momento chiave fu la morte della madre, Lilian Osbourne, nel 2001. Un evento che lo colpì profondamente e che lo spinse a dichiarare pubblicamente: “I'm glued together with medication… I'm a fucking nutter”. Anche questo, senza filtri.
Così, nel giro di vent’anni, l’heavy metal di Ozzy abbandona ogni ambizione rivoluzionaria per diventare qualcosa di radicalmente personale, sfacciatamente nichilista, e orgogliosamente vandalico.
Il rock voleva cambiare il mondo.
L’heavy metal, ormai, si limitava a ridere in faccia al mondo — e poi a rovesciargli addosso una lattina di birra tiepida. E nel tempo, si scopri' che era davvero molto.
I politicanti, certi politicanti, infatti, non amano venire ignorati. E neanche essere cantati.
Noi non cantiamo il NOSTRO fascismo, bastardi, noi cantiamo IL VOSTRO.
Ozzy non fu soltanto il padre dell’heavy metal — che, sia chiaro, non cadde dal cielo come un’illuminazione improvvisa, né nacque da un colpo di genio isolato. Fu piuttosto uno dei protagonisti più carismatici e determinanti di una trasformazione culturale: quella che traghettò la musica giovanile dal rock politicizzato, ormai isterico e logoro, verso un suono nuovo, che reagiva alle porcherie del mondo non predicando rivoluzioni, ma vomitandole in faccia all’ascoltatore, con le parole giuste, con l’urgenza di chi non ha più illusioni.
Ozzy non aveva fiducia nell’umanità. Non voleva cambiare il sistema. Voleva solo fare un gran casino. E in questo fu straordinariamente coerente.
Non fu un genio visionario, non un innovatore in senso stretto, ma un traghettatore lucidissimo, uno che capì perfettamente il cambio d’epoca e seppe incanalarlo in forma musicale. Un uomo che ha avuto il merito — e forse la colpa — di strappare un’intera generazione dai veleni della politica, sostituendoli con una dose letale di amplificatori e disillusione.
E per quanto riguarda il fascismo, specialmente negli anni ’80, il metal non solo non lo accettò, ma spesso lo irrise, lo portò all’eccesso fino a renderlo grottesco, e soprattutto lo rifletté per quello che era: un’emanazione profonda e strutturale del pensiero americano.
Non c’era bisogno di inneggiare a Hitler: bastava prendere il patriottismo yankee, portarlo a volume 11 e lasciarlo marcire nel sole del deserto.
Surf Nicaragua, dei Sacred Reich, è un esempio lampante: una critica feroce, travestita da canzone da guerra, che mostra come l’idea stessa di “America” — muscolare, colonialista, strafottente — fosse intrinsecamente fascista.
Noi non cantiamo il NOSTRO fascismo, bastardi, noi cantiamo IL VOSTRO.
Questa trasformazione ebbe molti interpreti, anche grandi band , ma Ozzy era sicuramente quello che era li' sin dall'inizio.
Ozzy, con l’avanzare degli anni, non ha mai più cantato la politica in modo esplicito. Non ce n’era più bisogno. Il mondo che una volta prendeva per il culo, ormai aveva vinto. L’idiozia al potere non era più una distorsione da raccontare: era diventata normalità. L'aberrazione poltica ormai era una questione di sanita' mentale.
Così la sua discografia si è fatta più oscura, più intima, più lucida.
Album come Down to Earth (2001), Black Rain (2007), Scream (2010) e Patient Number 9 (2022) parlano non più di rivolte e mostri politici, ma del logorìo dell’anima, della malattia, della vecchiaia, dell’alienazione totale, nel mondo dove quella politica ha ormai vinto.
Non è più “ci stanno fregando” — è “ci hanno già fregati, e adesso ci guardano marcire”.
In Black Rain, ad esempio, canta:
“You're coming with me / Through the age of reason / I've lost it completely.”
Non denuncia più un regime o una società. Denuncia il fatto che non c’è più nessuna speranza di ragione. Nel brano Under the Graveyard (2019), arriva a dire:
“Today I woke up and I hate myself / Death doesn't answer when I cry for help.”
È sempre Ozzy. Ma non urla più il vostro fascismo — lo subisce.
Non lo vomita in faccia. Te lo mostra dentro il suo fegato distrutto, la sua psiche sfaldata, le sue ossa marce.
È come se dicesse: Avete vinto voi, bastardi. Ora godetevi lo spettacolo. E lo spettacolo è la rovina di un uomo, di un’epoca, di un genere, di una cultura.
In questo senso, è ancora il più coerente di tutti. Ha iniziato gridando che il mondo faceva schifo.
Ha finito mostrandoci cosa succede alla tua mente quando ci vivi dentro.
Ciao, Ozzy.
Ad Maiora.
Uriel Fanelli
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