“Overturismo” o solo ipocrisia?
Leggo con un misto di divertimento e incredulità delle grottesche proteste dei cosiddetti No Rodrigo — un gruppo che, con sorprendente serietà, si oppone al fatto che Jeff Bezos vorrebbe sposarsi a Venezia. A quanto pare, l'idea che un miliardario possa celebrare un matrimonio nella Serenissima turba profondamente la sensibilità di certi residenti e attivisti locali. Ma la vicenda è solo l’ultimo sintomo di una lamentela ben più ampia, che riguarda molte città del mondo — in particolare europee — e che si riassume in una parola ormai abusata: “overturismo”.
Da Firenze a Venezia, passando per Barcellona, il copione è sempre lo stesso: folle di turisti considerate eccessive, centri storici invivibili, comunità locali “snaturate”, e la conseguente invocazione di restrizioni, tasse, chiusure, e in certi casi veri e propri rigetti dell’“ospite”. Eppure, a ben vedere, tutta questa indignazione ha spesso un tono patetico, quando non apertamente ipocrita. Per diversi motivi.
Il primo pensiero corre inevitabilmente a quei soloni che, nei decenni passati, pontificavano con sicumera su come l’Italia non avesse bisogno dell’industria. Secondo costoro, un paese come l' Italia — così meraviglioso, così ricco di storia, arte e paesaggi mozzafiato — avrebbe potuto benissimo vivere esclusivamente di turismo. “Altro che fabbriche: qui si può campare tutti accompagnando i visitatori giapponesi in gondola o servendo prosecco ai tavolini all’aperto. Non serve mandare le ragazze all'universita', che si imbuttaniscono.” Ricordi di una retorica tanto ingenua quanto pericolosa.
Ebbene, la risposta a questa favola è semplice: no, non potete vivere tutti di turismo. Perché prima ancora che l’economia locale riesca anche solo lontanamente a distribuire equamente i benefici del turismo di massa, la città è già degenerata in qualcosa di grottesco. Il centro storico si svuota di residenti, i negozi diventano fotocopie l’uno dell’altro, i prezzi schizzano, i servizi si piegano alle esigenze del turista mordi-e-fuggi, e finite a camminare — letteralmente — sul vomito inglese dei gruppi di addii al celibato del sabato sera.
In altre parole: non fate in tempo a “vivere di turismo” che il turismo ha già cominciato a vivervi contro, a nutrirsi della vostra città fino a svuotarla, a trasformarla in un luna park decadente, dove anche l'identità locale finisce in saldo tra una maschera cinese e una pizza surgelata.
La prima lezione che si dovrebbe imparare — e sottolineo dovrebbe, perché pare che in molti si ostinino a ignorarla — è di una semplicità disarmante:
No, puntare tutto sul turismo non è la soluzione. Anzi, è spesso l'inizio di problemi ancora peggiori.
L’idea che il turismo sia una panacea economica, una soluzione facile ai problemi economici sistemici, è un’illusione pericolosa, coltivata con ostinazione da politici a corto di idee e da imprenditori locali sedotti dai guadagni facili. Ma appena si gratta sotto la superficie luccicante dei dati sul PIL e sulle presenze alberghiere, emerge un quadro ben diverso: città congestionate, servizi pubblici sotto pressione, impennata dei prezzi immobiliari, espulsione dei residenti dai centri storici, precarizzazione del lavoro. E poi il folklore forzato, il degrado, l'identità locale ridotta a cartolina.
Il turismo di massa — e soprattutto il turismo come monocultura economica — tende a generare molti più problemi di quanti non ne risolva. E la maggior parte di questi problemi ricade proprio su chi, paradossalmente, dovrebbe “beneficiarne”. Se tutto questo vi sembra una strategia sostenibile, forse è il momento di rivedere le priorità.
Ma la prima domanda che mi viene spontanea, ogni volta che sento queste lamentele indignate, è tanto semplice quanto scomoda:
Da quanto tempo stavate lavorando — attivamente o per negligenza — affinché le cose finissero proprio così?
Prendiamo il caso emblematico di Barcellona, spesso citata come una delle vittime più eclatanti dell’“overturismo”. Gli abitanti sono furiosi, a sentire i titoli dei giornali, e denunciano l'invasione quotidiana di orde di visitatori che trasformano i quartieri in zoo urbani. Ma qui va detta una verità che pochi hanno il coraggio di ammettere: Barcellona ha lavorato instancabilmente per almeno trent'anni per diventare esattamente quello che è oggi — il luogo ideale dove l’inglese medio può sbronzarsi e vomitare nel fine settimana.
Non si tratta di un incidente della storia o di un effetto collaterale imprevisto: è stato un progetto deliberato di marketing territoriale, condotto da enti pubblici, agenzie turistiche e tour operator, che hanno promosso l’immagine di una città sexy, solare, accessibile, trasgressiva — perfetta per lo short break low cost. I pacchetti venduti nel Regno Unito per il weekend a Barcellona erano ovunque, spinti da offerte aggressive e una logistica a basso costo che ha reso l’operazione scalabile su scala industriale.
Oggi, certo, i tempi sono cambiati. Le agenzie tradizionali hanno ceduto il passo a piattaforme online e ai voli low cost, ma il modello che hanno costruito ha lasciato un'impronta permanente. Se la capitale catalana è diventata il punto di riferimento per la white trash britannica a caccia di mojito e delirio alcolico, non è stato per caso. È stato il risultato diretto di una strategia turistica portata avanti con coerenza e perseveranza per decenni.
Ta-pum. Il colpo parte da voi stessi. Scrissi tempo fa di quando abitavo sull’Appennino tosco-emiliano, e ricordo bene la scena che si ripeteva ogni inverno: giovani toscani costretti a sfidare neve, freddo e isolamento pur di trovare una casa a prezzi ancora umani. Erano i nuovi lontani di casa, espulsi dalle loro terre d’origine da un meccanismo che, con l’etichetta glamour del turismo e della “valorizzazione del territorio”, li aveva semplicemente messi alla porta.
Il motivo? Il mercato immobiliare locale era ormai saturo di richieste internazionali: le celebrità arrivavano da ogni angolo del pianeta per comprarsi una “villa in Toscana” — espressione feticcio che ha funzionato da grimaldello commerciale per rifilare, a peso d’oro, qualsiasi cosa: fienili ristrutturati alla buona, pollai miracolosamente condonati, case coloniche senza impianti, purché il tutto venisse servito con un po’ di pietra a vista e una foto di ulivi al tramonto. Bastava che ci fosse scritto “authentic Tuscan lifestyle” sul dépliant. Erano gli anni del chiantishire.
Ed ecco che il sogno bucolico di qualche fesso inglese o americano in cerca di redenzione esistenziale si traduceva, nella realtà, in espulsione abitativa per i residenti e in una campagna trasformata in quinta teatrale per l’ego altrui. Una Toscana da cartolina, certo. Ma solo finché non si guardava dietro le quinte.
Non ricordo, tuttavia, di aver mai assistito a una vera opposizione a tutto questo. All’epoca, anzi, il fenomeno era accolto con un entusiasmo provinciale travestito da sofisticatezza, una forma di fighettismo aspirazionale che induceva persone comuni a pagare — letteralmente — per andare a vendemmiare l’uva nei campi di Sting. Sì, proprio così: mentre lui imbottigliava quel vino sotto etichetta di lusso da offrire a cene tra miliardari, c’era chi era ben felice di pagare per faticare nei filari, raccontando poi con orgoglio di aver “partecipato a un’antica cerimonia rurale, autentica, bio-chic”.
Ricordo distintamente quel senso di complicità, quasi di fierezza: un sentimento diffuso tra chi si sentiva parte di un’esperienza esclusiva, come se la ruralità potesse essere nobilitata solo passando per la benedizione di una celebrità anglosassone e un’etichetta con caratteri serif. L’intera operazione di trasformazione culturale — da terra agricola a brand identitario per i consumatori urbani globali — fu accolta con un’ingenuità disarmante e, in fondo, con un certo compiacimento.
E allora mi sfugge davvero come, dopo aver trascorso anni a costruire e vendere il mito della Toscana Pop, ci si possa oggi lamentare del fatto che Firenze sia diventata un beverone da weekend per turisti low cost. Esattamente cosa vi aspettavate? Che il mondo intero morisse dalla voglia di partecipare in ginocchio alla vendemmia spirituale nella tenuta di Sting, magari pagando il biglietto?
La verità è che, con ogni post su Instagram di un tramonto sul Chianti e ogni casolare affittato a Londra via agenzia, avete piantato voi stessi i semi di ciò che oggi vi disgusta.
Venezia, poi, è il caso da manuale. Un esempio così lampante che dovrebbe ormai far parte dei corsi base di urbanistica, sociologia urbana e marketing territoriale. E francamente, le lamentele tardive del sindaco sui “48.000 residenti nella Venezia storica” suonano stonate, se non addirittura offensive per l’intelligenza altrui. Perché — chiariamolo una volta per tutte — quei “residenti” non sono cittadini nel senso pieno del termine: sono investitori.
Hanno acquistato immobili nel centro storico, spesso a prezzi speculativi, non per viverci ma per trasformarli in macchine da reddito. Affitti brevi, locali ceduti a chi apre ristoranti di dubbia qualità, take-away per turisti frettolosi, bazar di souvenir in serie, rivendite di maschere finte e vetri made in China: questo è il tessuto economico reale della Venezia odierna. Nessuno di questi proprietari abita lì. Nessuno contribuisce alla vita sociale della città. E questo fa tutta la differenza.
Il dato è facilmente verificabile con un semplice esperimento empirico. Prendete una cittadina italiana media di circa 50.000 abitanti, una di quelle che in estate ospitano flussi turistici consistenti ma che restano vive anche fuori stagione. Recatevi lì in inverno, per un weekend qualsiasi. Se quei 50.000 residenti esistono davvero, li troverete: la sera ci saranno supermercati aperti, ragazzi in giro, pub, gelaterie, bar frequentati dai locali, servizi attivi, una normale vita urbana. Insomma: una città viva.
Ora provate a fare lo stesso a Venezia. Andateci a novembre, fuori stagione, lontano dai ponti e dalle festività. Aspettate le dieci di sera, quando cala il buio e si spengono le luci dei negozi per turisti. Cosa troverete? Il nulla. Un deserto urbano. Silenzio completo. I pochi bar ancora aperti sono spesso inaccessibili per i prezzi, o stanno chiudendo e ripulendo i pavimenti. Nessun giovane in giro, nessun chiacchiericcio da piazza, nessuna gelateria, nessun vero segno di una vita comunitaria.
Chiuse le attività dei pendolari del profitto, ritirati in hotel i turisti, la città si spegne. Letteralmente. Non resta più niente. Un palcoscenico svuotato degli attori. Un museo a cielo aperto dove anche i custodi se ne sono andati a dormire. Si potrebbe essere tentati di attribuire la responsabilità di questa trasformazione ai grandi colossi dell’economia digitale, come Airbnb. Una narrazione comoda: arriva la piattaforma americana, si insinua nel tessuto urbano, e lo corrompe trasformando le case in camere d’albergo. Ma la realtà, come spesso accade, è meno cinematografica e molto più italiana.
Questo processo è stato voluto, tollerato, incoraggiato — in nome di una sola divinità: il denaro. O, per dirla alla veneziana, “prima de tuto i schei”. E qui non stiamo parlando di leggi assenti o vuoti normativi: ogni singolo edificio della Venezia storica è sottoposto a vincoli del Ministero per i Beni Culturali. Lo Stato aveva (e ha tuttora) gli strumenti per intervenire. Si sarebbero potute vietare le vendite speculative, bloccare le trasformazioni d’uso, imporre con il piano regolatore lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria. Nulla è stato fatto. O meglio: si è fatto finta di non vedere.
E così, oggi, Venezia somiglia sempre più a una balena spiaggiata. Una creatura maestosa ormai esanime, intorno alla quale si accalcano parassiti e necrofagi che si arricchiscono nutrendosi della sua carcassa. Il turismo di massa, gli affitti brevi, i take-away, le boutique di vetro industriale e maschere in plastica sono solo alcuni dei vermi che stanno spolpando lentamente ciò che resta del corpo.
Provate a fare uno di quei giri turistici in gondola, anche se i gondolieri sono ormai maestri nell’arte di nascondere le vergogne. Guardate bene le facciate, gli intonaci, i serramenti. Non serve essere architetti per rendersi conto che moltissimi edifici sono marci, abbandonati, strutturalmente compromessi. E non c’entra l’acqua alta, né le maree, né qualche apocalisse climatica: si tratta di degrado urbano puro, dovuto all’abbandono e all’assenza di manutenzione. Allo sfruttamento. Escludendo i grandi palazzi storici in pietra — restaurati solo quando servono da cornice per eventi mondani o come biglietto da visita per la rendita d’immagine — il resto di Venezia si presenta ormai come un cadavere edilizio in lenta ma inesorabile decomposizione. Un patrimonio architettonico e culturale di valore incalcolabile, abbandonato all’incuria, lasciato morire sotto gli occhi complici di chi continua a incassare gli ultimi euro dalle sue spoglie come saccheggiatori su un campo di battaglia ormai silenzioso.
Ma diciamolo chiaramente: se cercate un colpevole, non lo troverete né in Airbnb né nel cosiddetto overtourism. Sono strumenti, non cause. Il vero problema è che amministrare una città svuotata dei suoi abitanti, ridotta a palcoscenico per turisti di passaggio, è enormemente più semplice, più redditizio e infinitamente meno faticoso che governare una città viva, complessa, pulsante di esigenze reali.
In una città vera bisogna occuparsi di trasporti pubblici, scuole, ospedali, manutenzione urbana, alloggi popolari, sicurezza, lavoro. In una Disneyland urbana, invece, basta gestire l'afflusso dei visitatori, tenere in piedi una narrazione finta e garantire il flusso di denaro verso i soliti noti. Nessuna sorpresa, quindi, se questa deriva è stata non solo tollerata, ma cercata con ostinazione. Alle prime avvisaglie, si è scelto di potenziare il modello, non di correggerlo. E oggi l’effetto Disneyland ha raggiunto il suo apice grottesco.
Possiamo dirlo, senza più giri di parole? Venezia è morta. Firenze segue lo stesso destino, ridotta a fondale per selfie e percorsi guidati a senso unico tra Duomo e Ponte Vecchio. Pisa, fuori dalla manciata di minuti in cui i turisti si allineano per scattare la foto alla torre pendente, è vuota, scollegata, priva di qualsiasi funzione urbana reale. Barcellona resiste ancora, si agita, si dibatte — ma chi conosce il meccanismo sa già che finirà nello stesso modo.
E no, il problema non è Airbnb. Non sono le piattaforme. Non è Internet. Quelle sono solo tecnologie.
Il problema è che gestire una città viva è scomodo, faticoso, politicamente rischioso. Richiede visione, competenza, capacità di affrontare il conflitto e governare la complessità.
Al contrario, gestire un parco a tema turistico è infinitamente più facile: si tratta solo di massimizzare flussi, monetizzare spazi, affittare la storia pezzo dopo pezzo. Nessuno protesta davvero, nessuno vota davvero. È tutto più semplice, più redditizio, più immediato.
Questa non è la conseguenza dell’overtourism: è il progetto. Le classi dirigenti locali — e spesso anche quelle nazionali — hanno scelto di trasformare intere città in set cinematografici senza attori. In luoghi dove si cammina tra le quinte, ma dove la vita vera è stata sfrattata da tempo.
Il risultato lo vediamo ogni giorno, in molte citta' italiane: una bellezza svuotata di senso, museificata, monetizzata. Un patrimonio ridotto a merce. E dietro le quinte, solo silenzio e cartapesta.
Non c’è più alcuna magia nelle vecchie pietre, nessuna bellezza autentica nei silenzi notturni. Rimane il simulacro, il cartone dipinto, la cartolina a grandezza naturale.
La copia cinese di Venezia — costruita a Hangzhou, nel distretto di Dalian, e chiamata “Venice Water Town” — può far sorridere, ma è in condizioni migliori: almeno lì gli edifici non cadono a pezzi, e l’intonaco regge. Quanto a Las Vegas, almeno sotto il finto Ponte di Rialto, la sera c’è ancora un po’ di vita.
Mi irrita profondamente assistere allo spettacolo ipocrita di chi oggi si lamenta dello stato pietoso delle città d’arte europee. Gli stessi avidi bottegai che hanno trasformato i centri storici in mense per turisti anglosassoni che a malapena distinguerebbero una ribollita da un pastone per maiali. Gli stessi affittacamere improvvisati che hanno fatto fortuna riempiendo ogni parapetto con lucchetti inutili e vendendo souvenir cinesi a prezzo d’oro. Gli stessi “giovani imprenditori” che si sono reinventati padroncini del nulla, gestendo dieci appartamenti su Airbnb come se fosse il nuovo Rinascimento, salvo poi lamentarsi oggi del degrado.
Ora camminano tra le pozzanghere di birra, tra i resti di kebab e i rigurgiti del sabato sera, nauseati dallo stesso “bevitoio perpetuo” che loro stessi hanno costruito.
E allora basta lamenti. Se cercate un colpevole, non serve fare grandi indagini. Guardatevi allo specchio. Siete voi ad aver svenduto pezzo dopo pezzo le vostre città. Siete voi che avete barattato l’anima dei luoghi con l’incasso giornaliero. Siete voi che, con l’alibi del “valorizzare il territorio”, l’avete saccheggiato.
Non avete diritto di lamentarvi del mondo che avete scelto. Lo avete voluto. Lo avete costruito. Ora godetevelo.
E se cercate un colpevole, non avete che da guardarvi allo specchio.
Uriel Fanelli
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