Orali, maturita' ed esami.

Vedo che alcuni studenti continuano a rifiutare l'orale, e siccome ho parlato abbastanza della scuola italiana come una burocrazia ottusa, piu' che di un luogo di apprendimento, sto cercando di capire che senso abbia in senso razionale. Sono andato a prendere la mentalita' della teoria dei giochi, e ho capito una cosa. Rifiutare l'orale minimizza il rischio.

Per comprenderla, ho deciso di adottare la prospettiva della teoria dei giochi. E ciò che ne è emerso è tanto semplice quanto rivelatore: rifiutare l’orale significa minimizzare il rischio.

Esaminiamo allora nel dettaglio il meccanismo dell’esame, così come concepito dal Ministro dell’Incompetenza Generalizzata — figura simbolica, ma sempre più verosimile nel panorama istituzionale attuale.

L’intero esame assegna un massimo di 100 punti, cui può eventualmente aggiungersi una lode. Ma di quest’ultima parleremo più avanti.

I primi 40 punti sono attribuiti dal Consiglio di Classe al termine del percorso scolastico, prima ancora che inizino le prove d’esame. In altre parole, lo studente si presenta all’esame già con un capitale iniziale: un massimo di 40 punti su 100.

I restanti 60 punti sono suddivisi tra le tre prove d’esame, ciascuna delle quali può valere fino a 20 punti:

Ora immaginiamo di trovarci nei panni di uno studente in un preciso istante, che chiameremo t₀: il momento che precede il colloquio orale.

Facciamo un’analisi del rischio.

Supponiamo che questo studente sia brillante: è arrivato all’esame con i 40 punti pieni del triennio. Questo punteggio è già noto, già attribuito, e pertanto privo di alea. Rischio zero.

Ha poi sostenuto le due prove scritte — italiano e materia d’indirizzo — e ne conosce già gli esiti: diciamo che ha ottenuto 20 punti in ciascuna. Anche qui, il rischio è nullo: il verdetto è già emesso.

Sommando:

Totale: 80 punti su 100, già acquisiti.

E adesso? Ora tocca a lui decidere se affrontare o meno il colloquio orale.
E la domanda implicita è: conviene davvero esporsi a un rischio ulteriore per ottenere qualcosa che, numericamente, è già sufficiente?


Che cos'e' il tema orale?

Secondo il ministero,

L’orale dell’esame di maturità, oggi, è una prova unica ma articolata in più fasi, progettata per valutare le competenze dello studente in modo trasversale e ragionato. Non si tratta di una semplice interrogazione materia per materia, ma di un colloquio che parte da uno spunto fornito dalla commissione per poi toccare più ambiti del percorso scolastico.

All’inizio del colloquio, lo studente riceve un materiale predisposto dalla commissione: può essere un testo, un grafico, un documento, un’immagine o qualsiasi altro stimolo ritenuto utile ad avviare la discussione. Questo materiale è collegato a una o più discipline e ha lo scopo di attivare una riflessione personale, critica e interdisciplinare. Lo studente, partendo da quel materiale, deve mostrare capacità di analisi, collegamento tra argomenti, chiarezza espositiva e rielaborazione autonoma.

Dopo questa prima fase, il colloquio si sviluppa come un percorso attraverso le discipline, seguendo i collegamenti costruiti dallo studente stesso. Non ci sono domande a raffica su tutte le materie, ma un dialogo che mette in relazione i saperi del triennio, con l’obiettivo di valutare il pensiero critico e la maturità complessiva.

Un’altra parte importante dell’orale riguarda l’educazione civica. La commissione valuta se lo studente ha acquisito competenze in materia di cittadinanza attiva, Costituzione, sostenibilità, diritti, ambiente, tecnologia, secondo quanto previsto nel curricolo. Non è detto che ci sia una domanda esplicita, ma l’argomento può emergere in forma integrata durante la discussione.

Se lo studente ha svolto esperienze di PCTO, cioè percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (l’ex alternanza scuola-lavoro), è previsto anche un breve momento dedicato alla loro esposizione. Può trattarsi di una riflessione personale, di un racconto strutturato o della presentazione di un elaborato, purché emerga la consapevolezza del valore formativo dell’esperienza.

L’intero colloquio ha una durata variabile, generalmente compresa tra i 40 e i 60 minuti. È condotto da una commissione mista, con commissari interni ed esterni, più un presidente esterno. Il punteggio massimo attribuibile è di 20 punti. Ogni commissario valuta in base a criteri comuni, che comprendono conoscenza dei contenuti, capacità di collegamento interdisciplinare, padronanza del linguaggio, esposizione efficace, spirito critico e riflessione personale.

L’orale, dunque, non è un semplice test mnemonico, ma un momento di sintesi e valutazione complessiva del percorso scolastico dello studente.


Proviamo allora a costruire una sorta di tabella del “rischio” — intendendo con questo termine non una semplice incertezza aritmetica, ma quel tipo di situazione così sgradevole, imbarazzante e umiliante da trasformare l’esperienza in un ricordo di ingiustizia che ti accompagna per tutta la vita. D’altra parte, voglio sperare che il colloquio orale non possa influire retroattivamente sulle prove scritte. Perché, se così fosse, solo un incosciente lo affronterebbe volontariamente.

Ricapitoliamo:

Se sei uno studente preparato, hai già in tasca 80 punti su 100.

A questo punto ti resta l’orale: un segmento dell’esame che consiste nel ricevere un foglio con un contenuto qualsiasi, dagli esiti imprevedibili, con qualche minuto per leggerlo prima di essere interrogato. Le domande spaziano spesso in ambiti ambigui, dove la soggettività dell’esaminatore può avere più peso della competenza oggettiva dello studente.

Prendiamo ad esempio l’Educazione civica. Qualsiasi cosa tu dica sulla Costituzione italiana può finire su un campo minato. Se menzioni che essa è esplicitamente antifascista e ti capita davanti un commissario esterno nostalgico, sei fottuto: può partire una polemica ideologica da cui non ti salvi più. Sostenibilità, diritti, ambiente, tecnologia — ma siamo seri? Sono tutti terreni scivolosi, infestati da conflitti politici mascherati da argomenti scolastici. La materia si intreccia con le opinioni personali, e le opinioni personali si intrecciano con le idiosincrasie degli esaminatori. Uno scenario perfetto per un disastro arbitrario.

Ora, provo a immaginare me stesso ai tempi del mio esame di maturità, nel lontano 1989. Frequentavo un liceo scientifico. Molto italiano, moltissima matematica — del resto erano le due prove scritte. E la matematica, in quel contesto, era una cosa seria. Con un buon insegnante, ci passavi tranquillamente Analisi I.

Per fortuna, in matematica non avevo problemi. L’insegnante era tosta, ma mi stimava, e lì c’è poco spazio per dispute ideologiche: o dimostri il teorema, o non lo dimostri. Fine.

Poi tocca a Italiano. Mi capita il tema sui Sepolcri di Foscolo. Non male, li avevo studiati, e confesso che non mi dispiacevano. Ma l’esaminatore aveva un conto aperto con gli illuministi. Non ne conosco le cause. Forse un trauma adolescenziale, o forse le bollette della luce troppo alte. Fatto sta che li detestava visceralmente.

Mi chiede perché, nel contesto dei Sepolcri, fosse vietata la sepoltura dei defunti all’interno delle chiese. Rispondo che si trattava di norme igieniche introdotte dal governo filonapoleonico — norme, tra l’altro, tuttora in vigore. Mi chiede ancora: perché? Penso voglia una risposta storica, così tiro fuori l’editto di Saint-Cloud, applicato in Italia dal 1806 nei regni satellite napoleonici, che vietava di seppellire i morti sotto il pavimento delle chiese e imponeva la costruzione dei cimiteri fuori dalle mura. Non basta. Mi ripete: perché?

Allora provo con un’angolazione filosofica: si tratta, dico, di una norma di ispirazione illuminista, come molte altre importate in Italia dai francesi. Ma questo lo fa infuriare. «Perché dici “di ispirazione”?», chiede con aria inquisitoria. E io tento di chiarire: perché l’Impero Napoleonico, per quanto influenzato dagli ideali illuministi, non incarnava certo la repubblica egalitaria sognata da Voltaire o Rousseau. Non posso dire che il Regno d’Italia napoleonico fosse un sistema illuminista: al massimo ne rifletteva alcuni principi. Era, appunto, un’Impero, non una repubblica dei liberi e uguali.

Ma lui insiste. Vuole sapere perché la forma di governo dovrebbe contare nella definizione di una legge come illuminista o no. E io, pazientemente, spiego: l’illuminismo non è solo un’ideologia astratta, è anche una proposta politica. Il modello ideale è la Repubblica, fondata su libertà, uguaglianza, fraternità — liberté, carcade, frappe, e tutto il resto. Per cui sì, quella legge è di ispirazione illuminista, ma non nasce da un governo pienamente illuminista. Mi pare di essere stato chiaro.

Eppure, finisce così. Una discussione cavillosa, inutile, frustrante. E quel confronto mi costa quattro punti, da 60 a 56. Perché? Perché quel simpatico individuo, insegnante di italiano, era anche laureato in teologia ad Avignone (già questo dovrebbe dire tutto) ed era, senza mezzi termini, un supercattolico visceralmente ostile agli illuministi. E anche ai francesi.

Quindi non ha voluto che io avessi 60, come volevano i miei professori, in quanto non avevo percepito abbastanza il profondo illuminismo dell' Imperatore Bonaparte. Che, essendo francese, non poteva non dirsi illuminista. Un ragionamento alla Pascal, ma con la baguette. Immagino che per lui fossero illuministi anche durante il regime di Vichy. O roba del genere. In fondo erano pur sempre francesi, no? Philippe Pétain, noto illuminista. Ah! La Tauromachia!

Ecco a cosa può portare l’orale, quando si entra nel territorio minato delle opinioni. Ecco perché oggi, a chi lo rifiuta, io non me la sento proprio di dare torto.


Immaginate, ora, che io — con tutto il bagaglio di bias, esperienze e traumi accademici che vi ho appena raccontato — mi trovassi a vivere oggi in Italia. E immaginate che mia figlia, la quale qui in Germania ha sempre ottenuto risultati eccellenti, tanto da poter realisticamente ipotizzare un 80 su 100 garantito, mi chiedesse consiglio su una questione cruciale: affrontare o meno un esame in cui dovrebbe discutere di cittadinanza attiva, Costituzione, sostenibilità, diritti, ambiente e tecnologia, seduta davanti a una commissione composta da estranei… e da qualche professore conosciuto.

Potrei forse dirle che i docenti interni siano un’ancora di salvezza? Non proprio. Se devo essere sincero fino in fondo — e lo devo — uno dei miei professori di filosofia era, nel tempo libero, consigliere comunale di Democrazia Proletaria, mentre un supplente di religione che ebbi in terza sosteneva con aria illuminata che i miracoli avvengono ogni giorno, e ne portava come prova il fatto che le galline fanno l’uovo anche senza il gallo. Poco dopo fu trasferito, in via definitiva e con discrezione, in qualche istituto sperduto del meridione. Ma potete immaginare il tipo. (E comunque, anche qui in Germania, in un liceo Montessori-Dalton, uno dei professori di matematica – dalla formazione completamente umanistica – ebbe la brillante idea di sostenere che i numeri razionali hanno senso solo se al denominatore c’è un numero primo. Per fortuna, se ne andò quasi subito: non ero certo l’unico a lamentarmi.)

Ora ditemi: in che modo dovrebbe sentirsi tranquillo uno studente che entra in una discussione sui diritti, o sulla Costituzione, quando sa che nella commissione possono sedere individui di questo calibro — e magari entrambi, lo stesso giorno?

È evidente che, in simili condizioni, solo un ingenuo accetterebbe di sottoporsi a un colloquio orale così concepito. In astratto, non ci sarebbe nulla di sbagliato: se vivessimo in un mondo ideale, dove ogni docente fosse intellettualmente onesto, umanamente equilibrato e professionalmente preparato. Ma nel mondo reale, dove il docente medio delle superiori è un coglione — con qualche raro bagliore di umanità sparso qua e là — e in una società profondamente polarizzata, il rischio che ti capiti davanti un antivaccinista, un reazionario, un fanatico religioso o un fascista in giacca e cravatta è tutt’altro che remoto. E in quel contesto, solo un ingenuo sceglierebbe di esporsi volontariamente al fuoco incrociato dell’orale.

Siamo, in fondo, nello stesso tipo di dinamica che si verificava nei regimi comunisti: tutti volevano iscriversi a ingegneria, fisica, matematica, informatica — materie tecniche, politicamente neutre. Nessuno, o quasi, osava frequentare facoltà umanistiche, dove la discrezionalità del giudizio era inevitabilmente filtrata dalle ideologie. E qui sta il nodo: nelle materie umanistiche entrano in gioco le opinioni, e nessuno è tanto stolto da volersi sottoporre a un giudizio che rischia di trasformarsi in un processo, quando non in un’umiliazione duratura.

So che, a partire dal prossimo anno, il colloquio non sarà più facoltativo. Posso già immaginare la scena: schiere di studenti che si presentano con testi prudenti, infarciti di frasi vaghe e neutralizzate, senza mai prendere posizione, cercando l’equilibrio impossibile tra correttezza politica e disinnesco ideologico. Nessun accenno troppo esplicito all’antifascismo, nessuna parola forte, nessun tema che possa disturbare la sensibilità isterica e polarizzata della commissione. Solo così, forse, riusciranno a sopravvivere indenni alla stupidità aggressiva che oggi veste i panni del valutatore scolastico.

Una scuola per paraculi.


E prima di chiudere, volevo solo aggiungere una cosa.

avignone

Uriel Fanelli


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