Oh, l'occidente.
Ogni volta che mi mostro indifferente, o addirittura soddisfatto, per il crescente divorzio tra Stati Uniti e Unione Europea, c'è sempre qualcuno che prontamente interviene per ricordarmi che, sì, va bene tutto, ma in fondo l'Occidente è stata la cosa più straordinaria, più strafiga che il mondo abbia mai conosciuto nella sua storia millenaria.
Potrei certamente obiettare che questo "secolo americano", questo secolo così "fico" di cui andiamo così orgogliosi, in Cina viene invece ricordato con un nome ben diverso: "il secolo dell'umiliazione"(百年国耻). E che nemmeno gli altri paesi del globo, se facciamo una media onesta, si siano divertiti granché durante questa presunta età dell'oro. I ristoranti erano pieni, è vero. Certo che lo erano. Ma dove? In Occidente, naturalmente. Altrove, nelle altre latitudini del pianeta, la situazione era un pochino – diciamo così – meno festosa.
A questa mia obiezione, inevitabilmente, si risponderà che sì, d'accordo, se togliamo circa 7,5 miliardi di persone dal totale degli 8 miliardi che popolano la Terra, questi ultimi decenni sono stati effettivamente – per noi occidentali – i più fantastici, i più prosperi della storia dell'umanità. Il ragionamento fila, non c'è dubbio. C'è però un piccolo problema in tutto questo. Anzi, un problema piuttosto significativo. E questo problema ha un nome preciso: si chiama dissonanza cognitiva, manifestatasi qui in una forma collettiva davvero spettacolare.
Un esempio di dissonanza cognitiva potrebbe essere quello di chi dice: “l’ho uccisa per amore”, perché l’intento dichiarato, cioè l’amore, è in assoluto contrasto con l’azione compiuta, cioè l’omicidio. Chi è affetto da questo tipo di problema ricorre spesso alla retorica, con lo scopo di costruire ragionamenti palesemente falsi secondo cui si arriva a uccidere qualcuno “per il suo bene”. Allo stesso modo, se proviamo a esaminare con un minimo di onestà gli intenti proclamati dall’Occidente e le azioni realmente messe in atto, finiamo per cadere piuttosto male.
Quando diciamo che l’Inghilterra è la culla della democrazia, ci stiamo riferendo a un paese che ha colonizzato e sfruttato, direttamente o indirettamente, circa metà del pianeta. E allora, come mettiamo insieme “democrazia” e “colonialismo”, di preciso? Più o meno nello stesso modo in cui pretendiamo di mettere insieme “amore” e “omicidio”: con un numero imbarazzante di acrobazie logiche.
Quando diciamo che l’Inghilterra è la culla dei diritti umani, ci riferiamo alla stessa nazione che ha represso il desiderio di indipendenza irlandese con metodi, diciamo così, non esattamente esemplari. Allo stesso modo, quando celebriamo la Francia come grande baluardo dei valori repubblicani e universali, parliamo della stessa Francia che mantiene ancora oggi territori d’oltremare in Africa e altrove, eredità diretta di una stagione coloniale mai davvero digerita.
La realtà è che moltissime delle affermazioni su libertà, diritti umani e democrazia che amiamo attribuire all’Occidente hanno senso solo se osservate dall’interno del recinto, cioè dal punto di vista di chi beneficia del sistema. Viste da fuori, da chi quel sistema lo subisce o lo ha subito, la prospettiva cambia drasticamente, e la narrazione trionfante perde molta della sua presunta nobiltà.
Ma il problema, qui, non è nemmeno quello di giudicare l’Occidente. Per poter giudicare l’Occidente, infatti, bisognerebbe prima che l’Occidente esistesse come qualcosa di minimamente definito e coerente. E da questo punto di vista, cadiamo piuttosto male.
Se proviamo a chiederci quali sarebbero i famosi “valori fondativi” dell’Occidente, scopriamo subito che parole come democrazia, diritti umani, diritti delle donne, libertà individuali, prendono significati molto diversi a seconda del paese che osserviamo. Se la Svezia è un paese occidentale, lo è anche la Grecia? E la Polonia? Se consideriamo occidentale l’Italia, lo è allo stesso modo l’Olanda, con il suo modello sociale e culturale così differente? E, soprattutto: se l’Europa è “Occidente”, lo sono anche gli Stati Uniti? E se gli Stati Uniti sono il cuore dell’Occidente, allora lo è davvero anche l’Europa, con tutte le sue contraddizioni storiche e politiche?
Non esiste, in pratica, nessuna di queste partizioni dell’Occidente che condivida realmente con le altre proprio quei valori su cui dice di fondarsi e che proclama come identitari. Nella realtà dei fatti, per decenni con “Occidente” non si è inteso un insieme di popoli accomunati da una base etica o culturale, ma la semplice area coloniale, politica ed economica, dell’impero americano e della sua sfera d’influenza.
Parlare di “Occidente”, in questo senso, è quantomeno ambiguo; in molti casi è semplicemente ridicolo, se non addirittura fuorviante.
A questo punto entra in scena il riduzionismo economico, con il suo mantra rassicurante: “Sì, vabbè, però i ristoranti erano pieni”. Non siamo mai stati così bene, eccetera eccetera. È la base fondante di qualsiasi propaganda, da quando la propaganda esiste: il vecchio slogan implicito “Grazie al Re, anche oggi si mangia” è una costante di ogni narrazione nazionalista o imperiale, solo aggiornato ai tempi moderni.
Ma non è questo il punto: il punto è che non è vero in senso generale, è vero solo dentro un recinto molto selezionato. Io potrei prendere una trentina di persone, portarle in un ristorante con un gozziglione di stelle e ordinare un banchetto fino a farle scoppiare. Per tutta la sera i camerieri continuerebbero a portare piatti, calici, dolci, ammazzacaffè, e tutti esclamerebbero felici: “Con Fanelli si mangia benissimo! Evviva Fanelli!”. Finché Fanelli, a un certo punto, svanisce.
Il guaio di questa logica è esattamente quello che accade dopo: Fanelli scompare, e subito dopo arriva il conto. È in quel momento che entra in gioco la dissonanza cognitiva massima, quella strutturale.
Perché se si dovesse individuare un valore davvero dominante dell’Occidente, non sarebbe la democrazia, né la libertà, né i diritti umani, ma proprio la dissonanza cognitiva: l’incapacità sistematica di percepire il legame tra cause e conseguenze, cioè tra il pasto sontuoso e il conto del ristorante che inevitabilmente segue.
Così come il conto da pagare è la conseguenza inevitabile del banchetto consumato, viene naturale chiedersi se i problemi geopolitici ed ecologici che stiamo affrontando non siano la rata finale del nostro secolo d’oro occidentale. Abbiamo vissuto come se le risorse fossero infinite e come se le conseguenze delle guerre, dei colonialismi, dell’inquinamento e delle disuguaglianze potessero essere spazzate sotto il tappeto, ma ora l’effetto ritorno è evidente nelle crisi internazionali e climatiche.
L’UE e la pace “per regolamento”
Prendiamo l’Unione Europea. La narrazione ufficiale dice che nasce per liberare l’Europa dalle guerre e garantire una pace duratura sul continente. Ma viene da chiedersi: come, di preciso? Una banca centrale, un regolamento o una direttiva possono davvero impedire a Francia e Germania di farsi la guerra, o scongiurare qualsiasi altro conflitto in Europa? Se non si sa indicare un meccanismo materiale concreto – istituzioni politiche forti, controllo democratico, capacità di gestione delle crisi – allora si vive di un credito simbolico: 80 anni di pace dati quasi per scontati, senza che i cittadini abbiano dovuto fare nulla di realmente tangibile per mantenerla.
Il debito verso la realtà
In questo senso, si può dire che abbiamo accumulato un enorme debito verso la realtà: pace goduta come un diritto naturale, non come qualcosa che richiede impegno, responsabilità, scelte difficili. Questo debito, prima o poi, andrà pagato: o iniziamo a fare concretamente qualcosa per “meritare” la pace – costruendo istituzioni politiche serie, rinunciando a certe illusioni, assumendoci costi reali – oppure la pace finisce, e ci arriva il conto sotto forma di conflitti, instabilità e regressione democratica.
Il mito della protezione americana
Per gli Stati Uniti questo debito verso la realtà è ancora più pesante: la retorica vuole che abbiano “difeso il mondo libero” dall’Unione Sovietica e dal comunismo grazie alla loro potenza militare. Ma nelle uniche guerre dirette tra USA e forze comuniste – Corea e Vietnam – il risultato reale sul campo è stato almeno ambiguo, se non apertamente fallimentare per Washington, con enormi costi umani e politici. Quando si chiede in che modo concreto “ci avrebbero protetti”, la risposta scivola facilmente nella retorica, mentre i veri benefici materiali sembrano essersi concentrati soprattutto nello sviluppo di un apparato militare-industriale gigantesco, estremamente profittevole per l’economia statunitense.
La dissonanza cognitiva come valore dominante
Da qui la tua conclusione: se si dovesse individuare un valore dominante dell’Occidente, non sarebbe tanto la democrazia o la libertà, quanto la dissonanza cognitiva. Cioè l’incapacità – o il rifiuto – di percepire il nesso tra cause e conseguenze: tra il pasto sontuoso e il conto del ristorante, tra il secolo d’oro di consumi, dominio e sfruttamento e la crisi sistemica che ora bussa alla porta.
Tra gli italiani, l’idea di aver vissuto “a debito” non è quasi mai percepita come esperienza esistenziale, ma solo – quando va bene – come un numero ripetuto al telegiornale. Questa rimozione collettiva rende impossibile collegare il benessere eccezionale del “secolo americano” alla necessità, prima o poi, di pagare un conto che non è solo finanziario, ma anche sociale, politico e generazionale.
In questo quadro, l’Italia è seduta da anni al “ristorante”, convinta che il banchetto sia una sorta di diritto acquisito in quanto "occidente", o che "paga l'occidente", e non una condizione storica contingente, ottenuta spesso ricorrendo a debito. Ripetere ossessivamente l’entità del debito pubblico non basta minimamente a far capire che non si tratta solo di una cifra astratta, ma dell’indicatore di un conto che si sta accumulando e che, in una forma o nell’altra, verrà presentato.
Se qualcuno mi chiede per quale ragione questa narrazione sembri aver funzionato – almeno per alcuni, per un certo tempo – la mia risposta è semplice: tutti i miti "funzionano". Sempre. Fino a quando non smettono di farlo.
La struttura di un mito è quella di giustificarsi da sé, attraverso il meccanismo del "lo dicono tutti", che in realtà equivale a "lo dicono tutte le persone che conosco", che a sua volta significa semplicemente "lo dicono una ventina di persone". Ma se andiamo davvero a esaminare in cosa consiste il mito nella realtà concreta, scopriamo quasi sempre che dietro i rituali, la liturgia e le parole solenni non c'è assolutamente niente di tangibile.
Certo, in nome di un grande mito si possono costruire grandi cose. Il mondo è pieno di basiliche erette nel nome di qualche religione che oggi ci appare ridicola. Ma il mito esiste eccome, nel senso che è sufficiente a spingere le persone a comportarsi come se esistesse davvero, come se fosse reale.
Il Mito-Europa, quello che sostiene che con l'Unione Europea non ci saranno più guerre sul continente, è bastato per decenni a togliere a tutti l'idea di fare guerra a un'altra nazione europea. Ma se andiamo ad aprire la scatola, se esaminiamo i trattati e i meccanismi istituzionali, non troviamo istituzioni realmente capaci di fermare una guerra tra stati membri. Ditemi voi: nei trattati europei, cosa farebbe concretamente l'Unione Europea se domani l'Italia decidesse di invadere, che so io, Malta? Esistono clausole di difesa reciproca in caso di attacco esterno, certo, ma sono intergovernative e subordinate alla NATO; non esistono meccanismi vincolanti per impedire un conflitto tra stati membri.
Allo stesso modo, il mito dell'Occidente nel quale tutti vivono bene ha convinto governi e privati a contrarre debiti assurdi per far cadere dal cielo la manna promessa dal benessere perpetuo. E così possiamo andare tutti insieme da Bottura e ordinare un banchetto di tre giorni, a patto di fidarci ciecamente di un mito che alla fine arriva e paga il conto per noi.
Ma se non arriva, poi sono cavoli amari.
Perché il conto, in ogni caso, va pagato.