Odifreddi e i politici MAGA

Era da tempo che non si sentiva nominare Piergiorgio Odifreddi, e il suo “caso” è riemerso, con tutta evidenza, solo per alimentare l’ennesimo progetto cagnara: un diversivo confezionato ad arte per riempire le pagine dei giornali senza affrontare ciò che davvero andrebbe detto. Una distrazione collettiva, l’ennesima.
Quello che infatti sarebbe importante sottolineare — ma che la stampa italiana evita con cura — è l’assurdità di attribuire l’omicidio di Charlie Kirk a una matrice di sinistra. Non ci sono indizi, né segnali, né tracce riconducibili a quell’ambiente. Al contrario: sui social dell’attentatore abbonda un’estetica tipicamente di destra, dalle immagini ossessive con armi di grosso calibro fino a un evidente feticismo paramilitare, con cui amava ritrarsi come in una parodia involontaria di Rambo suburbano.
Ancora più significativo è il fatto che emergono elementi piuttosto chiari di appartenenza a un altro gruppo dell’estrema destra americana, la stessa che da tempo rimprovera Kirk di non essere sufficientemente “puro”, non abbastanza ortodosso nella sua militanza ideologica. In questo quadro, l’assassinio non appare come un gesto politico trasversale, ma piuttosto come un regolamento di conti interno: una faida tra cosche MAGA, una purga intestina mascherata da tragedia nazionale.
E' ormai abbastanza chiaro che l'omicidio di Charlie Kirk andrebbe derubricato "regolamento di conti interno tra cosche MAGA".
Ma questo la stampa italiana — soprattutto quella di destra — non può permettersi di dirlo, perché significherebbe togliere carburante alla Meloni che strilla contro “la sinistra” incapace, a suo dire, di condannare abbastanza l’assassino. Assassino che, dettaglio fastidioso, di sinistra non era affatto.
E torniamo così a Odifreddi. L’ex professore ha dichiarato che, in fin dei conti, uccidere Charlie Kirk e uccidere Martin Luther King non è la stessa cosa. A ben vedere, è un’osservazione tutt’altro che insensata: se la violenza si abbatte su chi predica la nonviolenza, essa si trasforma in martirio; se invece colpisce un individuo che ha costruito la propria fortuna seminando odio, lucrando sul rancore e allo stesso tempo predicando il possesso e l’uso delle armi da fuoco — con l’aggiunta cinica del “e se qualcuno muore, è valsa comunque la pena” — la faccenda assume un colore ben diverso.
In fondo, bastano le stesse parole di Charlie Kirk: “se qualcuno muore, ne vale comunque la pena”. Non è detto che Odifreddi pensasse a questo quando ha parlato, ma è indubbio che potrebbe rispondere alle accuse della Meloni semplicemente citando Kirk contro se stesso.
Sto forse giustificando l’uccisione di Charlie Kirk? No, per nulla. Così come non “giustifico” il fatto che, se ti lanci dal settimo piano, muori. La forza di gravità non ha bisogno di giustificazioni, e allo stesso modo la realtà non ha bisogno di moralisti che la assolvano o la condannino. In un paese che conta 390 milioni di armi da fuoco, se passi la vita ad eccitare le folle, a invocare la violenza come forma di patriottismo e a presentare le pistole come un diritto sacro, la probabilità di morire per una pallottola diventa una legge di natura. Una conseguenza inevitabile, identica alla caduta nel vuoto.
Tutto qui.
Il problema, a questo punto, è un altro: c’è pericolo per i politici italiani? Di Trump sappiamo già: un proiettile gli ha letteralmente scheggiato l’orecchio. Troppo vicino per essere un avvertimento organizzato, troppo rischioso per sembrare un semplice messaggio: voleva davvero ucciderlo.
In Italia molti minimizzano: “qui non ci sono così tante armi”, dicono. Ma avrei qualcosa da ridire, e sollevo due obiezioni.
- Primo: in Svizzera è normale tenere in casa l’arma con cui si è fatto il servizio militare, e il Paese produce fucili di altissima qualità, affidabili e precisi. Eppure, nonostante questa diffusione capillare, le sparatorie di massa sono rarissime, quasi inesistenti.
- Secondo: in Italia le armi da fuoco non mancano affatto. Si calcola che circolino ALMENO quattro milioni di armi legali(1), senza contare quelle detenute illegalmente. Certo, ciò che manca sono soprattutto le armi da guerra sul modello AR-15, che negli Stati Uniti si acquistano con relativa facilità. Ma non è che da noi sia impossibile trovare strumenti letali: un Beretta SC70/90, ad esempio — la versione civile del fucile d’assalto SC70, prodotto in Italia e in dotazione anche alle forze armate — può essere reperito in versione semiautomatica. Non sarà “full auto”, ma resta un’arma precisa e mortale, capace di rendere inutile la distinzione tra strage “americana” e strage “italiana”.
Prima che si cominci a disquisire di weapon fetish, scoprendo con stupore che un Sites Spectre M4 circola regolarmente in Italia — arma con cui, in un luogo affollato, si potrebbero compiere stragi che un AR-15 può solo immaginare, grazie all’enorme cadenza di tiro e al caricatore da quaranta colpi, un’arma peraltro non in vendita negli Stati Uniti — vorrei tornare all’esempio svizzero.
In Svizzera, infatti, le armi automatiche restano a casa dei cittadini dopo il servizio militare, custodite negli armadi come parte integrante della cultura nazionale. Eppure, nonostante questa diffusione capillare, non assistiamo a sparatorie quotidiane nei centri commerciali o nei campus. Non c’è la paranoia costante del “potrebbe sparare chiunque”. Perché?
La vera domanda, allora, è questa: se la discriminante non è la quantità di armi nelle mani dei privati, che cosa rende gli Stati Uniti un paese in cui si cammina letteralmente tra proiettili che fischiano?
La risposta è semplice, anche se scomoda: non conta tanto la quantità di armi in circolazione, quanto la quantità di violenza che attraversa una società. Non è il numero dei fucili a determinare la carneficina, ma il livello di aggressività culturale, politica e sociale che rende inevitabile che quelle armi, prima o poi, vengano usate.
Sul piano culturale, politico e sociale, la società svizzera è infinitamente meno violenta di quella americana. Non è solo una questione di statistiche sui crimini: è il tessuto stesso della convivenza civile a essere diverso. La Svizzera vive di compromesso, di lentezza burocratica, di referendum continui, di un federalismo che smorza i conflitti e li traduce in procedure. Gli Stati Uniti, invece, vivono immersi in una retorica bellicosa, in un culto della competizione spinta fino all’aggressività, in un mito fondativo che lega la libertà individuale al possesso di un’arma.
Risultato: due paesi con tante armi nelle case, ma con esiti radicalmente opposti. In Svizzera l’arma è parte di una tradizione che si esaurisce nell’armadio; in America è un prolungamento del proprio ego, un simbolo di identità politica, uno strumento di affermazione sociale.
Ed è proprio qui che si apre il vero nodo: l’ecosistema della violenza. Gli Stati Uniti non sono soltanto un paese con troppe armi; sono un paese che ha trasformato la violenza in linguaggio comune, in collante sociale, in merce di consumo.
C’è la violenza culturale, quella che scorre sotto pelle fin dai miti fondativi: la conquista del West, il genocidio dei nativi, la schiavitù e la guerra civile. Ogni epoca americana è stata costruita su un conflitto armato, e questo ha lasciato un’impronta genetica nella memoria collettiva.
C’è la violenza politica, che si esprime nella polarizzazione estrema, dove l’avversario non è mai un rivale da battere ma un nemico da annientare. Le campagne elettorali sono guerre culturali a colpi di spot minacciosi, fake news e demonizzazione sistematica. Non sorprende che, in un clima del genere, la pistola passi dal comizio televisivo alla mano di un militante.
E poi c’è la violenza sociale: il razzismo strutturale mai superato, le disuguaglianze economiche abissali, l’ossessione per il successo individuale che trasforma ogni fallimento in un’umiliazione intollerabile. In un contesto così tossico, l’arma da fuoco diventa non solo un oggetto, ma la scorciatoia psicologica per ristabilire un senso di potere.

Il tutto alimentato da un’industria dell’intrattenimento che ha fatto della violenza un’estetica quotidiana: film, serie, videogiochi, persino le pubblicità respirano quell’aria. L’americano medio cresce imparando che la violenza non è solo legittima, ma anche spettacolare, quasi naturale.
Ecco la differenza: in Svizzera l’arma rimane nell’armadio, in America l’arma diventa linguaggio. È la grammatica di una società che ha interiorizzato il conflitto come regola di vita.
Voglio fare un esempio. Avete mai notato, in molti film, quelle inquadrature patinate che sembrano uscite direttamente da uno spot pubblicitario? Scene girate come se fossero spot per auto di lusso, orologi, o altri brand in bella mostra. Si tratta di quello che viene chiamato product placement — in Italia diremmo “pubblicità occulta” — ovvero la pubblicità incorporata nel film stesso. Nulla di scandaloso, lo sappiamo: fa parte del gioco.
C’è però un dettaglio che noi europei spesso non cogliamo, mentre per gli americani è immediatamente evidente. Avete mai fatto caso che lo stesso trattamento pubblicitario viene riservato anche alle armi? Inquadrature lente, dettagli luccicanti, il marchio ben visibile sul metallo. Non è casuale: i film americani sono letteralmente stracolmi di pubblicità occulta delle armi da fuoco, che da quelle parti si possono effettivamente acquistare al supermercato o nel negozio sotto casa.
Così come noi europei, guardando un film d’azione, esclamiamo “questa è chiaramente una pubblicità dell’Audi”, allo stesso modo loro commentano: “questa è chiaramente una pubblicità della Glock” o “questo è un spot per l’AR-15”. Perché la cultura cambia, e ciò che per noi è una parte della sceneggiatura per loro è merce da scaffale, disponibile in offerta. E, con un mercato del genere, è facile concludere che gli americani finiranno per comprare più Glock che Audi.
La differenza culturale si può riassumere proprio così: quando noi europei vediamo un’Audi scintillante inquadrata come in uno spot, ma dentro un film, riconosciamo immediatamente la pubblicità, persino a livello conscio. Sappiamo che è product placement, che quella scena è lì per vendere. Ma quando la stessa estetica viene applicata a una pistola, a un fucile, a un’arma da fuoco, non ci accorgiamo di nulla: ci sembra semplicemente “parte dell’azione”. Il messaggio pubblicitario ci scivola addosso.
Gli americani, invece, vedono entrambe le cose. Colgono sia l’Audi che la Glock, sia la bottiglia di whisky che l’AR-15. Perché per loro l’arma è un oggetto da acquistare come qualsiasi altro, un bene di consumo con mercato, brand e concorrenza. E questo fa tutta la differenza del mondo: in Europa l’arma rimane invisibile come pubblicità, negli Stati Uniti è percepita come ciò che è davvero — un prodotto da comprare.
E allora torniamo all'ecosistema della violenza. Come sta andando l'italia? Che tendenze ci sono?
Fenomeno | Trend / dati recenti | Note importanti |
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Baby gang / criminalità minorile | • Tra 2019 e 2021 i giovani presi in carico dagli USSM (uffici per i servizi sociali minorili) come appartenenti a baby gang sono aumentati del 73,8%: da 107 a 186 casi. (openpolis.it) • Il 46% delle questure e comandi dei Carabinieri che già segnalavano la presenza di gang giovanili afferma che il fenomeno è aumentato negli ultimi cinque anni. (openpolis.it) |
Non solo grandi città: fenomeno più forte nei centri urbani del Nord e Centro. |
Segnalazioni di criminalità minorile | • Tra 2010-2022, segnalazioni di reati commessi da minorenni aumentate del ≈32% nel Nord-Ovest. (ragazzidentro.it) • Nord-Est + Centro: trend in crescita, ma più contenuto rispetto al Nord-Ovest. |
Le “segnalazioni” non equivalgono a condanne, ma indicano un aumento del coinvolgimento. |
Zuffe, risse tra giovani | • Rapporto ESPAD Italia 2023: quasi il 40% degli studenti 15-19 anni ha partecipato a zuffe o risse nell’anno (2019: ≈ 33%). (cnr.it) • Più diffuso tra i ragazzi (≈ 46%) che tra le ragazze (≈ 34%). |
Non sempre con armi, ma la violenza fisica emerge come “normale” tra adolescenti. |
Maltrattamenti in famiglia / violenza verso minori | • III Indagine nazionale 2023: minorenni vittime di maltrattamento ~ 113.892 (30,4% dei minori in carico ai servizi sociali). Un aumento del 58% in 5 anni (2018: ~ 19,3%). (garanteinfanzia.org) • Forme principali: trascuratezza 37%, violenza assistita 34%, psicologica 12%, fisica 11%. |
Il problema nasce spesso “in casa”, non solo “in strada”. |
Percezione sociale del fenomeno | • Rapporto Eurispes 2025: il 52,5% degli intervistati ritiene che baby gang e teppismo siano aumentati nella propria zona. (quotidiano.net) • Solo 16,9% di indecisi, segno che il tema è percepito come minaccia concreta. |
La percezione influenza politica e media, anche se non sempre corrisponde ai dati reali. |
Interpretazioni: cosa dicono questi numeri?
- C’è un aumento chiaro e diffuso del disagio minorile: non solo “fatti isolati”, ma segnali strutturali (risse, bullismo, violenza assistita, gruppi di giovani violenti).
- Il fenomeno è maggiormente acuto nel Nord e nel Centro, anche se non è assente nel Sud. Le differenze regionali sono notevoli, ma non eliminano il trend nazionale.
- Molto del problema nasce dentro le famiglie: trascuratezza, violenza assistita, fragilità genitoriali. Non solo emerge “alla strada”, ma prima di tutto in casa.
- L’aumento della percezione pubblica – “me lo sento vicino” – è un fattore che amplifica il problema: rende più urgente la risposta politica, mediatica, sociale.
Allora, i politici italiani di oggi sono in pericolo quanto quelli americani?
Non ancora. Ma il punto è: per quanto tempo ancora? Appena questa nuova generazione di giovani — cresciuta tra risse, baby gang e violenza come linguaggio normale — sarà diventata adulta, la politica italiana dovrà dotarsi di scorte molto più robuste. Con i trend attuali, l’Italia non resterà immune: se oggi non siamo ancora al livello degli Stati Uniti, la traiettoria è chiara, e il rischio è che ci si arrivi in meno di un decennio.
Non è fantascienza. I dati raccontano già un aumento preoccupante: tra il 2019 e il 2021 i minori segnalati come membri di baby gang sono cresciuti del 73,8%; quasi il 40% degli adolescenti ha partecipato a risse o zuffe, in crescita rispetto al 2019; e le vittime minorenni di maltrattamento sono aumentate del 58% in soli cinque anni. È un ecosistema che respira violenza, e che inevitabilmente la trasmette al tessuto sociale e politico.
Per ora, l’Italia si illude di essere lontana dal modello americano, ma è solo questione di tempo: man mano che questa generazione salirà di età, con alle spalle un’infanzia segnata dall’aggressività normalizzata, anche i politici italiani dovranno smettere di credersi al sicuro. E la scorta, oggi considerata un privilegio, diventerà presto una semplice misura di sopravvivenza.
Non ancora, ma appena questa generazione sara' cresciuta, dovranno avere delle scorte migliori. Con questo trend, l'Italia raggiungera' gli USA tra soli 6,7 anni.
Fenomeno | Dato principale | Fonte |
---|---|---|
Baby gang | +73,8% tra 2019-2021 (da 107 a 186 minori segnalati) | Openpolis |
Risse tra giovani | Quasi 40% studenti 15-19 anni (2019: 33%) | CNR-ESPAD 2023 |
Maltrattamenti minori | +58% in 5 anni, ~114.000 vittime nel 2023 | Garante Infanzia |
Ed ecco che si comincia a capire di cosa abbiano davvero paura i politici italiani — soprattutto quelli che campano di piazze infiammate e di slogan gridati. La consapevolezza che, a breve, non basterà più un palco e un microfono per dominare la scena, perché la folla non sarà solo da eccitare, ma anche da temere.
Tra sei anni, il Grillo che arringava le masse con il suo Vaffanculo Day sembrerà quasi un ricordo innocente, una cartolina sbiadita di quando “si stava male ma almeno non così male”. All’epoca la rabbia era ancora parola, gesto teatrale, rito collettivo senza pistole in tasca.
Non sono affatto certo che i politici italiani più “infiammatori” abbiano coscienza del cambio di paradigma che li attende. Continuano a giocare con la benzina, convinti che il fuoco rimanga sul palco; non vedono che tra pochi anni il fuoco sarà sotto il palco, nelle mani di chi li ascolta.
E allora vedremo chi avrà ancora voglia di scherzare con gli slogan incendiari.
(1)
- Secondo Il Bo Live / Unipd, nel 2017 lo Small Arms Survey stimava 8,6 milioni di armi a uso civile in Italia.
- Altre stime più conservative (es. uno studio dell’Università La Sapienza) collocano il numero più basso, intorno a 4 milioni.
- C’è un dato recente (2024) riportato da “Armi e Tiro” che parla di 13.608.215 armi legali censite dal sistema SDI (Servizio per i sistemi informativi interforze).
- Sempre lo stesso articolo dice che i cittadini detentori legalmente di armi erano 4.659.082 nel 2023.