"Neurodivergenti" - o della malattia inventata.

"Neurodivergenti" - o della malattia inventata.

Oggi mi è successa una cosa che, a raccontarla, fa ridere. O forse fa piangere, dipende dall’umore. Dopo due settimane di malattia per una piccola chirurgia, rientro al lavoro. Baviera, orario standard: 7:30 si timbra, 7:30 ero già operativo, pronto a rimettere mano alle solite pratiche.

Bene: mentre scrivo queste righe sono le 11:34. Nel frattempo, da quando ho acceso il PC, sono stato interrotto 44 volte. Quarantaquattro. Non sto esagerando: ho tenuto il conto. Tra Teams, Slack, email “urgenti” (tutte, ovviamente, con il bollino rosso da “ti crolla il mondo se non rispondi entro tre secondi”), notifiche che esplodono, suoni che trillano, pop-up che lampeggiano, è stato un bombardamento a tappeto. Ogni singola volta il messaggio è lo stesso: “Smetti subito di fare quello che stai facendo, perché quello che ti sto dicendo io è infinitamente più importante del tuo lavoro attuale”.

Ora, capiamoci: quarantaquattro interruzioni in quattro ore. Cioè una media di più di dieci all’ora. Non riesci nemmeno ad arrivare in fondo a un paragrafo senza che qualcuno decida di piantarti un’altra bandierina nel cervello. E io che ingenuamente pensavo che la produttività avesse a che fare con il tempo ininterrotto dedicato a un compito.

Ne parlavo poco fa con una persona, e la sua risposta è stata:

—Sei sicuro di non essere nello spettro?—

Geniale. Quindi fatemi capire: se dopo 44 interruzioni comincio a innervosirmi, il problema non è che viviamo dentro un sistema organizzativo tossico, schizofrenico e disfunzionale. No, il problema è che io devo avere una tara mentale. Se mi infastidisco perché non posso lavorare, non è che il contesto sia insostenibile: è che io sono difettoso, praticamente un malato di mente.

Che dire: il capolavoro della colpevolizzazione. Non è mai la struttura, non è mai l’ambiente, non sono mai le condizioni. È sempre l’individuo che deve farsi diagnosticare qualcosa.


Oh, sia chiaro: la sua dialettica era piena di comprensione, di quelle che ti si appiccicano addosso come la melassa. —Lo so che non è colpa tua, eh, ci sono tanti nella tua condizione. Però dovresti farti visitare per evitare il burnout. Comunque, tranquillo, sei sicuramente altamente funzionale. Due pilloline e te la cavi—.

Capito? Non è che il problema sia essere interrotti quarantaquattro volte in una mattinata. No, quello sarebbe troppo banale da notare. La diagnosi è sempre la stessa: tu sei rotto. Tu hai qualcosa che non va. Il sistema è perfetto, il sistema è razionale, il sistema è necessario.

A nessuno, e dico a nessuno, passa per la testa che forse, dico forse, venire interrotti decine di volte in poche ore sia un tantino eccessivo. No, per carità, non sia mai. Perché ormai l’arrivo del cellulare ha inoculato nella testa dell’intera popolazione occidentale questa convinzione delirante: che esista un diritto divino, naturale, universale a interrompere il lavoro —e spesso pure la vita— di qualcun altro.

E guai a obiettare: sei tu che non sei “resiliente”. Sei tu che “non gestisci bene lo stress”. Sei tu che hai bisogno di mindfulness, yoga aziendale e di un coach che ti insegni a respirare mentre ti spediscono l’ennesima notifica con scritto URGENTE!!!. In fondo, cosa vuoi che sia: quarantaquattro interruzioni non sono un abuso, sono un’opportunità di crescita personale.


Ormai lavoro nell’IT e nella tecnologia da così tanto tempo che chiamarmi “tecnosciamano” o “guru” sarebbe quasi riduttivo. La verità è che mi considero più uno storico della tecnologia, uno che ha visto le mutazioni culturali, sociali e persino neurologiche che i nostri gingilli elettronici hanno portato con sé. Dall’Amiga 1200 a oggi, il cambiamento delle abitudini della popolazione è stato talmente evidente che non serve nemmeno fare filosofia: basta guardarsi intorno.

Io vivo in NRW, ma lavoro da remoto per un’azienda bavarese. E siccome non passo tutta la vita davanti a Teams o Slack, ogni tanto mi piace uscire in bicicletta. Sul mio manubrio, attaccato al trespolo, non c’è un iPhone scintillante né un Android superottimizzato con mille app da cicloturista. No: c’è un TomTom.

E a questo punto sento già la domanda: —Ma scusa, perché non usi il cellulare, con OpenMap, Komoot e tutte quelle belle app moderne?— Certo che potrei. Ma non lo faccio.

Per una ragione semplice: il TomTom non telefona. E non riceve telefonate. Non c’è il rischio che, mentre pedalo tranquillo in mezzo alla campagna tedesca, improvvisamente lo schermo diventi nero, compaia un nome e una suoneria isterica mi costringa a fermarmi. E se non rispondo subito, ecco che parte il ricatto psicologico: niente mappa, niente posizione, arrangiati a indovinare dove sei.

Sì, lo so: in realtà il TomTom ha una eSIM e riceve SMS eccome. E prima usavano Traffic Message Channel (TMC), trasmesso dentro il segnale FM-RDS delle radio. Ma non suona e non e' un telefono. Ma almeno lì l’inganno è minimo: nessuno pretende che io interrompa la corsa perché la tecnologia ha deciso che la priorità non è sapere dove mi trovo, ma ascoltare per l’ennesima volta l’ansia digitale di qualcuno che ha appena scoperto che esiste il tasto “URGENTE”.

Con l’arrivo dei cellulari si è deciso, tacitamente ma universalmente, che tu possa essere interrotto sempre. Non “puoi”, attenzione: devi. È un diritto sacrosanto degli altri interromperti. Un dogma moderno: se non sei sempre reperibile, sei un asociale, un pericoloso evasore civico, quasi un criminale.

E così, se voglio concedermi un attimo di relax —quello che gli americani chiamano con il loro solito inglese da manuale me time— non posso certo staccare semplicemente il telefono. No, perché ti guarderebbero come un alieno. Allora vado in una bella sauna che ho qui vicino. Perché in sauna, per fortuna, il cellulare non lo tieni. Punto.

E se per caso qualcuno mi vede rilassato e pensa: —Oh, ma hai il cellulare addosso anche in sauna?— tranquillo. Non è il telefono. Sono solo molto felice di vederti.


Ma qualcuno, ovviamente, ci ha costruito sopra un’intera patologia. E guarda caso, qualche casa farmaceutica si è messa subito a venderti pillole, terapie, manuali di auto-aiuto. Ma per cosa, di preciso? Per reagire in modo umano a un contesto che di umano non ha più niente.

Facciamo due conti: oggi ci sono circa quattro miliardi di persone connesse. Quattro miliardi di cervelli che vivono in un ecosistema completamente nuovo. È ovvio che qualcuno, prima o poi, esploda. E i primi a saltare saranno probabilmente i lavoratori dell’IT moderno.

Dico moderno perché un tempo si lavorava in stanze silenziose. Dove la cosa più insopportabile era il rumore di quelle “tastiere meccaniche di merda” —e quando vedo certi finti programmatori che spendono centinaia di euro per un’asse da stiro con i tasti rumorosissimi, capisco al volo che non sono programmatori veri, ma impostori in cosplay.

All’ingresso della stanza, poi, c’era lo SPOC: Single Point Of Contact. Non potevi disturbare il team, punto. Parlavi con lo SPOC. Che suona vulcaniano, ma in realtà era più un klingon: asciutto, brutale, e soprattutto protettivo. Così si lavorava. Così non venivi interrotto.

Poi sono arrivati prima i cellulari, e dopo gli smartphone, e la situazione è degenerata. Perché lì si è deciso che la reperibilità fosse la nuova religione.

E allora come si crea una “neurodivergenza”? Semplice. Si prende una popolazione intera e la si costringe a vivere in un regime che non rientra nei parametri umani. Tipo: lavorare con 44 interruzioni in una mattina. Alcuni resistono, altri scoppiano. Si prende il gruppo che esplode per primo e gli si appiccica un’etichetta: “neurodivergenti”. Voilà.

E da lì in poi la macchina culturale parte: Hollywood ti sforna due film strappalacrime, Netflix due serie in cui l’eroe “divergente” salva il mondo, e il pubblico si sente informato. Il risultato? Non puoi più protestare se ti interrompono quarantaquattro volte in una mattinata. Perché se lo fai, non stai denunciando un sistema folle: stai semplicemente confessando di essere “neurodivergente”.


I “neurodivergenti”, in realtà, sono semplicemente il gruppo che ne ha avute le palle piene prima di tutti gli altri. Tutto qui. Perché la faccenda non riguarda solo il lavoro: non riesci più a fare niente senza che qualcuno ti interrompa.

Vuoi uscire a cena con la famiglia? Scordatelo: metà del tempo sarete impegnati in telefonate inutili, tra uno squillo e l’altro. Vuoi andare in bici? Se non lasci il cellulare a casa, fai quindici metri e poi sei già fermo sul bordo strada a parlare. E quando finalmente torni, comunque c’è qualcuno che ti aspetta con la solita frase: —Chiama tua madre, si è preoccupata perché faceva sempre occupato—.

Vuoi farti un bagno caldo, di quelli decenti, nella vasca? Ahah, che illuso: se non ti trovano al cellulare, parte il telefono di casa. Ma che cazzo lo uso a fare, oggi, un telefono di casa? Boh.

Mavaffanculo, gente.

Tutti mi dite che sarei io quello “neurodivergente”, perché non riesco ad accodare i 44 task urgenti che voi, con generosità quasi divina, mi assegnate ogni giorno. Ma vi siete mai presi la briga di riflettere sul concetto di “urgente”?

Perché, se ci pensiamo bene, i veri incapaci di accodare i task siete voi. Era davvero necessario chiedermi quella cosa stamattina? Era davvero necessario interrompermi? Era davvero necessario che fosse fatto subito?

No. Non lo era. Io al massimo sono quello che si snerva perché non riesco a mettere in coda quarantaquattro richieste in una mattina. Ma quelli che non riescono a tenere in coda nemmeno un task siete voi.

Sicuri, allora, che i neurodivergenti siamo noi? O non siete piuttosto voi, con la vostra compulsione da notifica, la vostra ossessione per l’immediato, la vostra perenne urgenza che non è mai un’urgenza, a essere i veri disturbati?


E la prova di quello che dico sta nel fatto che gli strumenti per non rompere i coglioni esistono già. Basta aprire il vostro dannato Outlook e guardare bene: potete mandare appuntamenti, ma anche task. Sì, proprio i task, con tanto di scadenza. Gli altri sono liberi di accettare o rifiutare, certo. Ed è questo il punto, vero? È quello il problema: che con un task non potete imporvi, dovete aspettare che l’altro decida.

Ma no, troppo difficile. Meglio interrompere. Meglio urlare in chat, squillare al telefono, inviare la notifica isterica. Perché siete ansiosi, ossessivi, paranoici, convinti che esista un grande complotto aziendale per ignorare i vostri bisogni. E non riuscite a respirare se il vostro problemINO non viene immediatamente scaricato sulle spalle di qualcun altro.


La verità è che tutta la storia dei telefoni cellulari e della reperibilità continua ha scatenato un’epidemia di ansiosi disorganizzati. Gente che, appena ha un pensiero o una minchiata da dire, deve subito scaricarla su qualcun altro. E se non ci riesce, sta male.

Io sono nato in un’epoca in cui i parenti in Germania mandavano tre cartoline all’anno: Natale, Pasqua, compleanni. Fine. Oggi, se non mi trovano al telefono per dieci minuti, “si preoccupano”. Ma di che cazzo ti preoccupi? E soprattutto: cosa pensavi di fare, concretamente, se davvero mi fosse successo qualcosa?

Il meglio arriva quando ti chiedono “ma stai bene?”. Se rispondi sinceramente “no, non sto bene perché mi hai interrotto a cena e mi si è freddato il piatto”, loro si incazzano pure. E l’apoteosi è quando ti dicono, con aria soddisfatta: —Ti ho chiamato proprio all’ora di cena, così ti trovo a casa—. Bravo, genio. Così mi trovi a casa, ma senza cena. Complimenti per l’intuizione.

E siccome non riescono ad accettare che loro hanno un problema di ansia e di gestione della vita, allora la colpa ricade su di me: sono io che avrei un problema col multitasking. Una volta, continuando a mangiare durante una chiamata, mi hanno sentito fare rumore con la bocca e mi hanno chiesto:

—Ma stai mangiando?—.

La mia risposta è stata: —No, sto succhiando cazzi—.

Indovinate un po’? Io sono diventato il maleducato. Non loro, che chiamano apposta all’ora di cena, e se non mi trovano chiedono persino a che ora mangio di solito, così possono essere sicuri di non lasciarmi mai cenare.

La mia risposta alla domanda "quando puoi chiamarmi", cioè "quando e se rispondo al telefono", è stata considerata scortese.


Ma fin qui niente di strano: è il solito rant contro la maleducazione e l’ansia amplificata che sono ormai diventate la norma sociale.
Quello che non mi sta bene è che sopra a tutto questo ci abbiate costruito un’intera architettura di stronzate, battezzandole con nomi altisonanti e trasformandole in malattie che non esistono.

I cosiddetti “neurodivergenti” non sono altro che i primi a esplodere in un sistema progettato per andare completamente fuori dai parametri di lavoro del cervello umano. Ovviamente, chi il cervello non lo usa non ha problemi. Chi lo usa, invece, a un certo punto manda tutto a puttane.

Ma no: non sia mai che la colpa sia del sistema. Serve un’etichetta. Perché un set di psichiatri deve pur pagare le bollette, e l’industria farmaceutica deve pur vendere le sue due pilloline miracolose.
Ripetiamolo piano, scandendo bene: LE NEURODIVERGENZE NON ESISTONO.

Esiste solo una convinzione idiota, mai confermata scientificamente, secondo cui il cervello umano potrebbe fare multitasking. Che potrebbe lavorare come una coda di ticket da helpdesk. Spoiler: no.

E non provate nemmeno a discutere di multitasking con me, perché la prima cosa che vi chiedo è: —Il tuo multitasking è cooperativo o pre-emptive?—. A quel punto posso andare avanti per ore, solo per ricordarvi che il multitasking è un concetto informatico, non biologico. Gli esseri umani non fanno multitasking: punto. Non ne avete idea, non sapete nemmeno che cazzo significhi il termine.

E già che ci siamo: no, non potete nemmeno “cancellare un file” davvero. A voler essere pignoli, state solo marcando un blocco come riutilizzabile. Quindi fate un favore a tutti: prima di inventarvi nuove categorie come “neuroricordante” per chi ha memoria buona, smettete di saccheggiare concetti informatici che non capite.


E se non avete problemi con il mondo basato sulla continua interruzione, il motivo e' semplice:

  • Non fate un cazzo di produttivo da mane a sera.
  • Il cervello non lo usate proprio, quindi non si lamenta.

Ed e' ora che qualcuno ve lo dica in faccia, psichiatri delle mie palle pelose.

La vera malattia mentale moderna ha un nome: psichiatria. E avete anche pagato l'universita' per venirne infetti.

Dimenticavo: e' ovvio che NON andro' a fare alcun test, e che NON sono "neurodivergente io". Ma ormai ho una certa eta', e ho imparato a vivere nell'asilo psichiatrico che si chiama pianeta terra.

Infetto da una malattia che si chiama "psichiatria".