Net Neutrality, l'incompetenza non paga.

Net Neutrality, l'incompetenza non paga.
Photo by Lightsaber Collection / Unsplash

Qualche tempo fa ebbi una conversazione sgradevolissima con un burocrate a proposito delle reti di accesso e dei loro costi. Cercavo di fargli notare come gli operatori di accesso a Internet – gli ISP con cui firmate i contratti – venissero caricati di oneri che non generavano alcun ricavo diretto: erano costretti a investire per ampliare i propri collegamenti solo per mantenere in condizioni accettabili i servizi delle grandi piattaforme globali, all’epoca le GAFAM, i servizi cosiddetti “over the top”, Netflix e le reti di distribuzione dei contenuti, senza monetizzare davvero quel traffico.

Le sue risposte trasudavano astio verso gli ISP, e il motivo era piuttosto semplice. Dal punto di vista dell’elettore medio, cioè del cittadino comune, “Internet” è il cavo che entra in casa o le tacche sullo schermo del telefono: la connessione fisica, non tutto ciò che sta a monte. Seguendo questa percezione distorta, leggi, regolamenti, autorità indipendenti e l’intera sovrastruttura partorita da certi politici si sono abbattuti sugli operatori di accesso – quelli che vi mandano la bolletta – come se fossero loro i colpevoli dei costi crescenti, mentre erano soggetti come Netflix e le altre piattaforme video, aumentando costantemente la banda necessaria, a costringerli a costruire e potenziare l’infrastruttura per conto di grandi aziende statunitensi, che dal punto di vista degli operatori non contribuivano ai costi di rete ma sfruttavano capacità sempre maggiore.

​Ma questo quadro appartiene ormai al passato. Il cambiamento non solo è iniziato, ma si è in buona parte già compiuto, e più avanti racconterò chi ha inventato il trucco che ha ribaltato la situazione. Per ora basti sapere che il colpo di scena arriva davvero alla fine, come uno schiaffo dato al burocrate, uno di quei politicanti che si credono forti perche' dalla loro hanno lo stato.


Dicevo: in Europa questo cambio di fase si è concretizzato, tra le altre cose, con il passaggio di Vodafone dal collegamento con DE‑CIX a un nuovo fornitore, Inter.Link, una società di Berlino che opera come rete di trasporto e di interscambio del traffico verso gli operatori di accesso.

Ma cominciamo dall’inizio. Di che diavolo sto parlando? Quella che voi chiamate “connettività a Internet” di solito coincide con la rete di accesso: il pezzo di infrastruttura che va da casa vostra, o dal vostro telefono, fino a un punto di raccolta dell’operatore, dove il traffico viene instradato sulle dorsali di lunga distanza, i cosiddetti backbone. Questi punti di raccolta e smistamento hanno mille nomi: centrali, POP, nodi di rete, LSR, a seconda delle tecnologie usate, ma l’idea è sempre la stessa, ossia concentrare il traffico di molti utenti e spedirlo verso il resto di Internet.

E poi? E soprattutto: come? Succede che gli ISP (TIM, Vodafone e compagnia) per parlare con il mondo esterno si collegano a dei punti di interscambio del traffico, che possono essere di tipo “pubblico” oppure “privato”. “Pubblico” non significa affatto che sia dello Stato o pagato dal contribuente: sono comunque strutture private, ma con un modello neutrale, dove decine o centinaia di reti diverse portano i propri collegamenti e scambiano traffico tra loro su una piattaforma condivisa, il classico Internet Exchange Point. Nel caso “privato”, invece, l’ISP compra capacità da un singolo fornitore di transito o si collega con una o poche controparti in modo dedicato, senza passare da un grande scambiatore neutrale.

Nel modello di scambio più diffuso, il vostro ISP compra una o più “porte” su uno di questi punti di interscambio: per esempio una porta a 100 o 400 Gbit/s, pagando un canone per quella capacità. Attraverso quella porta può instradare il traffico verso chiunque sia collegato allo stesso scambiatore, con due vantaggi immediati: latenza più bassa, perché i percorsi sono più brevi, e minore dipendenza da costosi servizi di transito a volume. Nessuno sta lì a misurare quanti gigabit passano ogni giorno, entro certi limiti: si paga per avere la porta attiva, non per ogni singolo flusso, ed è per questo che si parla spesso di peering “a canone fisso”, o addirittura di peering senza regolazione, quando tra le parti non ci sono conguagli economici basati sul traffico.

Gli OTT americani hanno costruito per anni la loro strategia proprio su questo schema: se un ISP è collegato a un grande punto di interscambio pubblico, il traffico delle piattaforme video arriva lì in mezzo a tutto il resto, come se fosse un flusso qualunque. Se quel traffico esplode, sono affari dell’operatore di accesso comprare porte sempre più grandi e potenziare i propri collegamenti, mentre per le piattaforme il costo marginale di riversare altri tera di video sugli stessi scambiatori rimane sostanzialmente invariato.

​Quando si dice che un ISP (TIM, Vodafone, Deutsche Telekom, Orange, ecc.) vi “collega a Internet”, non si intende solo la parte fisica della rete di accesso. La spesa non è limitata a portarvi la fibra fino a casa: occorre anche trasportare quel traffico fino alle grandi dorsali, le cosiddette autostrade di Internet, dove la rete di accesso si innesta sull’infrastruttura di trasporto a lunga distanza.

Il nodo, fino a poco tempo fa, è stato che – complice una certa retorica sulla neutralità della rete che cavalcava il risentimento di parte dell’opinione pubblica contro gli operatori – si è preteso che gli ISP restassero gli unici responsabili economici di questa capacità aggiuntiva. L’esito è stato un crescente squilibrio: a fronte di servizi sempre più esigenti in termini di banda e latenza (pensate a uno streaming spinto fino all’8K), le telco erano chiamate a potenziare la rete senza poter trasformare facilmente quegli investimenti in ricavi diretti.

In pratica, gli operatori di accesso hanno finito per finanziare gli adeguamenti necessari a far funzionare meglio le piattaforme che generano i volumi maggiori, mentre il beneficio per queste ultime non era accompagnato da un contributo proporzionato ai costi sostenuti sulla rete di trasporto e agli innesti sulle dorsali. Il mercato li “costringeva” a tenere il passo, e il quadro regolatorio, per come era interpretato, riduceva i margini di manovra per recuperare quegli oneri.

Questa situazione ha strangolato gli ISP per anni, mentre un legislatore diversamente competente ha preferito ignorare il problema, accecato da una narrazione ideologica che dipingeva gli operatori come il nemico da colpire. A fomentare questo clima hanno contribuito anche alcune campagne politiche, come la celebre iniziativa di Beppe Grillo sulla cosiddetta “OPA alla genovese” su Telecom Italia, che negli anni Duemila ha trasformato la vicenda degli ex monopolisti telefonici in uno spettacolo permanente di bersagli da fischiare in piazza.

Il risultato è che, agli occhi dell’utente medio, “Internet” coincide con il soggetto che gli manda la bolletta, e cioè l’ISP. Se qualcosa non funziona, o se i costi aumentano, il bersaglio immediato diventa l’operatore di accesso, non le grandi piattaforme che saturano la rete con i loro servizi ad altissimo consumo di banda. Questo fraintendimento percettivo ha reso politicamente molto facile scaricare la colpa sugli ISP e molto difficile aprire un discorso serio sui costi reali dell’infrastruttura.


Ma da qualche anno le cose sono cambiate, grazie all’arrivo di tecnologie di disaggregazione della rete – quella che molti operatori chiamano “evoluzione della rete” – che hanno sganciato gli ISP dalla dipendenza diretta da grandi infrastrutture gestite da soggetti spesso statunitensi molto vicini agli OTT, e hanno fatto emergere nuovi operatori di trasporto privati più agili, in grado di applicare veri e propri pedaggi sul traffico.

Cosa è successo, in concreto? Prendiamo l’ultimo episodio, che a mio avviso chiude il quadro sul continente europeo: Vodafone ha deciso di abbandonare progressivamente il peering pubblico sui grandi punti di interscambio, come DE‑CIX, per spostare il traffico su un modello gestito da Inter.link, un operatore di rete con sede a Berlino che fornisce una dorsale propria e una piattaforma di interconnessione automatizzata verso altri operatori e fornitori di contenuti.

DE‑CIX è un punto di interscambio “pubblico” nel senso tecnico del termine: una piattaforma neutrale dove centinaia di reti si scambiano traffico in modalità di norma a canone fisso o senza regolazione economica sul singolo flusso, secondo la logica del peering “settlement‑free”. Non fattura a traffico, non distingue l’origine del pacchetto: se hai la porta, i tuoi pacchetti vanno avanti e indietro. Se io OTT ho un grosso backbone, non ho alcun problema a riversare tonnellate di dati su quello scambiatore; se la tua porta è troppo piccola, sono affari tuoi comprare capacità aggiuntiva. Bello. Ma anche no.

Perché la neutralità della rete obbliga a non discriminare in base all’origine o al tipo di traffico, ma non obbliga nessuno a ingrandire all’infinito le porte sugli scambiatori pubblici. Così, molti grandi operatori hanno semplicemente smesso di aumentare la capacità su quei punti neutri, lasciando che le porte si saturassero. Quando il mercato ha iniziato a pretendere più banda e latenze migliori, i grandi ISP – in Germania il primo è stato Deutsche Telekom, e ora Vodafone chiude il cerchio – si sono agganciati a nuovi sistemi di interscambio “disaggregati”, come la piattaforma FlexPeer di Inter.link, che consente di misurare e prezzare con finezza il traffico che entra nelle loro reti.

Prima lo schema era più o meno questo:

  • Netflix passa tutto l’archivio in 8K.
  • La rete collassa.
  • Netflix: è colpa degli ISP che non vi danno la bandaaaahhh!!!
  • I giornali: nel paesino di Sucaselbosco Superiore non arriva la fibra!
  • I blogger ignoranti: è il diggggital devaid!!! È il diggital devaid!!!!
  • “Maledetti ISP! Dovete investire, dovete!!!”
  • Gli ISP, alla fine, investivano e compravano nuove porte sugli scambiatori pubblici. A spese loro.

Adesso il gioco è diverso. Sono arrivati scambiatori e reti di trasporto che ragionano e fatturano in altro modo, introducendo modelli di interconnessione in cui chi vuole raggiungere certi clienti paga per la capacità necessaria, spesso in base al volume di traffico. Vodafone Germania, un po’ in ritardo rispetto ad altri, ha deciso di chiudere il capitolo del peering pubblico: esce dai grandi Internet Exchange neutrali e si affida a Inter.link come unico intermediario per l’accesso al proprio network, mentre Inter.link a sua volta è collegata anche ai punti di interscambio pubblici come DE‑CIX. In teoria, se vuoi restare “neutrale”, puoi sempre passare di lì. Solo che nessuno paga (piu') per ingrandire le porte.

Così, adesso la storia funziona più o meno così:

  • Netflix passa tutto l’archivio in 8K.
  • La rete collassa.
  • Netflix: è colpa degli ISP, non vi danno la banddaaaaahhhh!!!
  • I giornali: a Sanculopoli Anale non c’è la fibra! Otto abitanti senza Internet!
  • I blogger ignoranti: è il diggggital devaid!!! Diggital devaidddddddahhh!!!!
  • “Maledetti ISP, dovete investire!!!”
  • ISP: noi siamo collegati con Inter.link. Volete più banda verso la nostra rete? Andate da loro, non avete che da… pagarla. Se non volete un salto di rete in più, potete sempre chiedere un collegamento diretto con il nostro bordo di rete (detto PNI): sediamoci al tavolo e parliamo di prezzo. Se ci presentano anche le loro mamme, magari facciamo pure lo sconto.

Ta-pum, tsssscch


Insomma, il discorso adesso e' questo: la discussione tra ISP e OTT ora va cosi'.

  • ISP: «Caro OTT, io ho venti milioni di “eyeballs” – così chiamate voi gli utenti alla fine della rete di accesso – e non ho alcun problema a far passare il tuo traffico. Il mio nuovo punto di scambio, Inter.Link, sarà felicissimo di presentarti il suo listino.»
  • OTT: «Ma io voglio passare dallo scambiatore pubblico, così non pago. È la neutralità della rete: ho il diritto di buttartelo nel culo. Ho pagato le lobby di Bruxelles per avere questa legge!»
  • ISP: «La neutralità della rete è rispettata. Passa pure dallo scambiatore pubblico: Inter.Link collega anche quello.»
  • OTT: «Certo, ma adesso abbiamo un hop in più: per arrivare allo scambiatore pubblico dobbiamo comunque attraversare Inter.Link, con più latenza, oppure pagare per raggiungerti direttamente!»
  • ISP: «Mi sciolgo in lacrime. Aspetta che ti suoni una canzone triste.»
  • OTT: «Ma la banda complessiva sullo scambiatore pubblico è troppo piccola, il mio traffico non ci sta tutto. Perche' non la ingrandite a spese vostre? In cambio siamo disposti a darvi due noccioline, una delle due un po' masticata.»
  • ISP: «Sono profondamente addolorato e sono allergico alle noccioline. Ma, come ti dicevo, puoi sempre rivolgerti a Inter.Link e chiedere un collegamento dedicato con più capacità. Se lo paghi, ti danno tutto il traffico che vuoi.»
  • OTT: «Ma loro il traffico LO FANNO PAGARE!»
  • ISP: «Trovo inspiegabile la carenza di istituzioni di beneficenza tra gli operatori di scambio. Una coincidenza davvero bizzarra, non ti pare?»
  • OTT: «E anche accettando le loro tariffe esose, mi rimane comunque un hop in più! Come faccio, coi videogames?»
  • ISP: «Nessun problema. Se mi dai il numero di telefono di tua sorella, quella bona, e mi supplichi con sufficiente convinzione, posso offrirti un collegamento diretto dedicato (un PNI) verso la nostra rete di utenti finali, senza alcun hop in mezzo. Devi solo… pagare il traffico.»
  • OTT: adesso vado a piangere da Trump, che vi fa le tariffe.

È legale, dal punto di vista delle regole sulla neutralità della rete?


La neutralità della rete vieta di trattare in modo diverso il traffico a seconda della sorgente, della destinazione o del tipo di servizio, e quindi impedisce di fare prezzi che si traducano in corsie preferenziali per alcuni contenuti rispetto ad altri. Ma nel modello che descrivo Inter.Link applica lo stesso listino a chiunque: non vende “priorità” per singolo servizio, vende capacità di trasporto, e fattura il traffico che attraversa la propria rete invece di far pagare solo la porta. Se un OTT paga di più, è semplicemente perché genera più traffico totale; il prezzo per unità di traffico resta lo stesso per tutti.

Dal lato degli ISP il principio è analogo. Se un fornitore di contenuti vuole un collegamento diretto dedicato – un PNI attestato su uno switch di livello 3, per esempio – e l’operatore decide di fatturare a traffico invece che a porta, le condizioni economiche devono essere applicate in modo non discriminatorio: stesso schema di prezzi per chiunque chieda lo stesso tipo di collegamento, senza sconti legati al tipo di servizio o al contenuto trasportato. In questo scenario, a parità di caratteristiche tecniche, ciò che cambia non è come i pacchetti vengono trattati in rete, ma solo quanto paga chi decide di saturare di più il tubo.

​E' legale, finalmente, far pagare agli OTT il traffico che generano.

E FINALMENTE ,LO FANNO PAGARE.

Prima, no.

Tapum, tscccccchhhh


Ma da dove, e come, e' iniziata questa rivoluzione?

Diciamola cosi'. Prima, i produttori di hardware americani producevano dispositivi (switch, principalmente, ma anche grossi router, LSR, e via cantando) che non erano veramente agili, e non riuscivano facilmente a contare il traffico. Contavano i link e il fattore di aggregazione. Con l'arrivo delle tecnologie di disaggregazione della rete, che sono basate su software opensource (io c'ero! io c'ero!) e' stato possibile cambiare il modo di vendere il traffico sulla rete carrier, diciamo "dal grossista" per capirci.

C'e' quindi una reazione tecnologica dietro. Ma anche degli ISP. I primi a diventare aggressivi sono stati, secondo me, i francesi di Orange. Ma quelli sanno bene di avere dietro alle spalle un governo che privilegia SEMPRE l'industria nazionale.

Ma il primo ISP a farlo davvero, ufficialmente, e' stato l' ISP piu' amato da Grillo e Quintarelli.

Telecom Italia.

Ta-pum, pssssshhhh.

Negli anni scorsi Telecom Italia – oggi TIM – aveva già mostrato la strada che ora vediamo in Germania: ha progressivamente ridotto il peering sui punti di interscambio neutri italiani, in particolare su quello di Milano, chiedendo agli altri operatori di spostarsi su accordi diretti di peering privato o di comprare transito da lei. Questa scelta, descritta apertamente nel dibattito europeo come una politica di “de‑peering”, ha portato le altre reti italiane a lamentare rallentamenti e colli di bottiglia, perché chi non accettava i nuovi termini si ritrovava con percorsi più lunghi e meno efficienti per raggiungere i clienti Telecom.

  • Nel 2012 Telecom Italia iniziò a inviare ai peer gli avvisi di disconnessione, proponendo al loro posto accordi di “paid peering”, cioè interconnessioni dirette a pagamento.
  • Nel luglio 2013 disattivò unilateralmente la maggior parte delle interconnessioni pubbliche con le altre reti italiane sui principali punti di scambio (MIX, NaMeX, TOP‑IX), mettendo di fatto fine al peering pubblico generalizzato.
  • Tra 2013 e 2014 vari report tecnici e articoli europei citano il caso italiano come esempio di politica di “de‑peering” usata per spingere gli altri operatori verso forme di interconnessione a pagamento o tramite il backbone internazionale di Telecom Italia Sparkle.

In pratica, Telecom Italia è stata uno dei primi ex monopolisti europei a usare in modo sistematico la propria posizione di snodo nazionale per spingere contenuti e ISP verso modelli di interconnessione più controllati e più remunerativi per l’operatore di accesso, anticipando dinamiche che oggi si vedono riprodotte, su scala diversa, nei casi di Deutsche Telekom e Vodafone Germania.

​E oggi , dove siamo?


La trasformazione è già piuttosto avanzata nel segmento “grandi operatori / grandi piattaforme”, ma non è affatto completa: convive con il vecchio modello a scambiatori pubblici e non riguarda allo stesso modo tutti i mercati nazionali.

Quadro generale in Europa

Secondo l’ultimo rapporto di BEREC sull’ecosistema di interconnessione IP, in Europa continuano a coesistere tre grandi forme di interconnessione: peering bilaterale privato, punti di interscambio pubblici (IXP) e transito IP classico. Il traffico sugli IXP rimane molto rilevante, ma cresce la quota di traffico veicolata tramite “on‑net CDN” e collegamenti diretti tra grandi fornitori di contenuti (CAP/OTT) e reti di accesso, spesso ospitati in data center che competono direttamente con gli IXP come luoghi di interconnessione.

Dove siamo con i grandi incumbent

BEREC nota che i grandi operatori storici tendono sempre più a privilegiare forme di interconnessione controllate (peering bilaterale, accordi dedicati con le piattaforme, on‑net CDN) rispetto al peering pubblico generalizzato, soprattutto quando servono bassissima latenza e molta banda. Casi come Telecom Italia nel 2012–2013, Deutsche Telekom che limita il peering gratuito con gli OTT, o l’attuale mossa di Vodafone Germania, sono citati nella letteratura come esempi di “spostamento del baricentro” dagli IXP pubblici verso modelli più chiusi o mediati.

Nel comunicato ufficiale, Vodafone spiega che intende migrare entro fine 2025 tutto il traffico in Germania dagli attuali Internet Exchange Point pubblici al nuovo sistema basato su Inter.link, che fungerà da piattaforma automatizzata di interconnessione per oltre 4.000 peer oggi gestiti direttamente. L’accordo prevede poi l’estensione di questo modello ad altri paesi europei a partire dal 2026, permettendo ai fornitori terzi che vogliono raggiungere la rete globale di Vodafone di usare l’infrastruttura di Inter.link, potenzialmente anche per migliorare latenza e resilienza.

Ruolo degli IXP e degli operatori minori

Nonostante questi movimenti, BEREC conclude che il mercato europeo dell’interconnessione nel suo complesso “funziona generalmente bene”: gli IXP restano centrali, soprattutto per operatori più piccoli e medi che non hanno la scala per negoziare peering privati ovunque. Allo stesso tempo, si osserva una lenta “regionalizzazione” del traffico (più contenuti serviti localmente, più CDN dentro le reti degli ISP), che riduce in parte il peso relativo dei grandi snodi pubblici pan‑europei rispetto al passato.


Al momento l’unico caso davvero “pieno” e dichiarato di modello alla Vodafone Germania è… la Germania stessa; altrove in Europa si vedono mosse parziali nella stessa direzione, ma non ancora un copia‑incolla dell’architettura con un unico intermediario tipo Inter.link.

Germania (caso maturo)

  • Vodafone Germania sta dismettendo progressivamente tutte le porte sui grandi Internet Exchange pubblici (DE‑CIX, ECIX, ecc.) per spostare l’interconnessione su un unico intermediario, Inter.link, che dovrà diventare l’imbuto obbligato per la maggior parte dei peer entro fine 2025.
  • Deutsche Telekom adotta da anni una politica di peering molto restrittiva, basata su peering selettivo solo con altri grandi backbone e offerte di transito a pagamento per CAP/OTT, con effetti pratici simili (accesso “a pedaggio” alla propria base clienti), anche se non passa da un singolo soggetto terzo come Inter.link.

Paesi Bassi (precedente parziale)

  • Il caso più vicino, ma più limitato nel tempo, è stato quello di T‑Mobile Netherlands, che nel 2019 uscì dall’IXP AMS‑IX e dirottò il traffico via Germania, lasciando molti piccoli fornitori e reti locali senza peering diretto; dopo la protesta pubblica, fu in buona parte costretta a tornare indietro.
  • È un precedente importante perché mostra che “staccarsi dagli IX pubblici e far passare tutti da percorsi più controllati” è già stato testato in un altro paese UE, anche se non con l’architettura industrializzata e intermediata da un NaaS come nel caso Vodafone–Inter.link.

Italia, Francia, Spagna: più modello economico che architetturale

  • In Italia il caso TIM/Telecom Italia degli anni 2012–2013 fu uno spostamento deciso dal peering pubblico verso forme di de‑peering e peering privato a pagamento, ma senza introdurre un operatore di trasporto terzo alla Inter.link; oggi TIM ha progressivamente riallacciato molte interconnessioni sui principali IX nazionali. Semplicemente, non insegue piu' le richieste degli OTT, ma se le fa pagare via Spark.
  • In Francia e Spagna il conflitto si è visto più sul piano economico e regolatorio (battaglie sul “fair share” e su accordi di peering/paid peering tra Orange, Telefónica e grandi fornitori di contenuti), ma senza annunci espliciti di un disimpegno totale dagli IX pubblici a favore di una sola piattaforma di interconnessione privata.

Quadro complessivo

  • Il rapporto BEREC 2024–2025 sull’interconnessione IP segnala che la tendenza alla “chiusura” è più marcata nei grandi incumbent di alcuni mercati (Germania, Italia nel passato recente, Paesi Bassi nel caso T‑Mobile), mentre in molti altri paesi europei gli IXP restano centrali e non risultano piani dichiarati di abbandono sistematico del peering pubblico sul modello Vodafone–Inter.link.
  • In sintesi: oggi l’architettura davvero paragonabile a quella di Vodafone Germania è confinata alla Germania; altrove, per ora, si vedono soprattutto variazioni sul tema (più peering privato, più on‑net CDN, qualche uscita dagli IX poi rientrata), non ancora un vero “secondo caso Inter.link” nazionale.

Perché i paesi procedono in maniera diversa? Perché un gigante come Deutsche Telekom non ha alcun bisogno di affidarsi a Inter.Link: dispone della dimensione e delle risorse per gestire internamente gli scambi di traffico. La loro politica è stata quindi ancora più radicale: o ti connetti direttamente con noi, alle nostre condizioni, oppure non ti connetti affatto e vai lentissimo usando traffico "hot potato". In quanto incumbent con una posizione dominante di mercato, Deutsche Telekom può permettersi questa linea intransigente

Cosa fa DT, in breve

  • Deutsche Telekom non fa praticamente più peering pubblico su IX europei: usa solo peering privati selettivi, spesso di sua proprieta' e, soprattutto, contratti a pagamento con grandi fornitori di contenuti.
  • Il caso più clamoroso è la disputa con Meta: DT ha chiesto decine di milioni in canoni per mantenere 24 interconnessioni private dedicate, Meta ha rifiutato e ha spostato il traffico su fornitori di transito terzi, che comunque paga a consumo, accusando DT di mettere l’“internet aperta” dietro un paywall di fatto.

Perché Vodafone è un caso diverso

Vodafone, al contrario, ha firmato un accordo strutturale:

  • chiude le porte sugli IX pubblici in Germania;
  • sposta l’interconnessione su una piattaforma NaaS (Inter.link) che automatizza e intermedia l’accesso di oltre 4.000 reti alla propria infrastruttura.

​COSA succede in Francia? Avevamo detto che erano i piu' aggressivi.

Cosa fanno gli operatori francesi

I grandi operatori francesi – Orange , Free/Iliad , SFR (gruppo Altice) e Bouygues Telecom

– hanno una lunga storia di conflitti di interconnessione (celebre il caso Orange vs Cogent/YouTube, e i dossier ARCEP sulle congestioni), ma li hanno sempre gestiti in proprio, tramite combinazioni di:

  • transito IP (si fanno gli scambiatori in casa), peering privato (anche pagato) e peering pubblico sugli IXP nazionali, sui quali investono poco;
  • negoziazioni spesso dure con i fornitori di contenuti (Cogent, Google/YouTube, Megaupload, Netflix), ma senza delegare a una piattaforma NaaS il controllo dell’accesso alla propria rete, bensi' facendosi tutto "in casa".

Tutti gli altri, in Europa, finiscono con l'attaccarsi ai grandi , a volte con qualche problema, come nel caso olandese:

Il caso olandese e quello di Deutsche Telekom sono due “prototipi” diversi dello stesso istinto: chi ha gli eyeballs prova a trasformare il proprio network in un casello a pedaggio.

T‑Mobile Netherlands e l’esperimento AMS‑IX

Nel 2019 T‑Mobile Netherlands decide di staccarsi dall’AMS‑IX, uno dei più grandi punti di interscambio pubblici al mondo, e di instradare tutto il traffico dei propri clienti passando per la rete madre in Germania, cioè attraverso Deutsche Telekom

Questo significa che moltissimi piccoli fornitori o reti locali, che fino ad allora raggiungevano i clienti T‑Mobile tramite peering pubblico ad Amsterdam, si ritrovano improvvisamente con percorsi più lunghi, più latenza, prestazioni peggiori e, in alcuni casi, problemi di raggiungibilità.

La mossa viene letta da molti come un test di forza: se vuoi una buona connettività verso i miei utenti, non ti basta più l’IX neutro; devi venire a bussare alla porta “tedesca” e quindi rinegoziare condizioni di interconnessione più favorevoli al gruppo. Dopo proteste furibonde da parte di clienti, operatori e stampa specializzata, T‑Mobile NL è costretta a fare marcia indietro e a ripristinare il routing via AMS‑IX nel giro di poche settimane. È un precedente importante perché mostra come un singolo operatore possa usare il de‑peering dagli IX pubblici come leva commerciale, ma anche quanto rapidamente l’opinione pubblica e i regolatori possano reagire, se vengono foraggiati bene.


Ma cosa e' successo, poi, tra DTAG e Meta?

E' una storia complessa.

Deutsche Telekom e il caso Meta

Deutsche Telekom, dal canto suo, porta alle estreme conseguenze l’idea che la capacità di interconnessione verso i propri utenti sia un servizio premium. Per anni mantiene con Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp) un contratto commerciale di interconnessione privata dedicata: 24 punti di collegamento esclusivi, con centinaia di porte e diversi Tbit/s di capacità, pagati da Meta per avere accesso diretto e ad alte prestazioni alla rete DT. Alla scadenza del contratto, Meta vuole trasformare il rapporto in peering “settlement‑free” (niente più canone), continuando però a usare la stessa infrastruttura; Deutsche Telekom risponde che, per quei volumi asimmetrici di traffico, o si paga o si passa al transito a pagamento come chiunque altro.

Ne nasce una causa legale: il tribunale regionale di Colonia dà ragione a Deutsche Telekom, stabilendo che Meta deve pagare circa 20 milioni di euro di arretrati se vuole continuare a usare quella capacità dedicata, e che la telco può legittimamente pretendere un corrispettivo per mantenere quei collegamenti privati. Meta taglia i cavi (logicamente) e sposta il traffico su altri percorsi, denunciando pubblicamente il rischio per la neutralità della rete e per l’“internet aperta”; Deutsche Telekom replica che non si tratta di discriminare il traffico, ma di far pagare chi scarica sulle sue dorsali quantità di dati sproporzionate rispetto agli altri.


Ed ecco che la guerra e' aperta, e no, gli OTT non stanno vincendo.

Negli anni d’oro, i grandi OTT/CAP (Google, Netflix, Meta, ecc.) hanno costruito una posizione di forza enorme: portavano i loro server vicino alla rete degli ISP, spingevano volumi di traffico asimmetrici e, grazie alla sostituibilità tra transito e peering, riuscivano spesso a ottenere interconnessioni a costo bassissimo o nullo. La narrativa era: “noi vi portiamo contenuti che i vostri clienti vogliono, quindi vi facciamo un favore”.

Negli ultimi anni, però:

  • i telco europei hanno cominciato a spingere sul tema del “fair share”, ossia l’idea che chi genera enormi volumi di traffico debba contribuire ai costi di rete; la Commissione UE ha aperto consultazioni formali e il tema è ora riconosciuto come problema politico, non più solo una lamentela di settore.
  • grandi incumbent come Deutsche Telekom e TIM hanno dimostrato nei fatti che possono rifiutare il “settlement‑free a oltranza”, chiedere contratti di paid peering o transito dedicato e, se necessario, arrivare fino al de‑peering o al contenzioso legale, come nel caso DT–Meta.
  • mosse come quella di Vodafone Germania con Inter.link mostrano che un ISP può “alzare il ponte levatoio” sugli IXP pubblici e obbligare i grandi OTT a negoziare su un terreno più controllato, spesso a consumo, invece che su porte “flat” condivise.

In parallelo, i margini degli OTT sui servizi base (streaming, social, cloud generico) non sono più quelli del 2010: la crescita di utenti rallenta, la pubblicità è ciclica e molti di questi gruppi hanno meno spazio per assorbire costi aggiuntivi senza impatto su prezzi o investimenti.

Gli OTT non stanno più vincendo come una volta. Per anni hanno riversato traffico sulle reti europee come se fossero fognature a cielo aperto, contando sul fatto che gli operatori di accesso, imbavagliati dalla retorica sulla neutralità di certi politicanti ( qui riassunti brevemente con Q), sarebbero stati costretti a ingoiare e a pagare. Oggi, tra sentenze che riconoscono la legittimità dei pedaggi, delibere dei regolatori e accordi come quello fra Vodafone e Inter.link, il tavolo si è inclinato: se vuoi entrare in autostrada con i Tbit/s dei tuoi video, il casello non è più per forza gratis.


Se volete capire perché un fondo statunitense come KKR si sia affrettato a raccogliere capitali per acquisire la rete fissa di TIM – la famosa NetCo – e perché il governo italiano abbia voluto entrare direttamente nell’operazione con il golden power e una quota azionaria, forse quanto avete letto sull’evoluzione del peering e dei pedaggi vi aiuta a mettere a fuoco il quadro più ampio. Attorno a Telecom italia si giocava una partita immensa, quella del depeering.

Qui non si tratta solo di un affare finanziario da qualche miliardo, ma di chi controlla le chiavi fisiche dell’accesso alla rete in Europa, mentre fondi e piattaforme nordamericane cercano da anni di mettere le mani sulle infrastrutture considerate strategiche.

È una delle tante linee del fronte – poco visibili al grande pubblico – della guerra di posizione tra infrastrutture europee e capitali d’oltreoceano. E, per una volta dopo molto tempo, la partita non la stanno vincendo gli OTT, ma gli operatori di accesso: gli ISP che, con tutti i loro difetti, sono ancorati ai territori, ai regolatori nazionali, ai vincoli politici europei, e dunque sono l’Europa che prova a non farsi schiacciare.

Stefano Quintarelli, che per anni è stato il volto istituzionale della neutralità della rete in Italia, se ne farà una ragione.

Tapum‑tssccch