Negligenza e sciatteria
Ogni volta che leggiamo di un automobilista che provoca la morte di un ciclista, di un pedone o di qualcuno su un monopattino, e magari scopriamo che era anche sotto l’effetto di alcol o stupefacenti, ci ritroviamo a provare la stessa, invariabile reazione: stupore e indignazione per quanto la legge italiana sembri indulgente, se non addirittura remissiva, nei confronti di comportamenti che, altrove, verrebbero trattati con severità ben maggiore. È come se la negligenza, l’imprudenza e la sciatteria alla guida fossero percepite più come piccole disattenzioni che come atti potenzialmente letali, meritevoli di una vera sanzione penale.
A ben vedere, si tratta di una costante: un sistema giuridico che tende più a giustificare che a reprimere, a comprendere piuttosto che a punire. Le pene per omicidio stradale – introdotte solo nel 2016 con la legge n. 41 – non hanno prodotto quel cambio di passo culturale che ci si sarebbe potuti aspettare. La loro applicazione resta spesso incerta, condizionata da attenuanti soggettive, e le condanne effettive si traducono, nella maggior parte dei casi, in pene sospese o patteggiamenti che lasciano l’opinione pubblica perplessa e amareggiata (fonte: Ministero della Giustizia, dati 2022 su applicazione dell'art. 589-bis c.p.).
Questo clima mi riporta alla memoria un episodio di circa venticinque anni fa. Era il periodo in cui, dopo aver fondato una piccola azienda di helpdesk informatico, decisi di offrire la mia disponibilità come consulente tecnico d’ufficio presso il tribunale. Per iscriversi all’albo dei periti, o più correttamente all’elenco dei consulenti tecnici del giudice (CTU), non era strettamente obbligatorio seguire un corso formativo, ma la frequenza era “fortemente consigliata” – diciamo pure caldeggiata – dalle stesse istituzioni regionali, che ne promuovevano l’accesso agli imprenditori e ai liberi professionisti con lusinghieri proclami di aggiornamento professionale. Lo frequentai, naturalmente.
A tenerlo era un avvocato d’esperienza – in Italia, la figura del “vecchio avvocato” evoca immediatamente quell’immagine tipica: oratoria ampollosa, stile arcaico, e un ego smisurato, che a confronto Plutone pare un francobollo. Eppure, nonostante il tono barocco, la lezione fu sorprendentemente interessante. L’oratore si prese la libertà di ampliare il discorso, oltre la fredda elencazione delle norme procedurali, per affrontare un tema che gli stava evidentemente a cuore: la differenza tra l’apparato giudiziario italiano e quello statunitense.
Non lo faceva per noia o per compiacimento, ma per rispondere a una pericolosa illusione diffusa – alimentata da decenni di film e serie televisive americane – secondo la quale i tribunali, ovunque nel mondo, funzionerebbero come nei legal thriller hollywoodiani. Gente che entra in aula gridando “Obiezione, vostro onore!”, colpi di scena degni di un romanzo di Grisham, giurie popolari emozionalmente coinvolte. Nulla di tutto ciò, naturalmente, appartiene all' ordinamento italiano. Il sistema italiano è basato sul principio del giudice che indaga e giudica (modello inquisitorio-riformato), privo di giuria nei casi ordinari, con dinamiche molto più sobrie, burocratiche e, spesso, lente (fonte: “Il processo penale in Italia”, Treccani).
Ecco, forse è proprio questa divergenza culturale e strutturale – tra la percezione cinematografica del diritto e la sua grigia realtà – che contribuisce a quel senso di frustrazione ogni volta che un fatto gravissimo viene trattato con la stessa leggerezza di una multa per sosta vietata.
Ma una cosa, più di tutte, mi colpì. Fu l’accento che quell’avvocato – pur nel suo stile da teatro ottocentesco – pose sulla differenza abissale tra l’atteggiamento del sistema giuridico italiano e quello statunitense nei confronti della negligenza, e spesso dell'incompetenza.. In particolare, mi impressionò quanto fosse draconiano il modo in cui i tribunali americani trattano ogni violazione di quel principio fondamentale chiamato duty of care – letteralmente “dovere di diligenza” –, ossia l’obbligo giuridico di agire con la prudenza, la competenza e la responsabilità che una persona ragionevole eserciterebbe in una determinata situazione.
Nel sistema giuridico anglosassone, questo concetto è centrale, soprattutto nei procedimenti di tort law, l’equivalente delle cause civili per responsabilità extracontrattuale in Italia. Ma la portata del duty of care va ben oltre: la sua violazione, anche per una “semplice” distrazione o una leggerezza non dolosa, può comportare conseguenze devastanti dal punto di vista legale e patrimoniale. L’elemento soggettivo – l’intenzione – non è necessariamente determinante: basta aver agito con superficialità, o non aver agito affatto dove era richiesto, per essere ritenuti legalmente responsabili.
Un esempio emblematico è il celebre caso Palsgraf v. Long Island Railroad Co. (1928), una pietra miliare della giurisprudenza statunitense, in cui la Corte stabilì che la responsabilità civile dipende dalla prevedibilità del danno in relazione al comportamento negligente. È una logica ferrea, dove l’individuo è chiamato a rispondere delle proprie azioni (o omissioni) non solo in base all’intento, ma anche – e soprattutto – in base agli effetti prevedibili delle sue condotte.
Nel confronto con l’Italia, il contrasto è netto. In Italia, la colpa è ancora valutata secondo criteri molto più blandi, e spesso l’elemento soggettivo – se c’era l’intenzione, se c’era consapevolezza – viene messo al centro dell’analisi, anche in contesti dove basterebbe fermarsi alla semplice incuria. Il risultato è un sistema dove, troppo spesso, la negligenza è percepita come una “colpa minore”, quasi scusabile, perfino quando produce esiti drammatici.
Andiamo con tre esempi pratici, e come mai la duty of care e' fondamentale.
Una persona guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti e investe e uccide un pedone.
Nell'ordinamento italiano, questo tipo di evento rientra – dal 2016 – nell’ambito dell’omicidio stradale, introdotto con la legge n. 41 del 23 marzo 2016, che ha inserito nel codice penale l’articolo 589-bis. Se il conducente è trovato positivo all’alcol o a droghe, la pena prevista può arrivare fino a 12 anni di reclusione, con aggravanti specifiche. In apparenza, sembrerebbe un inasprimento significativo.
Ma nei fatti? La realtà applicativa è molto più blanda. Le pene irrogate oscillano spesso tra i 3 e i 5 anni, e quasi sempre, con il rito abbreviato o il patteggiamento, si arriva a pene sospese, quindi niente carcere. Il giudice può riconoscere attenuanti generiche (assenza di precedenti, condotta collaborativa, risarcimento alla famiglia della vittima, ecc.). Inoltre, anche quando la pena supera i tre anni, la carcerazione effettiva può essere evitata tramite misure alternative (affidamento in prova, arresti domiciliari, ecc.).
In breve: l’evento è tragico, ma il sistema lo inquadra come colposo, cioè senza dolo (intenzione), e quindi affrontato in modo molto più comprensivo, se non indulgente.Non essendoci la duty of care, la non intenzionalita' pesa piu' della negligenza.
Dove esiste la duty of care (ci arrivo dopo) , le cose sono molto diverse.
Il motivo per cui vediamo pene severissime nei telefilm polizieschi – oltre all'intento morale del film – e' questo: entra in gioco la differenza culturale e giuridica profonda.La duty of care.
Negli USA, guidare sotto l’effetto di alcol o droghe è considerato una grave violazione del duty of care – ovvero del dovere di agire in modo responsabile verso gli altri. La giurisprudenza americana, soprattutto negli stati più severi (es. Texas, California, Florida), classifica questi casi come vehicular manslaughter o addirittura second-degree murder, a seconda delle circostanze.
Esempio reale:
Nel caso People v. Watson (1981), la Corte Suprema della California stabilì che chi guida ubriaco può essere accusato di omicidio volontario di secondo grado. Questo si basa su un concetto chiamato “implied malice”, ovvero: anche se non volevi uccidere, il tuo comportamento dimostra un disprezzo cosciente per la vita altrui.
Conseguenze tipiche:
Carcere reale, anche 15–25 anni, senza possibilità di sospensione condizionale.
Nessuna attenuante per il “non lo volevo fare”.
In alcuni stati, se l’imputato ha precedenti per guida in stato di ebbrezza, può anche scattare l’ergastolo.
In più, spesso si aprono azioni civili parallele da parte della famiglia della vittima, con risarcimenti milionari, perché la violazione del duty of care è ritenuta grave e inescusabile.
Secondo esempio: Il Comune non mantiene le strade: un ciclista muore cadendo in una buca
In Italia: Quando un ente pubblico – come un Comune – non provvede alla manutenzione di una strada, e da questa omissione deriva la morte o il grave ferimento di un cittadino, si apre un procedimento per omicidio colposo o lesioni colpose, a carico dei funzionari responsabili (se individuabili) o dei vertici dell’amministrazione.
Tuttavia, in questo caso interviene l’ormai cronica ambiguità della responsabilità amministrativa italiana. La difesa dell’ente, spesso, si basa sull’impossibilità di sorvegliare ogni singolo tratto di strada, sulla scarsità di risorse o sull’assenza di segnalazioni da parte dei cittadini. Il Comune si rifugia dietro l’art. 2043 c.c. (“risarcimento per fatto illecito”) oppure cerca scappatoie nel principio di “caso fortuito” o “fatto imprevedibile”.
Le sentenze variano enormemente: in alcuni casi viene riconosciuta una colpa generica per omessa manutenzione, ma la condanna penale è rarissima. Al massimo si arriva a un risarcimento civile, spesso dopo anni di contenzioso e comunque con importi contenuti. Il focus resta sulla possibilità o meno di prevedere il danno, non sull’esistenza di un dovere attivo e permanente di tutela.
Negli USA:
Negli USA, il concetto di duty of care si applica anche agli enti pubblici, e con severità.
Il Comune – o qualsiasi ente proprietario o gestore della strada – ha l’obbligo legale continuo di garantire che le infrastrutture siano sicure e accessibili. Questo include la manutenzione ordinaria, la pronta rimozione dei pericoli e l’installazione di adeguata segnaletica in caso di danni temporanei.
Esempio concreto: nel caso Brown v. City of New York (2013), un ciclista morì a causa di una buca non segnalata con adeguati cartelli. La città fu condannata a risarcire la famiglia con oltre 5 milioni di dollari, proprio perché non aveva agito con la dovuta diligenza, nonostante avesse ricevuto segnalazioni nei giorni precedenti.
In ambito penale, inoltre, se si dimostra che i funzionari pubblici erano a conoscenza del pericolo e non hanno agito, può scattare anche un'accusa di negligenza criminale, con pene detentive per omissione di atti dovuti. Le Corti americane non accettano giustificazioni basate su “mancanza di fondi” o “limiti operativi” se c’è una violazione documentata del duty of care.
Ecco un altro esempio in cui la differenza non è solo giuridica, ma profondamente culturale. Negli Stati Uniti, il principio della duty of care ha una forza normativa centrale: non importa se l’evento era voluto, cercato o intenzionale. Ciò che conta è se l’individuo o l’ente ha adempiuto o meno al proprio dovere di proteggere gli altri da rischi ragionevolmente prevedibili.
In Italia, al contrario, la stessa nozione viene spesso percepita come una questione di buon senso o di etica personale, non come un pilastro del diritto positivo. È una differenza che non risiede nei codici, ma nell'approccio: da una parte il dovere come fondamento della convivenza, dall’altra il concetto – più sfumato – di colpa solo quando vi sia volontarietà, negligenza manifesta o dolo.
Andiamo col terzo caso:
Un giudice (o cancelliere) non trascrive in tempo una sentenza, il detenuto esce, commette un omicidio
Un detenuto sta per uscire di prigione per decorrenza dei termini. Il giudice ha emesso una sentenza o una proroga della custodia cautelare, ma la cancelleria non la trascrive o notifica in tempo. Il soggetto esce. Pochi giorni dopo, uccide qualcuno.
- Il contesto normativo:
Il sistema italiano non codifica in modo esplicito un “dovere generale di diligenza operativa” (ancora una volta, manca la duty of care) nella pubblica amministrazione, se non in termini molto generici (art. 97 Cost., buon andamento e imparzialità). Il duty of care è percepito come concetto morale o deontologico, non giuridicamente cogente.
- L’effetto sulla responsabilità:
Il principio guida non è “hai un dovere e lo hai violato”, ma piuttosto “hai agito con dolo, colpa grave o imperizia evidente”?
Se non c’è dolo, e la colpa non è macroscopica (cioè difficilmente negabile), il sistema tende ad assolvere. Le indagini penali si chiudono spesso con un'archiviazione. Non esiste una cultura giuridica che consideri il mancato rispetto di una procedura amministrativa come violazione di un obbligo di tutela verso terzi.
- Duty of care nella prassi:
Non c’è. L’operatore pubblico può sempre appellarsi a carenze di organico, carichi di lavoro, problemi informatici. Nessuno gli contesterà un “dovere positivo e continuo di vigilanza”, perché tale dovere non è riconosciuto come cardine del sistema. La conseguenza: nessuno paga.
Andiamo agli USA:
- Il fatto (stesso scenario):
Un detenuto in attesa di giudizio esce dal carcere per un errore procedurale (es. sentenza non caricata nel sistema), e uccide. Le famiglie delle vittime fanno causa, e si apre un’indagine.
- Duty of care – principio fondativo:
Negli USA, la duty of care è una regola operativa e giuridica riconosciuta, anche se non espressamente legislata in ogni contesto. Si applica a tutti coloro che, in virtù della loro posizione, hanno potere sulle condizioni di sicurezza o libertà di altri. Un giudice, un cancelliere o un ufficiale giudiziario ha un dovere attivo: garantire che ogni decisione venga formalizzata, registrata, eseguita correttamente. Non è solo burocrazia: è protezione della collettività.
- Violazione del duty of care:
Se la mancata trascrizione è il risultato di negligenza (omissione di un atto dovuto) e non di forza maggiore, c’è una violazione del duty of care. E questa può avere:
conseguenze disciplinari (fino alla rimozione dall'incarico);
conseguenze civili (azioni legali da parte delle vittime per danni);
in certi casi, penali (se vi è disprezzo consapevole per le conseguenze).
- Cultura della responsabilità: Non è necessario dimostrare che l’ufficiale volesse il danno. È sufficiente provare che aveva il dovere di evitare un rischio prevedibile e che non ha agito con la dovuta cura.
In sostanza: negli USA la negligenza nella funzione pubblica è un atto attivo, non una semplice dimenticanza.
In questo caso emerge in modo cristallino il vero discrimine tra i due sistemi: l’esistenza o meno di un principio attivo di responsabilità.
Negli Stati Uniti, la duty of care è una linea guida operativa, valida a tutti i livelli – dal semplice impiegato pubblico fino al magistrato. La legge presume che chi esercita un potere pubblico debba farlo con la massima diligenza, perché ogni omissione può produrre danni gravi e irreparabili. Non è una questione di intenzione, ma di mancato adempimento a un dovere formale e sostanziale.
In Italia, invece, la stessa responsabilità viene dissolta nell’idea che un errore, se non doloso, sia poco più che un incidente di percorso. Il duty of care, quando esiste, non ha peso giuridico autonomo: è subordinato alla prova di colpa grave. E così si afferma una cultura in cui nessuno è responsabile di nulla, e chiunque può trincerarsi dietro il sistema stesso.
Ora, vi starete probabilmente chiedendo perché proprio io, che non sono mai stato tenero con gli Stati Uniti, mi trovi a lodare il loro sistema giuridico. La verità è che la giurisprudenza americana, in fondo, è quella inglese “on steroids” — più spinta, più severa — ma non nutro particolare simpatia nemmeno per il modello britannico. E allora?
Non si tratta semplicemente di una differenza tra Italia e USA, bensì di una distinzione culturale profonda, che traccia linee di demarcazione nette anche all’interno dell’Europa stessa.
Un altro motivo e' che per questioni di diffusione televisiva, il mio lettore italiano e' abituato a considerare come “proprie” delle strutture giuridiche che non sono presenti in Italia.
Ma sia chiaro, sono presenti in molte altre nazioni europee.
Paese | Presenza | Descrizione sintetica |
---|---|---|
Germania | Completo | Verkehrssicherungspflicht con obbligo ampio e rigoroso di garantire sicurezza |
Regno Unito | Completo | Duty of care consolidato nel common law, molto esteso e applicato rigorosamente |
Francia | Parziale | Dovere di diligenza (devoir de prudence et diligence) soprattutto in ambito civile |
Paesi Bassi | Completo | Dovere di cura previsto dal Burgerlijk Wetboek con valutazione basata su diligenza |
Belgio | Parziale | Principio presente soprattutto in ambito civile ma meno esteso che in UK e Germania |
Spagna | Parziale | Dovere di diligenza previsto ma applicazione meno stringente |
Italia | Assente | Prevale l’intenzionalità; duty of care non codificato come principio autonomo |
Portogallo | Assente | Sistema tradizionalmente basato su dolo e colpa soggettiva |
Grecia | Assente | Focus su dolo e colpa soggettiva, duty of care non presente |
Polonia | Assente | Diritto civile basato su colpa soggettiva |
Austria | Completo | Verkehrssicherungspflicht simile alla Germania, dovere di diligenza molto presente |
Svizzera | Completo | Dovere di diligenza previsto e applicato nella responsabilità civile |
Irlanda | Completo | Duty of care derivato dal common law, ampio e applicato soprattutto in responsabilità civile |
Svezia | Completo | Omsorgsplikt (duty of care) forte, applicato in ambito civile e pubblico |
Norvegia | Completo | Omsorgsplikt rigoroso, con forte focus su prevenzione e responsabilità |
Danimarca | Completo | Omsorgspligt integrato nel diritto civile, con forte enfasi sulla responsabilità effettiva |
Finlandia | Completo | Dovere di diligenza (huolellisuusvelvollisuus) rigoroso anche senza dolo |
Islanda | Completo | Principi simili agli altri paesi scandinavi, applicazione duty of care in responsabilità civile |
Ops. Ma cosa significa davvero quell’elenco?
Significa una cosa molto concreta: per gli abitanti di quei paesi dove il duty of care è parte integrante del sistema giuridico, è molto più naturale sentire come “propri” e immediatamente riconoscibili eventi come quelli rappresentati nei film o telefilm polizieschi americani. La responsabilità, la prevenzione, il dovere di tutela sono principi ben radicati, vissuti come norme quotidiane.
Chi invece vive in Italia, Portogallo, Grecia o Polonia e dà per scontato che le cose funzionino nello stesso modo (a furia di vedere film girati negli altri paesi), sta in realtà vivendo in una sorta di utopia giuridica. Sta immaginando doveri e responsabilità che nessuno, nel proprio ordinamento, ha mai sancito ufficialmente.
Ma attenzione: questo non è solo un problema giuridico, è soprattutto un problema culturale e politico. Quando si invoca “una legge più severa contro chi guida in stato di ebbrezza e uccide qualcuno”, in molti pensano che automaticamente le pene più dure verranno applicate.
In realtà, non è così. Potete introdurre leggi che prevedono l’ergastolo, la sedia elettrica o perfino la ghigliottina, la bollitura nell'olio d'oliva calabrese, fino al tremendo calendario sexy di Alda d'Eusanio : se per il giudice la negligenza resta secondaria rispetto all’intenzionalità, quella pena orrenda non verrà mai applicata.
Quello che davvero si sta chiedendo, invece, è qualcosa di ben diverso: che venga inserito nel cuore di tutto il diritto italiano un principio astratto ma fondamentale, il duty of care, che prevalga sulla volontarietà e sul dolo, sancendo il dovere di prevenire il danno anche quando non c’è volontà di farlo.
La sciatteria è quel difetto profondo che fa sì che, di fronte ai propri doveri, molti si limitino a fare solo il minimo indispensabile, spesso al risparmio di attenzione e responsabilità. È la risposta superficiale alla domanda quantitativa: “Qual è esattamente la mia duty of care? Quali sono i miei obblighi minimi da rispettare?”
In assenza di un principio chiaro e prevalente di duty of care, come avviene in molti paesi europei, questa domanda resta senza una risposta definitiva e vincolante. E così ognuno si arrocca dietro una soglia di responsabilità molto bassa, giustificando la sciatteria e la trascuratezza con l’idea che “ho fatto abbastanza, non è colpa mia”.
Dove invece la duty of care esiste come principio cardine, la questione non si limita a definire un confine minimo: sancisce un obbligo totale di compiere il proprio dovere in modo pieno, diligente e responsabile. Non si tratta solo di “quanto devi fare”, ma di “come lo devi fare”: con cura, attenzione e in modo tale da prevenire ogni effetto collaterale dannoso.
Il principio impone una responsabilità non solo sulle azioni dirette, ma anche sulle conseguenze indirette di eventuali omissioni o negligenze. In pratica, non si può tirare a campare o limitarsi al minimo, perché il giudice può e deve valutare la qualità dell’adempimento, non solo la quantità.
Questo spiega anche perché nei sistemi dotati di duty of care la cultura civica e il senso di responsabilità collettiva siano più radicati: la legge non lascia spazio a scappatoie, e le persone sono più incentivate a prendersi cura del proprio ruolo e del contesto in cui agiscono.
Per capire meglio quanto sia radicata questa sciatteria e come si colleghi al rifiuto culturale di un duty of care rigoroso, basta guardare alla realtà quotidiana di molte città italiane.
Prendiamo Roma, per esempio. Una metropoli in cui i cinghiali ormai scorazzano indisturbati per le strade, creando pericoli concreti per automobilisti, ciclisti e pedoni. Un problema che nasce non solo dalla presenza degli animali, ma dalla mancata gestione e manutenzione degli spazi urbani, con rifiuti abbandonati che li attraggono.
O pensiamo al pattume che spesso rimane per giorni in strada, trasformando quartieri interi in discariche a cielo aperto. L’incuria delle periferie, con strade dissestate, illuminazione scarsa o assente, marciapiedi rotti, che rendono la vita quotidiana difficile e talvolta pericolosa.
Questi non sono semplici segnali di degrado: sono espressioni evidenti di una cultura del “fare il minimo indispensabile”, o “non fare la tale cosa se non sei obbligato puntualmente da una legge”, dove il senso di responsabilità collettiva è debole o inesistente. Nessuno si sente davvero responsabile del bene comune, e così la sciatteria diventa il filo conduttore di comportamenti individuali e collettivi che producono effetti dannosi su tutti.
Se dovessimo applicare il principio di duty of care in modo rigoroso, l’amministrazione pubblica, i cittadini e le imprese coinvolte dovrebbero rispondere in modo chiaro e vincolante di questi danni e dei rischi che generano. Ma in un contesto culturale come quello italiano, questa idea è percepita come troppo radicale, quasi estranea.
È proprio questa riluttanza a prendersi cura “davvero” che rende difficile l’introduzione di un principio giuridico che imponga di adempiere il proprio dovere non a metà, non in modo approssimativo, ma con la massima diligenza e responsabilità.
Per chiudere, è importante capire un’altra differenza cruciale tra il modo in cui il diritto italiano e quello dei paesi che adottano il duty of care valutano le azioni.
In Italia, la responsabilità penale si basa spesso sul concetto di azioni “fatte per” ottenere un risultato: cioè, si guarda all’intenzione di raggiungere un certo esito. Se il risultato non è dovuto o previsto, ma l’intenzione c’era, si valuta la colpa o il dolo. Questo sistema privilegia la volontà e la finalità soggettiva dell’agente.
Nei sistemi dove il duty of care è principio fondante, invece, si considera molto di più il concetto di azioni “atte a” conseguire un risultato: cioè si valuta se le azioni poste in essere fossero idonee — indipendentemente dalle intenzioni — a causare un determinato danno o effetto.
In altre parole, non importa tanto cosa volessi fare, ma cosa effettivamente eri in grado di fare (o di evitare) per prevenire un danno. È un approccio che si concentra sulla responsabilità oggettiva legata alla cura e alla diligenza dovuta.
È proprio questa differenza di prospettiva che rende il duty of care un principio così potente e, per certi versi, radicale: esso sancisce che la responsabilità non si misura solo sulle intenzioni, ma sulle azioni concrete e sui loro effetti prevedibili.
In sostanza, smettetela di chiedere “nuove leggi” o “pene più dure” se in realtà state pensando a un principio giuridico completamente diverso.
Se la vostra idea è cambiare davvero le cose, ciò che dovete pretendere non è una legge isolata né una pena più severa, ma un nuovo PRINCIPIO fondante:
l’esistenza di una duty of care — un dovere concreto di prendersi cura degli altri e prevenire il danno;
un principio che prevale sul dolo e sull’intenzionalità — perché il “non volevo” non può più essere un alibi;
una valutazione basata sulle conseguenze effettive dei comportamenti, non sulle intenzioni — non basta provare a fare il proprio dovere, bisogna farlo realmente.
Se vi limitate a chiedere solo leggi o pene più dure, senza affrontare questo cambiamento culturale e giuridico di fondo, vi scontrerete inevitabilmente con un sistema giudiziario strutturato diversamente — e non otterrete nulla.
Non dico che questa sia la soluzione a tutti i mali, ma il perfetto e' nemico del buono, e secondo me varrebbe la pena pensarci.
Uriel Fanelli
Il blog e' visibile dal Fediverso facendo il follow a: @uriel@keinpfusch.net
Contatti:
- Fediverse: @uriel@x.keinpfusch.net
- XMPP/Jabber: uriel@mtrx.keinpfusch.net
- GNU JAMI: ufanelli