Munari & Tortellini: sul Design Italiano
La notizia che l’UNESCO abbia deciso di conferire alla “cucina italiana” uno specifico e prezioso valore culturale sta tenendo banco su tutti i giornali. Personalmente, però, non la trovo così sorprendente: l’export agroalimentare è una voce importante dell’export italiano. Semmai, la domanda è un’altra: perché non lo si è fatto prima?
Il problema che mi pongo è legato a una sensazione già vista, e che mi tornò addosso anni fa: quella strana percezione di priorità rovesciate che provai quando Microsoft decise di comprare Nokia, mentre il Parlamento europeo lavorava per proteggere un formaggio francese di cui non ricordo nemmeno il nome.
Perché, se vogliamo parlare seriamente di patrimonio, ce n’è uno ben più strategico da proteggere — anche perché tiene insieme moda e industria, immaginario e produzione, cultura e bilancia commerciale. Ed è ora di farlo sul serio.
Mi riferisco al Design italiano: il design industriale, il design “fashion”, e anche quel design che finisce nelle case sotto forma di oggetti e arredi — cucine, mobili, illuminazione, interni.
Eppure non è un tema di cui si parla molto. Come mai? La carbonara, per dire, la si può mangiare: dunque qualsiasi maiale può improvvisarsi esperto e dire la sua sul cibo italiano. Il design italiano, invece, ha una complessità diversa: non lo consumi in un piatto, lo riconosci (o lo subisci) in un sistema.
Comincerei da un maestro italiano del design industriale: Bruno Munari.
Munari si occupava — tra le altre cose — di ergonomia cognitiva: non nel senso “da slide” che piace oggi, ma nel senso duro e pulito di chi studia davvero come un oggetto entra nella testa dell’utente, come si fa capire, come guida un gesto, e perché certe forme funzionano anche quando non sai spiegartelo.
Ed è, senza troppi giri di parole, tutto ciò che vorrebbero essere certi frontend developer quando straparlano di ergonomia, usabilità, UI/UX. Solo che non arrivano alle ginocchia di Munari; e non ci arriverebbero nemmeno trovando uno sgabello su cui salire.
Di Munari molti ricordano soprattutto le forchette. Ma Munari ha scritto di molte cose, e lo ha fatto con quella combinazione rara di precisione e leggerezza che ti fa abbassare la guardia e poi ti frega: ti ritrovi a pensare in modo diverso.
Per chi vuole farsi un’idea della produzione (e magari scegliere da dove partire), qui c’è la pagina autore con l’elenco dei libri:
https://www.amazon.de/stores/Bruno-Munari/author/B004N6DPWC/allbooks?
A me, per dire, è rimasta impressa una cosa letta in un libro che girava per casa: a casa mia non si riverniciavano i muri, perché tanto davanti c’era una libreria. In mezzo a quei volumi, Munari buttava lì un’idea che da ragazzino mi sembrò quasi esoterica e che invece era lucidissima: sul piano dell’ergonomia un pettine, un rastrello e una forchetta sono la stessa cosa.









Munari dava anche una spiegazione “teorica” — o, meglio, una teoria di lavoro — che partiva da un’idea tanto semplice quanto spietata: qualunque strumento l’uomo usi, in fondo serve a fare qualcosa che potremmo fare anche senza, ma peggio. Più lentamente, con più fatica, con meno precisione.
Da lì, il design diventava un problema concreto, quasi ingegneristico: come colleghi l’attrezzo al corpo umano. E poi: come progetti l’attrezzo in modo che faccia davvero quello che vuoi, nel modo in cui vuoi.
Se prendi una Divisumma, cioè una calcolatrice elettromeccanica Olivetti, il ragionamento — visto con gli occhi di Munari — diventa una catena di domande molto nette:
- Come colleghiamo la calcolatrice alla mano?
- Come colleghiamo i tasti alla calcolatrice (cioè: come trasformiamo un gesto in un comando affidabile)?
- Come facciamo fare alla calcolatrice il lavoro che altrimenti faremmo a penna?
Ma la domanda principale non era davvero “come colleghiamo la mano” o “come colleghiamo i tasti”. La domanda principale era: come vogliamo collegare il cervello della persona all’utensile? In altre parole: come vogliamo che la persona pensi l’oggetto?
È qui che l’ergonomia diventa cognitiva: non progetti soltanto una presa, progetti un modello mentale. Progetti il modo in cui l’utente percepisce l’oggetto, lo capisce, se lo ricorda, decide cosa farne e, soprattutto, capisce “che cosa è possibile fare” senza bisogno di istruzioni.
In termini moderni (per capirci con il gergo UI/UX), è il problema delle affordance percepite: ciò che conta non è solo quello che l’oggetto può fare, ma quello che l’utente crede di poter fare, guardandolo e toccandolo per la prima volta.




Cito la Divisumma perché è un oggetto con un design italiano specifico, riconoscibile, e — se guardate quando fu disegnata — perfino più peculiare e iconico di una Vespa.
E soprattutto, la Divisumma mi serve per introdurre un punto: questo modo di progettare, che mescolava produzione industriale e approccio cognitivo, non è rimasto un episodio isolato. Ha creato una scuola; poi quella scuola si è divisa, ha litigato, si è mescolata, si è contaminata. Ne sono nate altre, in cascata, proprio come succede con la cucina italiana: stessa radice, infinite variazioni regionali e infinite eresie.
Qui sotto trovate una serie di maestri del design italiano e alcune delle loro opere più iconiche, come si dice oggi.
E per capirci con un’immagine brutale: la Vespa è quasi tutta ingegneria. La Divisumma è quasi tutto cognitivismo.
So già che i soliti ganassa con la fabbrichetta diranno: “Sì, ok, ma se vendo un chilo di pasta me lo pagano gli schei. Il design invece come lo vendo?”. E con questo ragionamento — che sembra anche “pratico” — il Design italiano finisce per apparire meno strategico della cucina italiana.
Ma.
State dimenticando una cosa banale e assoluta: qualunque cosa l’Italia venda e non si mangi, ha avuto un design. O a priori, o a posteriori. Se esiste, è stata progettata. Se funziona, qualcuno ha pensato come farla funzionare per una persona.
Tutto. Letteralmente tutto ciò che si chiama “Made in Italy” — dai mobili alle automobili, dai tappeti ai tessuti per la casa, fino alle macchine industriali — ha un design.
E non sto parlando di un design ridotto a estetica o a “bella forma”. Sto parlando di un design ergonomico e cognitivo: il modo in cui una cosa si impugna, si usa, si capisce; il modo in cui comunica la sua funzione, prima ancora che tu legga un manuale. Il modo in cui una cosa si pensa.
Il caprone lo chiama “stile”, perché è la parola più comoda. Ma non capisce che dietro c’è una cultura: una grammatica del progetto, una tradizione di scelte, una catena di idee sedimentate.
Esattamente come per la cucina.
E se nel cibo l’Italia, per ora, ha ancora un posto importante nel mondo — anche se la crescita delle cucine orientali sta diventando commercialmente preoccupante, pensate al sushi — nel resto del design la faccenda è più ambigua: il design italiano è apprezzato, sì, ma sempre più spesso viene incasellato sotto l’etichetta “retro” o “vintage”.
Brutto segno. Perché quando una cultura progettuale finisce in quella categoria, di solito significa una cosa sola: non domina il presente. Ha dominato il passato recente. Ma oggi non detta più la grammatica.
A dominare oggi, nel percepito comune, è il design “nordico”: scandinavo, o comunque quell’estetica minimalista e funzionale che molti associano a ordine, sobrietà, “pulizia”. È un design che spesso risolve i problemi di ergonomia in modo quasi brutale: lasciando al corpo umano uno spazio enorme per manovrare. Traduzione: metri quadri.
Puoi arredare una casa in stile scandinavo, certo. Ma se non hai spazi grandi, rischi di trovarti un ambiente che sembra comodo e invece è scomodo: percorsi larghi, arredi distanziati, oggetti “leggeri” che funzionano davvero solo quando puoi permetterti il lusso di molto vuoto intorno. L’ergonomia diventa una conseguenza dello spazio disponibile, non una soluzione incorporata nell’oggetto.
Un esempio è Apple. Non esiste un “design Apple” nel senso romantico del termine. Non hanno inventato nulla. Esiste un’estetica nordica/razionalista che Apple ha adottato e reso popolare. Apple non ha inventato tutto da zero: ha scelto una grammatica già codificata altrove e l’ha applicata con coerenza maniacale.
Il riferimento che molti citano è Dieter Rams: designer tedesco, associato a quell’approccio minimalista e funzionale che oggi, nell’immaginario, viene percepito come “nordico” (anche quando non lo è geograficamente).


Il motivo per cui, appunto, secondo me è necessario che il design italiano venga riconosciuto di nuovo è proprio questo: farlo uscire dallo status di “retro”, cioè dall’idea di qualcosa che ha dominato il passato e ora sopravvive come citazione.
E c’è un secondo motivo, più concreto e più pericoloso. In un mondo in cui ogni prodotto arriva con una scia infinita di diritti, brevetti, marchi, design registrati e avvocati pronti a misurare al millimetro una curva, ritrovarsi con un intero linguaggio progettuale non più riconosciuto — mentre un altro stile diventa la norma — significa finire in un vicolo.
Perché, a quel punto, hai due possibilità, entrambe pessime:
- O smetti di vendere davvero qualcosa di tuo, perché qualcun altro controlla già “la forma legittima” delle cose attraverso proprietà intellettuale e standard de facto.
- Oppure produci oggetti dall’aspetto retro, come se il massimo che ti è concesso fosse una riedizione ben fatta del passato.
E qui entra il punto, forse il più sottovalutato di tutti: chi ha pensato la Fiat 500, lo ha fatto da solo. Non era una cover band. Non era una citazione. Era un’idea nuova, dentro un contesto industriale, e con un’identità che non chiedeva permesso. Non ha copiato da nessuno.
