USA-UE, lo scontro sul campo del digitale.

USA-UE, lo scontro sul campo del digitale.
Photo by Adi Goldstein / Unsplash

Siamo nel pieno del periodo festivo, una stagione fatta di lunghe tavolate conviviali e, inevitabilmente, di domande bizzarre da parte di parenti e conoscenti. Da quando è trapelata la notizia che sono stato coinvolto in uno dei progetti strategici che l'Unione Europea definisce sotto l'egida della "sovranità digitale" — iniziative finanziate direttamente da Bruxelles per garantire l'autonomia tecnologica del continente — le curiosità che mi vengono sottoposte hanno raggiunto vette di assurdità difficili da ignorare.

Nello specifico, in questi giorni i quesiti ruotano ossessivamente attorno alla cosiddetta "guerra fredda", così come viene semplicisticamente etichettata dai media, che gli Stati Uniti avrebbero scatenato per contrastare le diverse direttive europee nate per regolare il comportamento e lo strapotere dei colossi digitali. Si tratta di una tensione palpabile, che i giornali riportano spesso con toni allarmistici o distorti.

Tra qualche mese, forse, avrò la libertà di raccontarvi l'atmosfera che si respira realmente all'interno di questi programmi europei e la peculiare cultura che li governa; per il momento, però, il mio compito è più urgente e pragmatico. Devo cercare di estrarre i fatti nudi e crudi dalla melassa di una narrativa spesso ottusa, quella prodotta dai giornali italiani che ormai sembrano essersi allineati, quasi senza eccezioni, su posizioni acriticamente filo-MAGA, ignorando la complessità tecnica e politica della posta in gioco.


Il nodo della questione è che l’Unione Europea, negli ultimi anni, ha intrapreso una vera e propria crociata normativa per tentare di imbrigliare il Far West digitale. Partendo dal pionieristico GDPR, Bruxelles ha edificato una cattedrale di regolamenti che, visti da Washington, appaiono come altrettanti atti di guerra economica.​

Questa complessa architettura legislativa, spesso definita come il "Digital Rulebook" europeo, si articola in una serie di sigle che ormai popolano i sogni peggiori dei legali della Silicon Valley:

  • GDPR (General Data Protection Regulation): la pietra angolare sulla protezione dei dati personali.​
  • DSA (Digital Services Act): il regolamento sui servizi digitali che impone nuovi standard di moderazione e trasparenza.​
  • DMA (Digital Markets Act): la norma sui mercati digitali che punta a spezzare i monopoli dei cosiddetti "gatekeeper".​
  • AI Act: la prima legge al mondo che tenta di normare lo sviluppo e l'applicazione dell'intelligenza artificiale.​
  • Data Act: il regolamento che definisce chi può accedere ai dati generati dai prodotti connessi e per quali scopi.​
  • DGA (Data Governance Act): volto a favorire la condivisione dei dati tra imprese e settori pubblici.​

L'effetto combinato di queste norme ha creato un perimetro giuridico invalicabile, che la nuova amministrazione Trump percepisce come una forma di protezionismo mascherato. Non è un caso che, proprio in questi giorni, la tensione sia salita ai livelli di guardia: il Dipartimento di Stato americano, sotto la guida di Marco Rubio, ha imposto il divieto di visto per alcuni funzionari europei, accusandoli di essere gli architetti di un "complesso industriale della censura". È la risposta muscolare a quella che gli USA vedono come un'ingerenza europea sulla libertà di parola e sul business dei propri campioni tecnologici.


La scusa della "libertà di parola", brandita come un maglio dalla nuova amministrazione USA, è di per sé ridicola, rasentando l'offesa all'intelligenza di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i dati internazionali. Se analizziamo il World Press Freedom Index 2025 redatto da Reporters Without Borders, scopriamo che la realtà dei fatti smentisce categoricamente la propaganda di Marco Rubio e soci.​

Le prime dodici posizioni della classifica mondiale per la libertà di stampa sono occupate quasi esclusivamente da nazioni dell'Unione Europea (o strettamente legate al suo modello civile), con la Norvegia saldamente in testa, seguita da Estonia, Paesi Bassi, Svezia e Finlandia. Questi Paesi non solo proteggono il diritto di critica, ma garantiscono un ecosistema informativo che gli Stati Uniti possono ormai solo sognare. Gli USA, infatti, sono precipitati al 57° posto nel 2025, confermando un trend di declino costante che dura da anni e che ha portato la situazione della stampa americana a essere classificata come "problematica".​

Il paradosso è servito: un Paese dove le redazioni vengono perquisite, i giornalisti arrestati durante le manifestazioni e il Presidente eletto minaccia quotidianamente di usare l'apparato federale contro i media "sgraditi", pretende di dare lezioni di libertà a un continente che ha fatto della tutela del cittadino e della trasparenza informativa il proprio pilastro normativo. È chiaro che la "libertà" di cui parlano a Washington non è quella dei cittadini di essere informati, ma quella delle loro corporazioni di operare senza regole, senza tasse e senza responsabilità.


Detto ciò, come si profila la partita? All'orizzonte non si vede uno scontro frontale, bensì una gara di resistenza in cui l'Unione Europea può trionfare semplicemente facendo ciò che le riesce meglio: assolutamente nulla. Questi regolamenti non sono fragili editti pronti a cadere al primo soffio di vento transatlantico; sono mastodontiche architetture giuridiche che hanno richiesto anni di gestazione, triloghi infiniti e minuziose rifiniture prima di entrare in vigore. E, come ben sappiamo, anche una volta approvati, la loro effettiva applicazione viene spesso diluita in finestre di transizione biennali per permettere agli Stati membri di adeguarsi.​

Se anche gli Stati Uniti riuscissero a spaventare i vertici europei al punto da indurli a voler modificare questi trattati, ci troveremmo di fronte a un processo che richiederebbe anni solo per essere avviato. Donald Trump, però, non ha questo tempo. Il potere economico che lo sostiene è nervoso, febbrile, e si muove con stivali chiodati sopra bolle speculative di dimensioni mai viste prima, che necessitano di risultati immediati per non scoppiare.​

Questa idea di una lentezza "strategica" non è una congettura, ma una realtà procedurale. Se per approvare tali norme è servito un decennio, modificarle — anche solo per aggiornarle — è un'impresa titanica. L'esempio pratico più calzante è il cosiddetto pacchetto "Digital Omnibus" presentato dalla Commissione nel novembre 2025. Nonostante sia nato con l'intento dichiarato di "semplificare" e "armonizzare" il corpus legislativo esistente (GDPR, AI Act e Data Act in primis), il suo iter è un inno alla ponderatezza. La consultazione pubblica resterà aperta fino a marzo 2026, e l'adozione definitiva da parte della Commissione non è prevista prima dell'inizio del 2027. In pratica, prima che un solo paragrafo venga effettivamente cambiato, l'amministrazione Trump sarà già a metà del suo mandato, con le scarpe chiodate che inizieranno a pesare troppo su una bolla tecnologica sempre più sottile.


Ma cosa fa, di preciso, questo "Digital Omnibus"? Nonostante venga venduto con la rassicurante etichetta di "semplificazione", si tratta in realtà di una profonda opera di manutenzione e blindatura del sistema normativo europeo, progettata per rispondere alle sfide poste dall'intelligenza artificiale e per rendere il "Fortino Europa" ancora più resiliente alle pressioni esterne.​

In sintesi, il pacchetto presentato nel novembre 2025 interviene su quattro fronti critici per l'economia dei dati:

  • Aggiornamento del GDPR: La definizione di "dato personale" viene raffinata, ancorando il concetto di identificabilità a mezzi "ragionevolmente probabili", e si introducono deroghe specifiche per permettere l'uso di dati sensibili nell'addestramento dell'AI, purché sotto strette garanzie di sicurezza.​
  • Semplificazione dell'AI Act: Si riducono gli oneri burocratici per le PMI e le medie imprese, ma al contempo si rafforza il ruolo dell'Ufficio Europeo per l'AI (AI Office) nella supervisione dei modelli di "general-purpose AI" e delle grandi piattaforme online.​
  • Consolidamento del Data Act: Vengono assorbiti e fusi in un unico quadro normativo regolamenti precedentemente frammentati (come il Data Governance Act e la Direttiva Open Data), creando un sistema coerente per l'accesso ai dati del settore pubblico e la loro riutilizzazione.​
  • Sportello unico per la cybersecurity: Si istituisce un unico punto di ingresso per le notifiche di incidenti informatici, armonizzando i processi previsti da NIS2, GDPR e DORA per tagliare i tempi di reazione e ridurre la duplicazione dei report.​

In pratica, mentre gli USA di Trump minacciano sanzioni e ritorsioni, l'Europa sta usando questo pacchetto per "mettere ordine in casa" e rendere le proprie leggi non solo più efficaci per le aziende interne, ma anche più difficili da scardinare con un semplice atto di forza politico. È una mossa pragmatica: si riconosce che il mondo digitale è cambiato dal 2018 (anno di entrata in vigore del GDPR), ma invece di smantellare le tutele, le si integra in un ecosistema dove l'AI è ormai l'attore protagonista.​


Considerando la natura del pacchetto "Digital Omnibus" e i ritmi elefantiaci delle istituzioni di Bruxelles, possiamo tracciare una cronologia estremamente realistica del suo iter. È fondamentale ribadire che l'Omnibus non nasce per "rilassare" le maglie della sorveglianza digitale — un'illusione che forse qualcuno a Washington coltiva — ma per consolidarle. Poiché si limita a organizzare regolamenti già esistenti in un corpo unico e coerente, non affronta i temi divisivi che solitamente paralizzano i triloghi, il che dovrebbe garantirgli un percorso privo di imboscate politiche, ma non per questo rapido.​

Ecco la proiezione temporale basata sulle procedure legislative standard dell'Unione:

  • Marzo 2026: Chiusura della consultazione pubblica e analisi dei feedback tecnici da parte della Commissione.​
  • Fine 2026: Discussione e approvazione formale da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio. Trattandosi di un testo di "riordino" e non di rottura, è probabile che i tempi morti siano ridotti al minimo.​
  • Inizio 2027: Pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea (GUUE).
  • 2027 - 2028: Periodo di "vacatio legis" o transizione. Come già accaduto per il GDPR e l'AI Act, verrà concesso un periodo di grazia di 18-24 mesi per permettere a imprese e autorità nazionali di adeguarsi al nuovo quadro unico.​
  • 2029: Piena applicazione del regolamento consolidato.

Il paradosso tattico è servito: mentre l'amministrazione Trump urla e minaccia sanzioni immediate, la UE risponde con un cronoprogramma che sposta la vera "messa a terra" normativa ben oltre la fine dell'attuale mandato presidenziale americano.​

L'Omnibus non sta indietreggiando; sta semplicemente trasformando una serie di avamposti legislativi isolati in una fortezza integrata. Per quando gli USA avranno finito di preparare i loro dazi punitivi, si troveranno davanti a un blocco normativo talmente compatto che ogni tentativo di scardinarlo richiederà sforzi diplomatici e legali decennali. In questa guerra di nervi, la lentezza europea non è un malfunzionamento, ma un'arma di difesa passiva di efficacia letale.


Incrociando queste tempistiche con le necessità vitali dei giganti OTT (Over-The-Top) che hanno scommesso su Trump, emerge chiaramente perché la "lentezza" europea sia, nei fatti, un’arma di distruzione di massa per i loro business plan. Per colossi come X, Meta o le aziende di AI della Silicon Valley, il tempo non è una variabile indipendente: è il parametro che decide la sopravvivenza dei loro modelli economici, attualmente sorretti da una bolla speculativa che non può permettersi attese pluriennali.​

Il contrasto tra le esigenze dei "tech-bros" e la realtà burocratica europea crea una morsa insostenibile:

  • Il ciclo della bolla vs il ciclo della GUUE: Mentre le aziende che sostengono Trump hanno bisogno di rimuovere ostacoli normativi (come i limiti dell'AI Act o i vincoli del GDPR) entro i prossimi 6-12 mesi per giustificare valutazioni di borsa ipertrofiche, la UE ha appena blindato un percorso che non vedrà cambiamenti sostanziali prima del 2029.​
  • L'incertezza come costo: Per un investitore, non c'è nulla di peggio di un quadro normativo che rimane "congelato" in una fase di riordino. Sapere che l'Omnibus consoliderà le regole attuali invece di smantellarle significa, per le Big Tech, dover accantonare miliardi di euro in fondi rischi per i prossimi quattro anni, proprio quando avrebbero bisogno di quella liquidità per vincere la corsa all'intelligenza artificiale.​
  • L'inefficacia delle minacce: La frustrazione politica a Mar-a-Lago è palpabile. Trump può minacciare dazi o ban sui visti, ma queste azioni non hanno il potere legale di abrogare un regolamento europeo già in vigore. La UE non ha bisogno di rispondere con la stessa moneta; le basta indicare i manuali di procedura e dire: "Ne riparliamo dopo la consultazione del 2027".​

Questa asimmetria temporale trasforma il ruggito di Trump in un rumore di fondo che la Commissione Europea ignora con aristocratico distacco. Mentre il Presidente americano strilla sui social promettendo ritorsioni immediate, i burocrati di Bruxelles rispondono aggiornando i calendari delle commissioni tecniche. Per le aziende OTT, questa indifferenza è più dannosa di una sanzione: è la dimostrazione che il loro potere, per quanto immenso, si infrange contro la resilienza di un sistema legale che non riconosce l'urgenza dei loro profitti trimestrali. È la vittoria della tartaruga burocratica sulla lepre speculativa, una lezione di sovranità digitale che i "filo-MAGA" nostrani faticano persino a comprendere.


Questa è la vera trappola in cui è caduta l'amministrazione Trump, ed è qui che la "sovranità digitale" europea rivela la sua natura di fortezza inespugnabile. I leader dell'Unione sanno perfettamente che il tallone d'Achille del sistema europeo è il potere di veto dei "cavalli di Troia" come Orbán o Fico, capaci di paralizzare qualsiasi nuova iniziativa grazie al meccanismo dell'unanimità. Ma questo rischio sussiste solo quando la UE vuole fare qualcosa; quando l'obiettivo è l'immobilismo, la struttura comunitaria diventa una macchina da guerra perfetta.​

Il paradosso è squisitamente politico: oggi è Trump, spinto dal "vapor-money" degli oligarchi tecnologici, a implorare che la UE si muova e smantelli i suoi regolamenti. Ma per dire di no, la leadership di Bruxelles non deve compiere alcuno sforzo diplomatico, né cercare faticosi consensi che darebbero potere contrattuale ai gregari del MAGA in Europa. Le basta semplicemente essere se stessa: una macchina burocratica programmata per la stasi.​

Le tempistiche di questa "resistenza passiva" sono letali per gli interessi americani:

  • L'illusione del cambiamento: Se anche si iniziasse oggi a discutere una riforma per "compiacere" Washington, l'iter del Digital Omnibus ci insegna che non vedremmo un testo definitivo prima del 2027.​
  • L'orizzonte del 2029: Con i tempi medi di recepimento e le clausole di salvaguardia, qualsiasi modifica sostanziale diventerebbe operativa solo nel 2029, quando l'attuale mandato di Trump sarà ormai ai titoli di coda.​
  • Il muro del 2032: Qualora nel 2029 si decidesse di avviare una ulteriore riforma per venire incontro alle esigenze dei colossi OTT, la sua effettiva entrata in vigore scivolerebbe inevitabilmente verso il 2032.

Per gli oligarchi della Silicon Valley, che vivono di trimestrali e bolle speculative alimentate da promesse di deregolamentazione immediata, questo orizzonte temporale equivale all'eternità. Trump può continuare a strillare e minacciare sanzioni, ma si trova davanti a un avversario che ha fatto della lentezza una virtù cardinale. La UE non ha bisogno di opporsi apertamente; le basta far accomodare le richieste americane nella sala d'attesa della storia, sapendo bene che prima di arrivare allo sportello, il "vapor-money" che oggi alimenta questa guerra fredda digitale si sarà probabilmente già dissolto.​


Questa è la sfumatura più sottile e, se vogliamo, politicamente geniale di tutta la vicenda: la capacità della leadership europea di trasformare un limite strutturale — la propria cronica lentezza — in una postura di fiero e unitario orgoglio geopolitico. Nessuno a Bruxelles avrà mai l'onestà di ammettere davanti a un emissario di Trump: "Siamo un pachiderma talmente impacciato che, anche volendo, non riusciremmo a darti ciò che chiedi prima del prossimo decennio". Al contrario, quella stessa inerzia viene confezionata e rivenduta come un "no" secco, una prova di fermezza sovrana contro l'imperialismo digitale americano.​

Questa narrazione permette alla UE di ottenere due risultati con un unico sforzo (che, ironia della sorte, consiste nel non farne alcuno):

  • Il prestigio della resistenza: Presentando la lungaggine burocratica come una scelta politica deliberata, i leader europei possono incassare il consenso dell'opinione pubblica interna, stanca dello strapotere delle Big Tech, fingendo di essere i guardiani di una muraglia d'acciaio che in realtà è fatta di sola carta e timbri.​
  • L'alibi perfetto: Quando i negoziatori americani premono per ottenere deroghe urgenti all'AI Act o al GDPR, Bruxelles può rispondere con un serafico "non possiamo, il processo legislativo è sovrano e richiede i suoi tempi", nascondendo dietro la sacralità delle procedure l'impossibilità tecnica di agire con la rapidità richiesta dai mercati.​

È la messa in scena di una "ferma opposizione" che non costa nulla. Mentre i giornali italiani, proni alla narrativa MAGA, descrivono un'Europa assediata e tremante, la realtà è che i burocrati europei non sono mai stati così sereni. Sanno che la loro difesa migliore è continuare a girare lentamente i pollici, sorridendo alle telecamere mentre dicono "no" in nome dei valori europei, consapevoli che il tempo è un lusso che loro possiedono in abbondanza, a differenza degli oligarchi d'oltreoceano. In questa commedia delle parti, la lentezza non è più un difetto di fabbrica, ma il travestimento perfetto per una sovranità che si esercita semplicemente lasciando che il tempo scada.


A questo si aggiungono le motivazioni politiche. Ormai la popolazione europea ha fatto dell'opposizione agli OTT americani, specialmente Elon Musk, quasi un tratto identitario.

Per la UE, fare del male a Elon Musk e' una fonte di consensi facili. Se la multa inflitta ad Elon Musk fosse dieci volte piu' grande dei 120 milioni, o addirittura cento volte, l'opinione pubblica europea continuerebbe a dire che non e' abbastanza alta.

In questa condizione:

  • la EU si trova a nuotare nelle sue acque preferite, cioe' nell'arte dell'immobilismo burocratico. Ma poiche' questo rattrista gli americani, ne riceve consenso.
  • Gli americani non possono utilizzare i soliti sabotatori slavi per bloccare i processi EU mettendo il veto, perche' i processi lentissimi, diciamo bloccati, sono proprio il problema.

In questo senso, la loro restrizione e' papabile, e la decisione di colpire dei politici europei come ha fatto Trump, mostra proprio quanto si sentano impotenti.

La situazione e' , diciamolo, ridicola.