Il significato di Trump

Si dice che quando tutto ciò che hai in mano è un martello, ogni cosa ti appare inevitabilmente come un chiodo. Allo stesso modo, in Italia, quando tutto ciò che conosci è un fascismo in edizione limitata — quello sgangherato dei vent’anni mussoliniani, o la comparsata farsesca di Berlusconi col suo teatrino da cabaret — allora sei condannato a interpretare ogni scontro politico come se fosse una replica dei girotondi o una sagra di bandiere rosse al ritmo stonato di Bella Ciao.
Peccato che la realtà sia un po’ più complessa, e soprattutto molto diversa.
Prendiamo l’America. Là la polarizzazione non ha la forma del catechismo cattolico: non è il solito “o con Dio o con Satana”, bianco o nero, salvezza o peccato mortale. Negli Stati Uniti capita che uno stia con Dio, ma non disdegni le tentazioni di Satana. È un gioco più sfumato, un pendolo che oscilla con naturalezza tra due estremi senza farsi venire gli scrupoli morali che piacciono tanto al clero politico nostrano.
E qui è bene mettere i puntini sulle i. Cosa che sembra ovvia a chiunque abbia letto almeno un giornale, tranne a chi non vuole capire: gli americani possono dividersi tra repubblicani e democratici, certo; possono azzuffarsi per simboli, bandierine e slogan. Ma quando si parla di Trump, le cose cambiano: lui incarna un insieme di idee che, piaccia o no, sono condivise da tutti o quasi.
Il paradosso è proprio questo. Quello che davvero divide l’America non sono i contenuti, ma le forme di associazione: i club, i comitati, i partiti. La scenografia della politica, non il copione. E così accade che, mentre in Europa lo si descrive con la solita etichetta preconfezionata — “divisivo” — Trump, in realtà, porta avanti un set di idee che hanno la funzione opposta: uniscono il paese sotto una sorta di comun denominatore che la stampa europea non riesce, o non vuole, ammettere.
Alcuni americani militano nei repubblicani, altri militano nei democratici, ma TUTTI, o quasi, hanno le idee di Trump.
Prendiamo, per esempio, l’eccezionalismo americano. È quella convinzione infantile — ma rivestita da solenni discorsi e manuali di geopolitica — di essere, come popolo e come nazione, al di sopra del normale giudizio della storia, e perfino della morale. Una sorta di immunità diplomatica applicata alla coscienza. Così, se le bombe al napalm sui villaggi sono cattive, quelle sganciate a stelle e strisce diventano improvvisamente buone. Se il genocidio è universalmente riprovevole, ma quello degli indiani d’America diventa una simpatica “espansione verso Ovest”. Se le armi di distruzione di massa sono il Male Assoluto, scopriamo che le atomiche su Hiroshima e Nagasaki si trasformano in atti di “necessità storica”. Una partita truccata, insomma, dove l’arbitro coincide con il giocatore.
Seguendo il filo dell’eccezionalismo ci si accorge che non è un’invenzione americana, ma una vecchia abitudine umana. Lo troviamo nei discorsi di Himmler alle SS, quando rivendicava per la “razza eletta” il diritto di riscrivere la storia col sangue degli altri. Lo troviamo in Israele, con il suo eccezionalismo ebraico per cui il mantra “muh la Shoah” diventa il lasciapassare universale per qualsiasi azione politica o militare, mentre chiunque osi criticare finisce relegato al rango di goyim, cioè spettatore irrilevante della Storia.
Ogni genocidio, a ben guardare, ha sempre avuto dietro il proprio eccezionalismo di riferimento: l’idea che “noi” siamo unici, indispensabili, giustificati, mentre “gli altri” non contano abbastanza da meritare diritti, memoria o pietà. È il carburante ideologico che alimenta i massacri e li rende non solo possibili, ma addirittura presentabili.
Quello che Trump spaccia con lo slogan “America First” non è altro che eccezionalismo travestito da buonsenso economico. Non si capisce, infatti, per quale ragione egli debba avere il diritto — a colpi di dazi — di pretendere che le aziende europee, o cinesi, o indiane, trasferiscano la produzione negli Stati Uniti, creando lavoro in Ohio o in Pennsylvania, ma cancellando quello di migliaia di operai sul posto. La logica è sempre la stessa: il lavoro americano vale più del lavoro di chiunque altro, perché loro sono “eccezionali”, giusto?
E qui viene il bello: se provate a mettere in discussione questa logica, parlando sia con un repubblicano che con un democratico, scoprirete che le obiezioni non toccano mai il cuore del problema. Nessuno vi dirà che si tratta di una forma di sciovinismo imperialista, sbagliata in sé. No, quello è un tabù. L’unico piano di discussione ammesso è quello tecnico: funziona o non funziona? Porterà davvero più posti di lavoro in America? Danneggerà troppo i consumatori? È un approccio da contabili geopolitici: non si giudica la legittimità del principio, ma solo il rendimento della macchina.
Così, l’eccezionalismo rimane il dogma di fondo, accettato da tutti e sottratto al dibattito pubblico. Che a predicarlo sia Trump o un qualsiasi democratico in giacca e cravatta poco cambia: la fede nell’America “più uguale degli altri” resta intatta.
Cosa sto cercando di dire?
Sto cercando di dire che Trump non è un’anomalia, tantomeno un cigno nero. Non è l’evento imprevedibile che ribalta i paradigmi storici: al contrario, è il prodotto più tipico e riconoscibile della mentalità americana. Le sue idee non sono una sorpresa statistica, ma materiale riciclato: erano già lì, diffuse e metabolizzate da decenni, e attraversano indifferentemente l’elettorato repubblicano e quello democratico. L’unica differenza sta nella verniciatura politica, nella declinazione stilistica, ma la sostanza è condivisa da tutti.
E questo cosa significa?
Significa che il periodo storico “democratico” degli USA è finito. Quando un popolo assume l’eccezionalismo come dogma intoccabile, il passo verso la mentalità nazista è automatico. Non serve un cigno nero a spostare la traiettoria: la traiettoria era già segnata, e Trump non ha fatto altro che confermarla, renderla esplicita.
Bisogna dunque abituarsi all’idea che gli Stati Uniti abbiano già archiviato l’esperimento democratico. Non lo dichiarano ancora apertamente, ma la direzione è quella: presto smetteranno di recitare la commedia del pluralismo e ammetteranno senza troppi giri di parole di essere una dittatura. Naturalmente — perché l’eccezionalismo funziona come un marchio di fabbrica — sarà una dittatura “speciale”, diversa dalle altre, e quindi impossibile da giudicare con i normali criteri storici. Perché, come ripetono da sempre, le dittature fanno schifo… tranne quando la dittatura è la loro. In quel caso, ovviamente, diventa “eccezionale”.
Sara' una dittatura "buona". E magari anche "democratica".
Dato questo per assodato — e sarebbe anche ora di cominciare a farlo — bisogna chiedersi quanti altri paesi europei finiranno per seguire la stessa traiettoria. Perché l’eccezionalismo non è un vizio esclusivamente americano: è un veleno che circola anche dentro l’Unione Europea. Ogni paese, quando gli conviene, rivendica il diritto di “sospendere un attimo le regole comuni” perché la sua cultura, la sua storia o la sua economia sarebbero “eccezionali”. E quindi fuori dal confronto con gli altri. È sempre lo stesso giochetto: siamo unici, dunque ci autoassolviamo.
E non è certo una novità. Durante il ventennio fascista, i fascisti avevano un numero impressionante di fan in Europa. Mussolini, con la sua liturgia da adunata oceanica e il suo lessico da dopolavoro, riuscì a sedurre non solo italiani frustrati, ma intere élite straniere. In Francia, la simpatia verso il nazismo e il fascismo fu talmente radicata da permettere a Pétain e al regime di Vichy di collaborare senza troppi sensi di colpa con Hitler: non fu solo sottomissione militare, ma vera e propria consonanza ideologica.
Esempi? A destra e a manca pullulavano movimenti che scimmiottavano il fascismo: in Francia c’erano i Croix-de-Feu e l’Action Française, che sognavano uno Stato autoritario e corporativo; in Gran Bretagna sfilavano le camicie nere di Oswald Mosley con la British Union of Fascists; in Romania la Guardia di Ferro trasformava il culto religioso in fanatismo politico; in Ungheria nascevano le Croci Frecciate, che poi finirono a deportare e sterminare ebrei a fianco delle SS. In Spagna, Falange e franchismo portarono il fascismo a lunga durata.
Insomma, non era solo una moda italiana: il fascismo era un franchise europeo, adottato con entusiasmo da chiunque volesse sentirsi “eccezionale” rispetto ai noiosi principi democratici. E la Francia di Pétain ne è stata l’esempio lampante: un Paese che si racconta come patria dei diritti universali, ma che, alla prima occasione, si è sdraiato sull’ideologia nazista con un fervore che oggi preferisce dimenticare.
Il problema vero è che l’eccezionalismo, come idea, viene raramente messo a fuoco. I vecchi tromboni della filosofia europea continuano a chiamarlo “nazionalismo”, come se fosse la stessa minestra riscaldata, senza accorgersi che l’eccezionalismo spesso nasce in paesi che nazionalisti, in senso stretto, non lo sono affatto. Anzi, accade proprio nelle nazioni divise alla base, dove il popolo e la politica litigano su tutto, mentre ai vertici — nelle lobby, nei monopoli, nelle stanze del potere economico — regna un’unità compatta. E lì, in quell’alchimia perversa, si crea il terreno perfetto per l’eccezionalismo. Nessun bisogno di nazionalismo, nessuna marcia su Roma: basta l’idea che “noi siamo diversi dagli altri, quindi le regole non ci riguardano”.
Gli esempi non mancano. Ci sono eccezionalisti tedeschi convinti di vivere ancora nel Secondo Reich, non nel Terzo, come se Hindenburg fosse morto ieri e non quasi un secolo fa. Gente che costruisce castelli mentali sulla nostalgia imperiale e non si accorge che quella costruzione storica non esiste più. Ma questo poco importa: l’eccezionalismo è una droga potente, un allucinogeno che non ha bisogno di coerenza storica.
Ed è proprio qui che l’ottusità degli “intellettuali” diventa complicità. Continuando a ridurre tutto al vecchio “nazionalismo”, essi impediscono di vedere il problema vero e rendono la discesa verso forme di nazismo ancora più facile. Perché l’eccezionalismo ha un potere che il nazionalismo non ha mai avuto: è seduttivo.
Prendiamo Israele. Se aveste proposto agli ebrei di proclamarsi “razza ariana” e di predicare apertamente lo sterminio dei palestinesi, si sarebbe alzata più di una voce di dissenso. Ma se lo stesso discorso lo confezionate come eccezionalismo — dalla religione del “popolo eletto” al mantra “siamo figli della Shoah” — allora il cittadino medio lo beve senza fatica. Così, Israele può convincersi che il proprio comportamento non sia criticabile, al punto da rifiutare la Quarta Convenzione di Ginevra e di ignorare bellamente la Corte Penale Internazionale.
Ecco perché l’eccezionalismo è tanto pericoloso: non viene quasi mai riconosciuto come tale, né denunciato come un male in sé. Anzi, si traveste da privilegio, da giustificazione storica, da identità culturale. È zuccherato come un veleno che si scioglie nel caffè: lo bevi senza accorgertene, e quando te ne rendi conto è troppo tardi.
Questa caratteristica dell’eccezionalismo la si ritrova dappertutto, sempre mascherata con la salsa locale. I musulmani che dicono: “a noi i diritti umani fanno schifo perché siamo musulmani”. Bene: provate a dare fuoco a un imam con tutta la sua famiglia, e scoprirete all’istante quanto “disumani” siete davvero. L’eccezionalismo funziona così: finché toglie diritti degli altri, diventa un principio nobile; quando invece tocca il tuo orticello, si trasforma di colpo in un crimine imperdonabile.
Eooure, non si può usare la parola “disumano” senza accettare che esista un criterio di “umano” valido per tutti. Se l' Islam e' incompatibile coi diritti umani, perche' mai bruciare vivi islamici sarebbe "disumano"? L’eccezionalismo, per definizione, questo non lo ammette. Si presenta sempre come licenza speciale a infrangere le regole universali, pretendendo però che gli altri le rispettino. È il doppio standard elevato a religione politica, il vizio trasformato in virtù, la scappatoia eretta a sistema di governo.
E non riguarda certo solo il mondo islamico. In Russia si parla della “Terza Roma”: Mosca avrebbe una missione storica, unica e irripetibile, che le consentirebbe di fregarsene di qualsiasi regola internazionale perché, si sa, i russi “salvano la civiltà”. In Cina il vecchio “mandato celeste” è stato aggiornato in versione comunista: Pechino non opprime, realizza il proprio destino millenario, che guarda caso passa per campi di rieducazione, censura totale e capitalismo di Stato. In Israele il discorso è sempre lo stesso: popolo eletto, Shoah come lasciapassare, e ogni critica respinta come antisemitismo.
Ma l’Europa non è da meno. In Ungheria Orbán ripete ossessivamente che il suo paese è “diverso” perché cristiano e tradizionale, quindi non soggetto alle stesse regole democratiche che si applicano altrove: un’eccezione culturale, naturalmente. In Polonia il cattolicesimo diventa scudo identitario: loro difendono la “vera Europa”, quindi ogni intrusione di Bruxelles è un attentato alla civiltà. Risultato: leggi liberticide e censura giustificate come “peculiarità storiche” da rispettare.
Ed è proprio a questo punto che la domanda diventa inevitabile: con una diffusione così capillare dell’eccezionalismo, quanti paesi si trascinerà dietro il governo americano nel momento in cui ammetterà apertamente di essere una dittatura? Naturalmente, non una dittatura qualsiasi — quelle puzzano, sono brutte e cattive — ma una dittatura buona, nobilitata dal marchio “Made in USA”, e quindi sottratta a ogni confronto con i criteri normali della storia.
Se proprio vi ostinate ad avercela col “fascismo americano”, smettete di illudervi di combatterlo in America: iniziate piuttosto a combattere quello che avete in casa, dentro di voi. Perché nel momento stesso in cui pensate di appartenere a un paese “eccezionale”, siete già immersi fino ai capelli nello stesso brodo ideologico.
Quanto agli Stati Uniti, inutile sprecare fiato: potete tranquillamente darli per persi. La parabola è già scritta, e l’eccezionalismo li ha spinti troppo avanti sulla china per poter tornare indietro.
Non resta che guardare e imparare — o, più probabilmente, ripetere gli stessi errori con la solita aria convinta di essere “diversi”.

Oppure, siete liberi di votare il vostro dittatore preferito. Perche' sia chiaro, Donald Hussein e' un fascista, ammettiamolo, ma e' il vostro fascista.