Il problema dei "Normie" (was: Tua Moglie)

Il problema dei "Normie" (was: Tua Moglie)

Tutti coloro che hanno trascorso la vita immersi nell’Industriale, nel Metal, nel Goth — e magari con qualche inclinazione più “kink” del previsto — hanno, prima o poi, compiuto il proprio pellegrinaggio all’Antichrist Club di Londra. Era quasi un pellegrinaggio alla mecca, ma senza annusare le scoregge del tipo di fronte a te. Prima della Brexit era un gioco da ragazzi: un biglietto comprato online, un volo low cost e, per sentirsi prudenti, una stanza su Booking.com che fungesse da appoggio logistico.

La valigia, però, raccontava tutta un’altra storia. Non era mai un bagaglio neutro, mai un trolley “innocente”: dentro si annidavano oggetti che qualsiasi addetto alla sicurezza aeroportuale avrebbe classificato, nel migliore dei casi, come “interessanti”. Da qui la necessità di una doppia strategia: il bagaglio a mano, accuratamente “vanilla”, da mostrare senza timore ai controlli, e il bagaglio da imbarcare, che custodiva la vera essenza del viaggio. Un compromesso che sapeva quasi di cospirazione, come i samizdat passati sottobanco nell’URSS o i testi eretici trasportati in clandestinità nell’Europa della Controriforma. Non semplici valigie, ma reliquiari del proprio mondo interiore, protetti dall’anonimato delle ruote che cigolavano sui pavimenti degli aeroporti.

Una cosa era chiara fin dall’inizio, ed era anche il motivo per cui la valigia “vera” risultava inevitabilmente complicata: all’ingresso del locale campeggiava la scritta “no effort, no entrance”. Non era un vezzo, ma una regola ferrea. Chiunque avesse varcato quella soglia lo sapeva: senza un impegno concreto, senza un’estetica costruita e difesa con rigore, la porta restava chiusa. Per farsi un’idea basta dare un’occhiata alle FAQ del club, dove il dress code è descritto come un catechismo laico dell’underground.

FAQ — Club AntiChrist

Quella regola, in realtà, aveva una funzione precisa: tenere fuori i normie. Già, ma chi sono esattamente questi “normie”, e perché vanno esclusi come appestati? La risposta è antica quanto le sette misteriche: ogni comunità identitaria — che sia un club fetish londinese, una cerchia metal, una congrega gotica o perfino un collettivo femminista — vive della propria differenza. Il normie è il turista dell’identità: vuole il biglietto d’ingresso per potersi dire “frequentatore dell’Antichrist Club”, “metallaro per una sera”, “gotico a tempo determinato” o “transessuale di vetrina”. Non perché abbia realmente interiorizzato quei codici, ma perché brama un’etichetta da esibire, possibilmente senza rinunciare all’applauso della nonna, al sorriso rassicurato del paesello e, ovviamente, all’approvazione materna.

È un fenomeno antico: già nelle società segrete ottocentesche si parlava con disgusto dei “profani” che cercavano di infilarsi alle riunioni per potersi vantare in salotto di essere stati iniziati ai misteri. Oppure nei circoli dadaisti e surrealisti degli anni Venti, presto rovinati dai borghesi in cerca di eccentricità a buon mercato. Il normie è sempre lo stesso animale: entra, consuma l’esotico, lo sterilizza e infine lo restituisce al mercato come prodotto di massa.


Come potete ben immaginare, un posto come l’Antichrist Club non può permettersi di ospitare simili individui. E sia chiaro: ce n’è un esercito. Io stesso lo scoprii presto, già ai tempi del liceo. Arrivavo a scuola bardato come se fossi il quinto membro dei Mötley Crüe, tra il sarcasmo dei professori e lo sguardo smarrito dei compagni. Un giorno, notai una ragazza: carina, presentabile, il tipo che mia madre avrebbe accolto a braccia aperte se l’avessi portata a casa a pranzo la domenica. Nulla di strano, finché non vidi il suo dolcevita. Sul retro, ricamata all’uncinetto, troneggiava la scritta: Iron Maiden. Non sto scherzando. Non era un atto di ribellione, non era stile, non era metal: era solo un modo innocuo per non deludere mamma e, nello stesso tempo, provare a sembrare “alternativa”. Una normie perfetta.

E di normie così ce ne sono a bizzeffe. In ogni contesto. Prendiamo, ad esempio, le persone transessuali. Un tempo la traiettoria era chiara: iniziavi una terapia ormonale (HRT), intraprendevi un percorso irreversibile e diventavi, a tutti gli effetti, transessuale. Non c’era spazio per i tentennamenti, né per le mezze misure. Poi arrivano loro, i normie, sempre pronti a trasformare una condizione esistenziale in un accessorio da esibire nel curriculum della propria eccentricità.

E così, tra un esame universitario e l’altro, nasce il nuovo fenomeno: Antonio, che al UNI si presenta con due tette posticce ben visibili sotto il prendisole comprato al mercato, e con un filo di rossetto spalmato con mano tremante, e lotta per i diritti delle trans. Non perché desideri davvero attraversare il Rubicone della transizione, ma perché gli serve l’aura di “cool” e di “vittima” che la parola transessuale oggi garantisce sui social media. E infatti, sono proprio questi normie travestiti da rivoluzionari a urlare più forte di tutti nelle piazze digitali: loro, che non hanno mai rischiato davvero nulla, pontificano sul “passing non necessario”, trasformando ciò che era una scelta radicale e dolorosa in un travestimento da carnevale.

Ma no, il "passing privilege" non e' necessario per essere "trans". Dopo l' Uni, Antonio deve tornare al paesello, e li' lo menano forte se si fa vedere cosi'. Se non altro, Mamma.(che cerca la sua collana di perle, "sparita" da 5 anni).

La realtà, però, li attende al varco. Finito il college, il rossetto torna nel cassetto, il prendisole finisce nel sacco della Caritas e Antonio si rimette i pantaloni da lavoro. Torna al paesello, apre un’impresa edile o una ferramenta, e di colpo si dimentica di quella parentesi “trans”. Un déjà-vu storico: lo stesso meccanismo che vide gli studenti borghesi del ’68 trasformarsi in grigi notai e assessori democristiani dieci anni dopo. Ieri come oggi, i normie non vivono la differenza: la consumano, la diluiscono e la gettano via quando smette di fruttare consenso o applausi.

O la figa.(sic!)


Più o meno tutte le scene si sono organizzate, nel corso del tempo, per tenere i normie alla larga. Il filtro è parte integrante della sopravvivenza: dress code rigidi, linguaggi interni, rituali che scoraggiano chi cerca solo la foto ricordo. Ma c’è un’eccezione, e non da poco: le scene politicizzate.

Perché la politica, a differenza di una sottocultura, non cerca di vivere un ideale ma consenso (anche elettorale) verso un "movimento". Non vive di identità ma di numeri. E allora ecco che il normie diventa improvvisamente benvenuto, quasi coccolato: poco importa se la sua presenza genera incoerenza o ridicolo, l’importante è che faccia massa, che riempia le piazze o, oggi, le timeline. Anzi, meglio ancora se suscita polemiche o ilarità: ogni click è visibilità, ogni fraintendimento diventa propaganda. La “causa”, che a parole si presenta come trascendente e storica, in realtà si riduce a un calcolo spicciolo di voti, adesioni, follower.

È lo stesso meccanismo che già si vedeva nei partiti di massa del Novecento: movimenti nati da élite militanti si gonfiavano di reclute improvvisate, pronte a sbandierare simboli senza comprenderne il senso. Così i surrealisti finirono ridotti a carnevalata borghese, e i partiti rivoluzionari a macchine elettorali buone a inglobare persino chi, fino al giorno prima, incarnava l’esatto contrario dei loro ideali. La scena politicizzata non ha mai avuto anticorpi contro il normie, perché il normie porta ciò che la politica desidera più di ogni altra cosa: visibilità e volume.


E naturalmente, lo stesso discorso vale anche per il femminismo. Un movimento che un tempo aveva una sua carica dirompente, capace di mettere realmente in discussione i rapporti di potere, oggi si trova invaso da orde di donne normie più normie di così non si potrebbe. Hanno preso possesso delle assemblee, delle piazze, delle timeline, trasformando ciò che era lotta politica e riflessione teorica in una parodia inoffensiva, al livello di un Antonio qualsiasi col prendisole da mercato.

Anzi, a dirla tutta, la degenerazione è persino peggiore: per analogia, basti pensare a quell’influencer che, per un cosiddetto “esperimento sociale”, si è presentato travestito da transessuale. Fermiamoci un attimo: travestito da transessuale. La frase stessa è un ossimoro da manicomio. Se ha senso parlarne, vuol dire che la categoria è stata così diluita da diventare un costume di carnevale. Santiddio, se il transessuale diventa una maschera da provare per un weekend, significa che qualcosa è andato irrimediabilmente storto.

Ed è esattamente quello che accade quando i normie si appropriano di un movimento identitario: lo svuotano dall’interno, lo riducono a sketch comico, e alla fine lo consegnano all’immaginario mainstream come caricatura. La stessa parabola che trasformò il femminismo radicale degli anni Settanta — quello che ancora leggeva Simone de Beauvoir o Shulamith Firestone — nel femminismo da talk show, dove la massima ambizione è discutere di parità salariale davanti a un pubblico distratto che applaude a comando.


Ecco, vorrei sottolineare un punto che ormai è diventato grottesco. Avete presente la figura della ragazza che si dice “a pezzi”, “irrimediabilmente traumatizzata”, addirittura shockata per una battuta uscita dalla bocca di un operatore sanitario? La narrativa è sempre la stessa: una fragile fanciulla, virginale e innocente, vittima indifesa della violenza verbale del mondo.

Intendete dire questa fragile , virginale, fanciulla innocente qui?

Faccio notare che il cazzetto in testa sembra aggiunto con un software di editing di immagini, e nemmeno troppo sofisticato. Chi sia stato (non io) , lo ignoro.

È ovvio, a prima vista, che quella battuta dell’operatore sanitario le abbia compromesso per sempre la crescita, se non addirittura l’esistenza intera. Una donna distrutta, annientata, resa un relitto umano da un commento di corsia. Almeno, questa è la narrazione che ci viene servita.

L’iperbole vittimaria è talmente sfacciata da sembrare satire involontaria: la fragile eroina del web, demolita da un inciso, trasformata in simbolo della lotta contro le microaggressioni. Come se davvero una battuta potesse avere la forza devastante di una guerra, di una carestia, di una violenza subita sul serio. Qui non siamo più nel terreno della denuncia, ma in quello della farsa.

Il problema è che, nel mondo dei normie, questa messa in scena funziona. Non interessa se la “vittima” è palesemente in contraddizione con sé stessa, se un giorno recita la parte della guerriera senza paura e il giorno dopo quella della verginella offesa. L’importante è che la recita generi like, sostegno, indignazione prêt-à-porter. È la spettacolarizzazione del dolore in formato breve, ottimizzata per i social come un qualsiasi video di gattini.


E che dire della vicenda del gruppo "Mia Moglie", che non era nemmeno un gruppo chiuso? Scavando un pochino, noto questo:

L’infermiera che ha denunciato la pagina «Mia moglie»: «Mi è comparsa su Facebook la foto del seno di una donna e ho scoperto tutto»
Un’infermiera di 35 anni è la persona che ha reso pubblica la vicenda della pagina Facebook con quasi 32.000 iscritti nella quale molti uomini postavano foto intime delle proprie mogli, senza avere il loro consenso

Cioe', attenzione. Non erano nudi, ne' pornografia. Niente "foto intime", niente roba da scambisti, niente revenge porn. Il titolo, dove le compariva sul monitor "il seno" di una donna, e' bugiardo, visto che Facebook due tette non le tollera proprio.

Quindi era un gruppo aperto, niente di segreto, e come se non bastasse soggetto alle regole comunitarie di Facebook, che hanno bandito come pornografico persino un capolavoro di Michelangelo, e non tollerano capezzoli, pube, e nemmeno bikini troppo "troppo".

Le immagini, cioe', non solo non erano "intime" , non c'era nudo, e non c'era pornografia, e non erano roba da scambisti. Rispettavano i canoni di Facebook, che bloccano persino le scollature troppo pronunciate. Erano fotografie di donne in pubblico. Tutto qui.

Puritanesimo puro, conoscendo Facebook.

Al massimo, erano terribili i commenti, ma diciamolo: ancora ci scandalizziamo per i commenti di Facebook?

Ma poi, diciamolo chiaramente: la polizia postale non l'ha ascoltata:

NON C'E' NESSUNA DENUNCIA. LO HA DETTO ALL'AMICA FAMOSA, CHE HA FATTO SCOPPIARE IL CASO SUI GIORNALI. A BENEFICIO DELLE ALTRE NORMIE.


Perché questa proliferazione di casi-non-casi? La risposta è semplice: il mondo che un tempo era davvero femminista si è progressivamente riempito di normie. Donne normalissime, prive di particolari qualità, assolutamente ordinarie, che però per darsi un tono si proclamano “femministe”. Non cercano di comprendere o di elaborare una teoria, non affrontano la fatica di una lotta reale: si limitano a rivendicare l’etichetta, denunciando “abusi” a casaccio, spesso inconsistenti o inventati, per potersi fregiare del titolo di “io sono femminista”.

È il femminismo come distintivo da appuntare sulla giacca, non come progetto politico o esistenziale. E così, ciò che nasceva come movimento radicale si è trasformato in un carnevale di denunce-farsa, in cui il concetto stesso di abuso perde significato, ridotto a strumento retorico per ottenere attenzione. La retorica della “ferita” diventa un modo rapido per strappare applausi e conferme, senza alcuna sostanza dietro.

Un tempo queste figure avevano un nome meno elegante ma più onesto: attention whores. Persone che vivono per il riflettore, che esistono solo nello spazio dello sguardo altrui, e che piegano qualsiasi identità — dal goth al trans, dal militante al femminista — al bisogno infantile di sentirsi osservate. Con l’invasione dei normie, il femminismo non fa eccezione: anche qui, la differenza è stata smantellata, l’identità diluita, il tutto ridotto a farsa spettacolarizzata.


“È talmente diffuso il fenomeno dei normie che perfino una vecchia canzone dei Twisted Sister, We’re Not Gonna Take It, acquisisce uno strano “nuovo significato”. Il video e' stato rubato, peraltro, proprio da uno di quei normie, infiltratosi al festival di Sanremo o all’Eurovision: si presenta in scena, travestito ridicolmente, ricopia il video originale come se fosse un costume di Carnevale. Non è un travestimento intimidatorio, ma un'iniezione di cringe in formato pop. E' solo un normie che si sforza di imitare ”

Ogni riferimento ad un "poeta da strada" e' volutamente ... mavaffanculo chi se ne frega. E' gia' sparito dalla scena.


Ecco, sarebbe ora che "We're not gonna take it" sia l'inno di una generazione che di queste "normie" bigotte e petulanti ne ha pieni i coglioni. E' stata un inno della mia generazione negli anni '80, e onestamente sarebbe ora che tornasse in auge.

Perche' ce ne sarebbero piene le palle. Dee Snider , idolo eterno.

Ecco il testo, per i piu' raffinati:

We're not gonna take it
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymore

We've got the right to choose it
There ain't no way we'll lose it
This is our life, this is our song

We'll fight the powers that be, just
Don't pick our destiny 'cause
You don't know us, you don't belong

We're not gonna take it
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymore

Oh, you're so condescending
Your gall is never ending
We don't want nothin', not a thing from you

Your life is trite and jaded
Boring and confiscated
If that's your best, your best won't do

Whoa
WhoaWe're right (yeah)
We're free (yeah)
We'll fight (yeah)
You'll see (yeah)Whoa, whoa, we're not gonna take it
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymore

We're not gonna take it
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymoreNo wayWhoa
WhoaWe're right (yeah)
We're free (yeah)
We'll fight (yeah)
You'll see (yeah)We're not gonna take it
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymore

We're not gonna take it (no)
No, we ain't gonna take it
We're not gonna take it anymore

Just you try and make us

We're not gonna take it (come on)
No, we ain't gonna take it
(You're all worthless and weak)
We're not gonna take it anymore
(Now drop and give me twenty)

We're not gonna take it
(A pledge pin)
No, we ain't gonna take it
(On your uniform)
We're not gonna take it anymore