Il problema dei fighettismi.

L’Italia, miei cari, è travolta da una catastrofe sociale di proporzioni bibliche, un flagello che, udite udite, condivide solo con gli americani, campioni olimpionici dell’arte di darsi arie da stronzi raffinati. Non sto parlando di tutti gli anglosassoni, badate bene: la working class britannica, quei signori che si scolano una pinta di birra tiepida in un pub con la moquette macchiata, non ha tempo per queste cazzate da fighetti, e lo stesso vale per i contadini australiani, troppo impegnati a tosare pecore o a lottare con canguri incazzati per inseguire pose da salotto. No, il problema, signore e signori, è il fighettismo in tutta la sua gloria del cazzo. E che diavolo è, direte voi, questo “fighettismo”?

È la sublime, quasi poetica simulazione di gusti d’una raffinatezza esasperata, d’una sofisticazione da far impallidire un filosofo decadentista, con una pretesa di canonicità e classicismo che grida “aristocrazia” più forte di un ritratto di famiglia in una villa toscana. È la corsa disperata a sembrare nobili, come se sorseggiare un latte di mandorla bio a 9 euro in un locale con tavoli di legno grezzo riciclato o pavoneggiarsi con un orologio vintage da 12 mila euro, “perché è artigianale, sai”, potesse catapultarti dritto in un albero genealogico da dinastia sabauda.

Mi piacerebbe dire che questa storia riguarda il cibo – e con il cibo, si sa, si toccano vette d’esagerazione da Oscar – ma in realtà il fenomeno si estende anche alla tecnologia, campo in cui mi muovo. Avete mai assistito alle tragicomiche difficoltà nel vendere un lettore ePub? Avete mai ascoltato, rapiti dallo spettacolo, le scuse liriche che vengono snocciolate per non usarlo?

“Voglio sentire l’odore della carta”, “voglio toccare il libro con mano”, “il fascino del libro stampato non potrà mai essere eguagliato da un freddo dispositivo elettronico”. Pare quasi che stiano parlando di una vulva, e invece è solo cellulosa inchiostrata. Così, si beano di leggere pamphlet contro il disboscamento selvaggio, ma ovviamente su carta – guai a rinunciare all’estetica dell’albero morto.

Questo teatrino si ripete puntuale a ogni nuova tecnologia: nasce puntuale una nuova aristocrazia di tecnofighetti che la ripudia con fervore, sempre con qualche scusa pseudo-sibarita da ostentare, come se la loro ritrosia fosse prova di nobili natali.

Il vintage della mente. Si credono vintage, sono solo vecchi.


Ho menzionato il cibo prima, e qui siamo davvero al ridicolo. Non tanto per la consacrazione di piatti pop – quelli semplici da preparare, ma trattati come se fossero stati ideati dal cuoco personale di Luigi XIV – quanto per l’ipocrisia che trasuda da questi gourmet improvvisati. Sono quelli che sghignazzano alle spalle degli americani e del loro fast food, liquidandolo con il disprezzo del termine “trash food”, salvo poi precipitarsi la sera stessa a celebrare l’apericena.

Avete mai osservato, con occhio clinico, la meraviglia tossica che si consuma in un’apericena? In Italia, i bar non possono avere una vera cucina, quindi si approvvigionano di robaccia industriale precotta, pronta a essere scaldata – spesso nel sacro microonde. E così, in un trionfo di mediocrità, ci si ritrova a ingurgitare patatine e sottaceti dal barile della Metro, arachidi rancide, pizzette prefabbricate rianimate al microonde, pane stantio appena rinvigorito da un colpo di calore, toast e tramezzini nobilitati unicamente dalla loro geometria triangolare. Il tutto accompagnato da frittate unte a spicchi, olive di dubbia provenienza e fette di piadina riscaldate come se fossero una conquista gastronomica.

madeinitaly

Poi, con l’aria dei raffinati viveurs dell’italian style, si atteggiano a intenditori dopo aver ingurgitato quella cloaca gastronomica che loro stessi chiamano “aperitivo” o, peggio ancora, “apericena”. LAMMERDA.

Sarebbe decisamente più salutare e razionale farsi un salto al McDonald’s. MOLTO più salutare: almeno lì le porzioni sono controllate e il panino è piccolo (a patto, ovviamente, di non divorarne dodici in un colpo solo).

Eppure, dopo essersi pappati questa sbobba da discount, si sentono superiori al trash food americano. Un tripudio di snobismo alimentare, come se la loro dieta da aperibar fosse la summa dell’eccellenza.

Non voglio neanche menzionare lo spritz – il modo perfetto, per molti bar, di riciclare il vino stantio avanzato nelle bottiglie mezze vuote della sera prima. Ma, onestamente, se proprio dovete, bevetevi almeno una buona birra.

E prima che mi tiriate fuori la vostra micro-nano-femto-libreria di birre artigianali, prodotte con castagne abbrustolite a mano e fermentate in obici della Prima Guerra Mondiale, vi ricordo che le regole fondamentali della birra sono state scritte una volta, e una volta sola: la Legge sulla Purezza della Birra Tedesca (Reinheitsgebot), del 1516.

In termini dietologici e nutrizionali, l’aperitivo equivale a infilarsi nel culo il reattore di Chernobyl – e poi fare twerking per mescolare meglio. Eppure, eccoli lì, belli e tronfi, a pontificare su come gli stranieri non sappiano mangiare e come il loro cibo sia solo spazzatura.

E tutti a fare da coro, annuendo compiaciuti – perché, si sa, bisogna sempre annuire e poi snocciolare l’immancabile aneddoto di viaggio: “Sai, quella volta all’estero mi hanno servito una schifezza…”.

Già, come se la porcheria radioattiva che ti sei appena ingollato alla tua ultima apericena fosse la vetta del gusto e della raffinatezza.


A tutto questo, prima di tornare ai fighettismi tecnologici, aggiungiamo l’ennesima pretesa: la convinzione incrollabile di essere diventati sommelier. Dopo aver giocato a fare i virologi per tutta la pandemia, ora scopro che gli italiani sono tutti esperti di vini. Eppure, la maggior parte si scola certe brodaglie in polvere da cantina sociale che farebbero ridere persino i cartonati da discount.

E che diavolo sarebbe poi quel gesto teatrale di alzare il bicchiere e fissarlo controluce, come se stessero tentando una spettroscopia casalinga? Avete almeno idea dell’indice di rifrazione del vetro o dello spettro emesso dalla lampadina? No, non lo sapete. State semplicemente leggendo nella sfera di cristallo, come una seduta spiritica con l’etilometro.

E perché, di grazia, annusate il vino con quell’aria da alchimisti illuminati? Vi sfugge forse che contiene alcol, un anestetico potente che intorpidisce i vostri recettori olfattivi? Quelle sfumature e quei “sentori” che pretendete di cogliere, forse le percepirebbe un labrador, ma voi no. Sono quantità troppo piccole per il vostro naso, e troppo sommerse dall’alcol per emergere davvero.

A sostegno di queste osservazioni sarcastiche, c’è la fredda scure della scienza: studi come “An Examination of Judge Reliability at a Major U.S. Wine Competition” (Robert T. Hodgson, 2008) hanno dimostrato che solo il 10% dei giudici professionisti è in grado di replicare coerentemente le proprie valutazioni sullo stesso vino.

Ancora peggio, la ricerca “An Analysis of the Concordance Among 13 U.S. Wine Competitions” (Hodgson, 2009) ha rilevato che vini premiati con medaglie d’oro in una competizione non ottenevano neanche un riconoscimento in altre.

Infine, lo studio “Criteria for Accrediting Expert Wine Judges” (Hodgson & Jing Cao, 2013) ha proposto test di coerenza che la maggior parte dei giudici – esperti inclusi – ha clamorosamente fallito.

E come se non bastasse, “The Impact of Wine Tasters’ Expectations on Wine Quality Ratings and Willingness-to-Pay” (Philippe Masset & Steffen Raub, 2023) ha dimostrato che le valutazioni sono facilmente influenzate dalle aspettative – più dal prezzo e dalla fama che dal sapore stesso.

In breve: la mitologia del sommelier come infallibile sacerdote del vino è più vicina a un mito urbano che a una verità oggettiva. Ma tanto, basta il gesto del bicchiere controluce e un paio di chiacchiere da bar, e subito tutti ad annuire. Come sempre.

E se sono cialtroni i sommelier professionisti, figuriamoci quelli che fingono di esserlo.


Ma torniamo al tecnofighetto, quell’individuo che cerca disperatamente di assumere un’aria aristocratica ogni volta che una nuova tecnologia si affaccia sul mercato. Una figura tragicomica, il cui spirito altezzoso sembra emergere come un rigurgito ogniqualvolta il progresso bussa alla porta.

Potrei cominciare dal “ribrezzo per i computer come macchine fredde” che dilagava negli anni ’90, quando la massa li guardava come oggetti da cyborg in odor di eresia. Oggi, ovviamente, tutti ne hanno uno. Anche la nonna.

Poi c’è stato il delirio per il cellulare, “perché così siamo sempre reperibili!”, dicevano. E ora ci sono più cellulari che persone in Italia, e sono gli stessi moralisti del “non voglio essere sempre reperibile” a farsi selfie compulsivi in ogni angolo del globo.

E vogliamo parlare di quelli che pontificano che “meglio leggere un libro che stare su internet”? Certo, peccato che poi stiano lì a citare aforismi da Baci Perugina spacciandoli per Dostoevskij.

Infine, eccoci ai nuovi sacerdoti della purezza: quelli che, se usi l’intelligenza artificiale, fai schifo. Loro, sia chiaro, leggono solo tomi miniati da monaci benedettini, su pergamene di pecora del Peloponneso, a lume di candela, mentre intonano un salmo in latino arcaico.

E guai a sfiorare il loro dogma: perché il fascino dello scriba egiziano, lo capite bene, non finirà mai.


tocco di eleganza:

Onestamente, a volte, quando sono in ferie, vorrei solo riuscire a sopravvivere alle tavolate di amici senza dovermi incazzare di brutto. Senza dover subire l’ennesima apologia del cumulo di immondizia servito come aperitivo, senza dover fingere un orgasmo gastronomico davanti a una carbonara che, a ben vedere, è un piatto popolare e nulla più. Lo cucinavo a dieci anni quando i miei erano fuori e io tornavo a casa da scuola: perche' era una ricetta semplice da fare. Mi diceva in frigo c'e' quel che serve, se torni prima, fatti una carbonara. Non mi diceva “dai , se torni prima, un po' di Sartù di riso napoletano te lo fai in due secondi, che ci vuole? Se non ricordi la ricetta, due agnolotti del Plin e vinci facile”.

E no, nessuno di voi saprebbe distinguere il guanciale dalla normale pancetta se tagliata a cubetti cosi' piccoli che sarebbe meglio dire che e' polverizzata.

Non ho alcun desiderio di passare la serata a intonare lodi allo “stile italiano”, come se la grigliata di carne fosse un rito sacro e non un pasticcio su una piastra elettrica malandata. Né mi interessa contemplare la poesia di un vino che, alla fine dei conti, è solo vino: versato in una caraffa dal fondo piatto, come se bastasse quel gesto a nobilitarlo. E per inciso, anche se avvenissero reazioni di ossidazione, trattandosi di un liquido, avverrebbero solo nella microscopica superficie di contatto con l’aria – quindi finitela con i vostri teatrini da alchimisti della domenica.

E quando scrivo o leggo, lasciatemi in pace con le vostre menate formali. Non me ne frega un cazzo di discutere dell’estetica di un blog o di un articolo. Mi interessano i contenuti, le idee, le tesi e gli argomenti.

Se leggete qualcosa e l’unica cosa che vi interessa è definirla “xxxxxx-ismo” (sostituendo la x con la moda del momento), senza mai citare una riga del testo, senza neppure un argomento o una replica degna di questo nome, siete solo dei bifolchi presuntuosi.

Non mi importa nulla del vostro sdegno cosmico, mi interessa sapere cosa dice l’autore, quali sono le sue tesi e con quali argomenti le sostiene. Tutto il resto è rumore di fondo. Certo, la AI è appena arrivata e l’atteggiamento italiano è quello del fighettismo per eccellenza: spiegare per l’ennesima volta perché noi resteremo fedeli alla sapienza degli antichi e continueremo a fare esattamente come facevano i nostri nonni.

Ah, e già sento i vostri “ma i nonni!” alzarsi in coro. Bene, siamo nel 2025, mica nel Medioevo. Se non siete della mia generazione, ma più giovani, sappiate che i vostri nonni hanno fatto il ’68, e le vostre nonne hanno succhiato cazzi nei divanetti di qualche piccola discoteca. E sì, le torte le facevano anche loro, ma con la marijuana.

E se siete millennials o GenZ, le vostre “nonne” sono ormai un problema di smaltimento rifiuti, frutto dei tatuaggi lombari che si sono fatti sui lombi – sì, quei tatuaggi “risveglio kundalini” da esibire come fossero l’ultima frontiera della spiritualità. E non parliamo di pompe funebri , cremazione e silicone.

Eccovi l'antica sapienza delle nonne:

sapienza

Mi raccomando, sentitevi superiori agli americani e al loro cattivo gusto.

Quei cazzo di classicismi inutili con cui vi atteggiate a esperti dell’ANTICA arte e tradizione del cibo italiano, dell’ANTICA arte e tradizione del vino e dell’ANTICO modo di leggere, hanno rotto il cazzo.

Sono fighettismi, nel senso più puro e vergognoso del termine: pretese ridicole di sapere quello che non si sa, di conoscere ciò che non si conosce, di vivere “nel modo giusto”, antico, canonico e tradizionale.

Eleganza al mattino con scarpe nere lucide, tatuaggi sparsi ovunque su gente che si atteggia a raffinate dame del Settecento, e altre porcherie da far rimpiangere perfino il blog delle malvestite.


E infine, per chiudere in bellezza: in questo blog uso la AI per l’editing. Scrivo quel che voglio, come al solito, poi gli do una passata per eliminare errori, refusi e riscrivere in buona forma. Esattamente quello che si faceva ai tempi dei compiti in classe, tra brutta copia e bella copia.

Lo faccio perché mi fa risparmiare tempo. Punto.

Se invece preferite le tavolette d’argilla, perché Hammurabi era un fico e voi, ovviamente, sapete chi fosse Hammurabi, fate pure. Ma non qui.

I fighettismi hanno rotto i coglioni. Con o senza il sealing della bistecca.

Uriel Fanelli


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