Il libro di Matrix.
Alcune persone — e mi ci metto anch’io senza pudore — sono uscite dalla prima visione di Matrix con una domanda che, all’epoca, sembrava quasi inevitabile: «E se fosse vero? E, soprattutto, come potrei accorgermene?»
Era una riflessione semplice, quasi ingenua, ma centrava perfettamente il punto. Perché il problema vero di Matrix è che ha segnato uno spartiacque: da quel momento la fantascienza mainstream ha smesso di cercare ancoraggi nella realtà e ha imboccato con decisione la strada dello spettacolo puro. È diventata più estetica che concettuale, più “sistemica” che “politica”, più macchina narrativa che specchio deformante del presente.
Prendiamo una serie come Babylon 5, o anche Deep Space 9, entrambe figlie di un’epoca in cui la fantascienza pretendeva ancora di dire qualcosa sul mondo reale. Quando compaiono i Ferengi, lo stereotipo è dichiarato, quasi sfacciato: sono i Gordon Gekko dell’universo, la caricatura del capitalismo predatorio, un popolo costruito attorno al culto del profitto, della transazione e della negoziazione come religione civile. E qui scatta il gioco: guardando quei personaggi posso chiedermi chi rappresentino nel mio mondo, oggi, adesso. Posso domandarmi come riconoscerli: dalla venerazione quasi liturgica dell’affare in sé, dalla riduzione di ogni rapporto umano a scambio economico, dalla totale indifferenza etica. Insomma, i Ferengi li vediamo tutti i giorni — non servono le orecchie a ventaglio per notarli.
E lo stesso vale per Babylon 5. Anche lì le specie aliene sono parabole politiche, metafore travestite. Vedi i Centauri e ti chiedi subito in quale popolazione di colonizzatori, di imperialisti tronfi e nostalgici del loro antico splendore, li puoi ritrovare. Vedi i Narn e pensi alle nazioni schiacciate, private della propria identità, costrette a reinventarsi dopo secoli di occupazione.
È fantascienza, sì, ma non è mai “fuori” dalla realtà: è una trasposizione, una macchina allegorica. Ogni razza, ogni pianeta, ogni conflitto rimanda a qualcosa che esiste davvero.
E questo discorso vale persino per Star Trek TOS che, con tutti i suoi limiti tecnici e le sue ingenuità teatrali, aveva una volontà programmatica di parlare del presente. L’episodio del pianeta dove gli abitanti sono metà bianchi e metà neri è emblematico: un’allegoria talmente evidente che oggi appare fin troppo didascalica. Kirk dà per scontato che, essendo tutti “bicolori”, il problema del razzismo sia superato; poi scopre che l’odio ruota semplicemente attorno a quale lato del corpo sia bianco. È una lezione brutale, diretta, quasi infantile nella sua semplicità — e proprio per questo efficacissima:
Il razzismo, in fondo, non poggia su basi reali. È una costruzione, una dialettica comoda, un meccanismo mentale progettato per giustificare l’odio. Non nasce da differenze oggettive, ma dal bisogno — antico quanto l’uomo — di trovare qualcuno da disprezzare, qualcuno su cui proiettare frustrazioni, paure, fallimenti. È un sistema simbolico prima ancora che politico: basta cambiare un dettaglio arbitrario, come in quell’episodio di Star Trek, e il conflitto si riaccende identico, solo con nuovi colori. Il bersaglio è intercambiabile; l’ostilità, invece, è costante.
La struttura riconoscibile.
E a proposito di strutture riconoscibili, arriviamo finalmente a Matrix.
Qui il terreno cambia drasticamente. È abbastanza evidente — almeno a un primo livello — che Matrix parli dei mass media: sono loro i “media”, letteralmente ciò che si pone in mezzo tra noi e il mondo. Sono loro a costruire il paesaggio mentale che abitiamo, la realtà filtrata che crediamo di vedere, il contesto che ci viene servito già confezionato.
Fin qui tutto chiaro.
Il problema nasce quando proviamo a fare con Matrix lo stesso lavoro che facciamo con i Ferengi di Star Trek, o con i Centauri e i Narn di Babylon 5. Lì avevamo archetipi nitidi, quasi distillati: i Gordon Gekko dell’universo, l’imperialista borioso, il popolo oppresso che tenta di rialzarsi. E se posso permettermi di usare “Gordon Gekko” come chiave interpretativa è perché la connessione con la realtà umana è immediata, evidente, quasi didattica. Quelle specie sono specchi: deformanti, certo, ma specchi.
Matrix, invece, non offre questo livello di riconoscibilità. Non nel film, almeno.
Ti dà un sistema chiuso, un meccanismo astratto, un’idea totalizzante. Non c’è una razza aliena che incarna un vizio umano, non c’è un popolo che richiama un impero storico, non c’è il piacere quasi antropologico di dire “questi chi rappresentano?”. Non funziona così: Matrix rifiuta la ricerca di equivalenze semplici, non ti fornisce un bersaglio, non ti consegna un’etichetta pronta da appiccicare sul mondo reale.
Il risultato è che, rispetto alla fantascienza precedente, Matrix chiude il gioco invece di aprirlo: non ti invita a trasferire ciò che vedi nella realtà, ma ti costringe ad accettare una metafora unica e totale, dalla quale non esci con la stessa libertà interpretativa che avevi con le altre opere.
Certo, possiamo intuire che “The Matrix” sia una somma di cose: il sistema educativo, i mass media, l’industria musicale, i videogiochi, la pubblicità, la politica-spettacolo, la TV… tutto quello che concorre a costruire la nostra percezione del mondo, il nostro modo di giudicarlo, il nostro vocabolario emotivo. Perfetto.
Ma da qui nasce il problema: a chi si riferisce esattamente Matrix?
Perché una metafora funziona bene quando è focalizzata. Qui, invece, siamo di fronte a una nebulosa. Di chi stiamo parlando? Dei media tradizionali? Del sistema scolastico? Della cultura pop? Degli algoritmi dei social? Della musica che definisce generazioni? Della pubblicità che colonizza l’immaginario? Possiamo elencare migliaia di entità che partecipano alla costruzione della nostra gestalt, del nostro “mondo percepito”.
E allora chi, precisamente, devo sospettare di essere Matrix?
La domanda diventa ancora più scomoda quando provi a stabilire una gerarchia. È più “Matrix” il mass media o il sistema scolastico? È più “Matrix” l’educazione scolastica di base, o la televisione che crea personaggi a tavolino? È più “Matrix” un talk show che ti imbocca l’indignazione o un libro di testo che ti vende una narrazione ufficiale della storia?
E se davvero uno fosse “più Matrix” dell’altro, come lo misuri? Da cosa lo riconosci? Dal livello di controllo che esercita? Dalla penetrazione culturale? Dalla capacità di plasmare comportamenti? Dai danni che produce? E secondo chi?
Matrix non ti dà alcuna metrica. Non ti dice “questo è il vero responsabile”.
Tutto è parte del sistema e nulla è individuabile come il cuore del sistema.
E questa ambiguità, invece di aprire interpretazioni, le soffoca: rende la metafora così universale da non essere più analitica.
Sul piano dei personaggi, il problema diventa persino più pesante. Vale per il film e vale per il libro. Le differenze tra le due versioni sono molte, e significative: nel libro, ad esempio, Switch cambia sesso quando entra in Matrix. È un’idea intelligente e coerente, un modo quasi didascalico per spiegare la disforia di genere: se nel mondo digitale sei ciò che senti di essere e nella tua “minicasa Duracell” sei costretto in un corpo che non riconosci, allora è evidente dov’è il conflitto. Una metafora limpida, e credibile anche alla luce della biografia delle sorelle Wachowski — allora ancora “fratelli”.
Ma poi torniamo ai personaggi principali, e lì la metafora collassa.
Prendiamo gli Agenti: Smith, Brown, Jones. Chi diavolo rappresentano? A chi si riferisce quella figura impersonale e gelida? L’uniforme da contabili della CIA, l’aspetto da burocrati federali, suggeriscono un legame con apparati come FBI o CIA. Ma Matrix è descritto come un sistema superiore ai governi, qualcosa di totalizzante e impersonale, ben oltre il semplice “servizio segreto”. E quindi, chi sarebbero nel mondo reale? Chi dovrei riconoscere?
Se mi chiedi se ho incontrato dei Ferengi, ti rispondo subito: sì. Ne ho conosciuti quanti ne vuoi. Avidi, affaristi, bugiardi, sempre pronti a manipolare, completamente privi di morale: il modello è chiaro, l’archetipo funziona. E chi non ne ha mai conosciuti?
Ma se mi chiedi se ho mai incontrato “un agente del sistema”, chi stiamo cercando? Un poliziotto convinto di fare il suo dovere? Un funzionario di un servizio segreto che nemmeno sa per chi lavora davvero? Il “soldatino della CIA” che magari è solo un ragazzo dello Utah scappato da un villaggio mormone e vuole campare? Molta gente che serve le istituzioni non è malvagia, non è onnisciente, non è l’incarnazione di un meccanismo oppressivo: è solo parte di un ingranaggio, spesso senza capirlo. Gli Agenti, invece, non sono questo. Non rappresentano nulla di umano: non hanno biografia, non hanno motivazioni, non hanno etica né convenienze. E quindi non possiamo usarli come metafora sociale efficace.
E l’Architetto? Qui il discorso si fa ancora più nebuloso. Dal film non capiamo nemmeno se sia malvagio, benevolo, pragmatico o semplicemente annoiato dal proprio ruolo. A tratti sembra un burocrate cosmico, a tratti uno pseudo-sapiente che auspica un equilibrio, una pace, un ordine più stabile. Ma chi rappresenterebbe una figura così? Chi, nel mondo reale, ha una visione totale del sistema come se l’avesse creato?
Quale persona, quale istituzione, quale gruppo sociale avrebbe questa consapevolezza onnisciente? Nessuno.
Non esiste l’equivalente dell’Architetto nel mondo reale, perché nessuno controlla davvero tutto, nessuno capisce tutto, nessuno detiene l’intera mappa del potere. È un costrutto narrativo, non un’allegoria. Un simbolo vuoto, non un riferimento.
E qui sta il limite strutturale di Matrix: laddove la fantascienza tradizionale ti consegna figure riconoscibili e quindi analizzabili, Matrix ti offre archetipi che non rimandano a nulla di specifico. Personaggi che sembrano parlare del reale, ma senza darti alcuna chiave per collegarli al reale.
È una metafora che vuole essere universale e, proprio per questo, finisce per non rappresentare niente in modo chiaro.
Del resto, il film non e' come il libro, che pure ha scritto la Wachowsky sotto pseudonimo. La novelization fu scritta da Carrie-Anne Moss e Lana/Lilly Wachowski sotto pseudonimo ( poi rielaborata da uno scrittore ghost: Yvonne Navarro), e contiene parecchi dettagli che nel film vengono solo suggeriti o tagliati.
Una volta messi a confronto il film e la novelization ufficiale di Matrix, salta fuori un dettaglio interessante: il romanzo, a differenza del film, non si limita a tradurre la sceneggiatura in parole, ma apre spiragli, chiarisce motivazioni, aggiunge sfumature. La famosa storia di Switch, ad esempio — uomo nel mondo reale e donna in Matrix — non è l’unico caso in cui la versione scritta lascia intravedere ciò che il film ha smussato. Neo, nel libro, non è il predestinato carismatico che Hollywood pretende: è pieno di ansie, dubbi, momenti di panico. Trinity, invece, è più dura, più spigolosa, meno incline al romanticismo da blockbuster. Morpheus è meno un guru benevolo e più un fanatico ossessionato, disposto a sacrificare chiunque per la sua visione.
Gli Agenti non appaiono come i semplici burocrati digitali del film, ma come presenze quasi sovrannaturali, programmi predatori che fagocitano identità. L’addestramento di Neo è più lungo, più incerto, molto meno “scarico un programma e divento bravo”. Cypher viene raccontato come un uomo spezzato e lucidissimo, non come un cattivo da manuale. La struttura di Matrix — con le sue versioni precedenti e i suoi cicli di controllo — è accennata molto prima di quanto vedremo al cinema. Perfino la carneficina della lobby, coreografata nel film come balletto d’azione, nel libro è una sequenza cruda, fisica, sporca. E il finale non è l’incoronazione supereroistica della pellicola, ma qualcosa di più ambiguo, quasi inquieto, come se Neo non avesse affatto un potere illimitato.
In sintesi, la novelization non è un riflesso del film, ma il suo contrario: meno estetica e più psicologica, meno simbolo e più dettaglio, meno mito e più frattura. Mentre il film costruisce una parabola compatta, il libro lascia filtrare le crepe. E sono proprio quelle crepe a far capire quanto Matrix avrebbe potuto essere — e cosa è stato costretto a diventare.
Sembra una tautologia, lo so, ma il film Matrix stesso è… un pezzo di Matrix.
Non nel senso metafisico da adolescente complottista, ma nel senso più semplice e più inquietante: il film partecipa esattamente alla stessa dinamica che denuncia. È un prodotto industriale calibrato per non urtare nessuno, per non indicare nessun colpevole reale, per non attribuire a nessun potere umano un volto riconoscibile. È il “sistema” che critica, ma lo fa usando le sue stesse regole: spettacolo, astrazione, estetica pura e soprattutto neutralizzazione morale.
Il risultato è ironico: Matrix parla di una prigione che si mantiene invisibile proprio perché non ha un nemico identificabile — e il film applica la stessa logica alla sua narrazione. Ti parla del controllo, ma non ti dice chi controlla. Ti parla di inganno, ma non ti indica l’ingannatore. Ti parla di liberazione, ma non ti permette di sapere da chi esattamente ti stai liberando.
E così finisce per diventare ciò che descrive: un oggetto perfettamente levigato, assolutamente sicuro, politicamente innocuo, che gira a vuoto attorno a un’idea potente senza mai sporcarla con la realtà.
Un prodotto che denuncia la gabbia, ma non osa nemmeno graffiarla.
In questo senso, sì: Matrix è un pezzo di Matrix. E non c’è contraddizione.
Ma molto piu' nel film che nella novelization rimane un problema di fondo: Matrix non riesce a costruire uno spazio morale “relatable”, uno spazio che abbia un corrispettivo riconoscibile nel nostro mondo. Non capiamo davvero chi siano i “buoni” e chi siano i “cattivi” se li cerchiamo. Anzi, se possibile, nel libro questa ambiguità peggiora: i personaggi — che sullo schermo appaiono fichissimi — diventano molto meno presentabili una volta che li vediamo dall’interno.
Morpheus, ad esempio, smette di essere l’incarnazione zen della saggezza ribelle e diventa ciò che è: un fondamentalista religioso, quasi un predicatore MAGA che si è costruito da solo la sua profezia e ci crede al punto da sacrificare tutto e tutti per convalidarla. Neo, nel romanzo, è un Incel ribelle travestito da prescelto: impulsivo, immaturo, dominato da un complesso di inferiorità mascherato da “destino”. Praticamente, un Incel che sta per fare una strage in qualche scuola.
Ma ripeto, nel libro i personaggi sono decisamente umani e complessi, diciamo tridimensionali. Il film, invece, appare ripulito, come se non volesse infastidire nessuno. Sono tutti cool.
Il punto è che, se vogliamo riconoscere queste figure nella nostra società, nel film non abbiamo alcun appiglio. Nel libro possiamo dire: “ok, Morpheus assomiglia pericolosamente a quei telepredicatori americani ossessionati dalla fine dei tempi”. Ma questa lettura rimane confinata alla versione scritta. Perché il film è stato ripulito da qualsiasi riferimento immediato: nessun legame con settarismi religiosi, nessun rimando esplicito a ideologie, nessun parallelo diretto con figure facilmente identificabili.
E così, se non abbiamo letto il libro, passiamo due ore ad aspettarci che i “buoni” liberino il mondo dai “cattivi”, proprio come ci ha insegnato decenni di fantascienza. Il problema è che qui non sappiamo chi siano i buoni, non sappiamo chi siano i cattivi, non sappiamo nemmeno se esista davvero una distinzione tra buoni e cattivi. E soprattutto: non sapremmo riconoscerli se li vedessimo.
I ribelli? Parlano come rivoluzionari, ma non vediamo mai che cosa li motivi davvero se non un generico disgusto per “il sistema”. Gli Agenti? Non rappresentano nessuna figura reale che possiamo identificare: non sono poliziotti, non sono militari, non sono politici, non sono burocrati — sono programmi, ovvero “nessuno”. L’Architetto? Una divinità sterile che non assomiglia a niente e a nessuno nel nostro mondo. Un demiurgo senza equivalente umano.
E dunque Matrix fallisce dove la fantascienza classica brillava: non ci offre un codice morale trasferibile. Non ci permette di dire “questo è un Ferengi”, “questo è un Centauri”, “questo è un Cardassiano”. Non ci dà alcuna mappa etica da sovrapporre alla realtà. È un universo stilizzato ma non simbolico, spettacolare ma non filosofico, pieno di archetipi che non corrispondono a nulla.
Ed è per questo che lo spettatore, invece di riconoscere il mondo reale nella metafora, passa tutto il film a chiedersi chi stia guardando e perché debba tifare per loro.
E ribadisco: nella novelization i personaggi sono decisamente più umani, più complessi, più tridimensionali. Hanno motivazioni che si scontrano, contraddizioni, fragilità che li rendono riconoscibili. Nel libro Morpheus è un fanatico brillante e decisamente pericoloso; Neo è un fragile Incel che si aggrappa disperatamente all’idea di essere “speciale”; Trinity è un miscuglio di rabbia, trauma e lucidità, e decisamente una stronza. Non sono eroi: sono persone. E funzionano proprio perché sono persone.
Il film, invece, è un’altra cosa. Sembra ripulito, sterilizzato, come se avesse paura di infastidire qualcuno. Tutti gli spigoli sono stati smussati, tutte le complicazioni psicologiche evaporate. I personaggi diventano icone estetiche, silhouette che servono la coreografia e l’immaginario, non la coerenza interna. Morpheus perde la dimensione fanatica e diventa un maestro zen. Neo perde l’insicurezza, la rabbia, il senso di inadeguatezza, e diventa un predestinato elegante. Trinity si appiattisce in un misto di mistero e romanticismo hollywoodiano.
Il risultato è evidente: dove il libro costruisce esseri umani, il film costruisce action-figures. Figure efficaci, certo, magnetiche, ma prive di quell’ambiguità che rende un personaggio vero. Il film ha tagliato tutto ciò che poteva urtare, spiazzare o disturbare: religione, identità, dubbi profondi, fallimenti, debolezze. Ha tolto la parte che parla davvero all’essere umano per tenere solo la parte che colpisce l’occhio.
È il punto preciso in cui Matrix smette di essere un racconto sull’uomo e diventa un catalogo di simboli. E in quel passaggio, inevitabilmente, perde la sua tridimensionalità.
Certo, il problema viene dal fatto che normalmente leggiamo prima il libro che il film. Vediamo Dune ripulito dai machiavellismi dell'originale e ci chiediamo perche' mai ridurlo ad una specie di Star Wars, quando esiste gia' Star Wars. Abbiamo letto Fanteria dello Spazio e poi ci ritroviamo quella porcheria patapolitica dell' Innominabile olandese (Nomen tuum deleatur; historia tibi aversa sit; liberi liberorum tuorum numquam sciant te fuisse!!!) , e cosi' via.
L'era d'oro della fantascienza del resto e' un periodo di libri, al massimo fumetti. Poi, con le CGI sempre piu' sofisticate, sono arrivati i film.
E per via dei meccanismi di Hollywood, per massimizzare il numero di possibili clienti, vengono adesso "ripuliti", in modo che non sia mai possibile sapere a chi si riferiscano.
Sappiamo tutti che se vogliamo trovare dei Ferengi dobbiamo andare a Wall Street.
Ditemi dove possiamo trovare l' Oracolo del film, per favore.
Perché, dopo aver letto il libro, diventa chiarissimo chi sia davvero l’Oracolo. Non è una profetessa, non è una guida spirituale, non è una madre benevola. È ciò che oggi chiameremmo “l’Algoritmo” — sì, proprio quello dei social media: il sistema che analizza ogni tua scelta, prevede le successive, calibra il tuo comportamento, ti suggerisce ciò che è statisticamente più adatto a te e ti accompagna verso l’esito che mantiene stabile l’intero ecosistema.
Nel romanzo l’Oracolo fa esattamente questo: non ti libera, non ti risveglia, non ti indica la verità. Ti interpreta. Ti prevede. Ti indirizza.
È un motore predittivo travestito da persona.
E quando leggi quella versione non puoi più confonderla con la nonnina saggia del film: capisci immediatamente che è un precursore narrativo di quello che oggi riconosceremmo come il feed di TikTok, gli algoritmi di YouTube, la profilazione psicografica di Meta, la curva predittiva che decide che cosa vedrai, ascolterai, penserai.
Nel libro non c’è nessun misticismo.
C’è solo una macchina che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso.
Ed è per questo che, letta la versione originale, la metafora diventa lampante:
l’Oracolo è l’Algoritmo.
E una volta che lo vedi, non puoi più “smettere” di vederlo.
E capirete bene il problema.Certo, il problema nasce anche dal fatto che, in genere, leggiamo prima il libro e poi andiamo al cinema. Vediamo Dune ripulito di tutti i suoi intrighi politici, della sua densità da trattato antropologico, e ci chiediamo perché mai ridurlo a una specie di Star Wars — quando Star Wars esiste già, e fa quello mestiere meglio. Lo stesso meccanismo lo ritroviamo con Fanteria dello Spazio: leggiamo Heinlein, poi ci troviamo davanti quella patapolitica dell’Innominabile olandese (Nomen tuum deleatur; historia tibi aversa sit; liberi liberorum tuorum numquam sciant te fuisse!), e ci domandiamo chi gliel’abbia chiesto.
L’età dell’oro della fantascienza era fatta di libri, e al massimo di fumetti. Era un universo di parole, idee, ipotesi, allegorie dichiarate. Poi sono arrivate le CGI, e insieme a loro i film, e con i film l’inevitabile filtro hollywoodiano: massimizzare il pubblico, eliminare ogni riferimento troppo netto, togliere tutto ciò che potrebbe urtare un qualsiasi potenziale acquirente. Il risultato è che molti adattamenti contemporanei vengono sterilizzati. Non devono riferirsi a niente e a nessuno, perché altrimenti qualcuno potrebbe sentirsi chiamato in causa.
Lo schema è chiaro: sappiamo tutti dove trovare i Ferengi — basta farsi un giro a Wall Street o a Canary Wharf. Ma provate a dirmi dove dovremmo trovare l’Oracolo. L’Oracolo di Matrix, intendo.
In quale quartiere? In quale categoria sociale? In quale ruolo pubblico?
Chi rappresenta? Quale funzione del mondo reale incarna?
Ecco il punto. Se il modello non è rintracciabile, se la metafora non si può trasferire, allora Matrix smette di essere un’allegoria e diventa solo un’estetica. È bellissimo da guardare, certo. Ma non sappiamo più a chi corrispondano i suoi personaggi, non sappiamo più chi stia parlando di chi. E quando una storia smette di avere un ancoraggio nella realtà, smette anche di avere denti.
A quel punto capiamo bene qual è il vero problema.
Vi consiglio quindi di leggere con attenzione il libro da cui parte Matrix: The Matrix: A Novel, la novelization ufficiale scritta da Yvonne Navarro sulla base della sceneggiatura originaria delle Wachowski. Vi farà esattamente lo stesso effetto che avete quando credete di conoscere la storia di Blade Runner e poi vi mettete a leggere il romanzo originale, Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick.
Non sembrano nemmeno la stessa storia. E infatti non lo sono.
Nel caso di Matrix, però, la distanza è ancora più marcata: il libro è molto, molto più ricco del film. Più coraggioso, più sfaccettato, più onesto nella psicologia dei personaggi. E soprattutto vi dà una cosa che il film non vi darà mai: una geografia morale. Leggendolo, saprete esattamente dove trovare Morpheus, l’Oracolo, l’Architetto, Trinity, Cypher, Switch e tutto il resto del gruppo. Saprete riconoscerli nella vita reale, saprete a quale tipo umano corrispondono, saprete da dove vengono e perché fanno ciò che fanno.
E sì: a volte non vi piaceranno.
Ma almeno saprete chi sono — cosa che il film, per ragioni sue, non vi permette di capire nemmeno da lontano.
Perché, se leggete il libro, vi verrà un dubbio inevitabile.
Un dubbio che il film non permette nemmeno di formulare:
“Ma davvero la pillola rossa era la scelta migliore?”
E non parlo del cliché da meme. Parlo del dubbio serio, strutturale: la sensazione che, conoscendo davvero questi personaggi nella loro versione originale, forse non siano affatto le guide illuminate che il cinema ci ha venduto. Forse non rappresentano la verità, la liberazione, la consapevolezza. Forse rappresentano solo un altro sistema di credenze, un’altra narrazione salvifica, un’altra setta che promette rivelazioni definitive e in cambio ti chiede obbedienza cieca. La setta di Sion.
È un sospetto che nasce spontaneo leggendo il testo vero, non il film ripulito: la sensazione che la pillola rossa non apra la mente, ma semplicemente ti sposti da una prigione a un’altra. Ed è proprio questo che rende il libro così intrigante — e così disturbante.
Ed è proprio qui che si capisce perché non riusciamo a ritrovare i personaggi di Matrix nel mondo reale. Perché, con Matrix, il cinema americano di fantascienza entra definitivamente nell’era del “politicamente corretto” — non nel senso banale e da bar, ma nel senso industriale: non indicare nessuno, non accusare nessuno, non alludere a nessuno che esista davvero.
È tutto neutralizzato. Tutto sterilizzato.
Nel Film , Matrix è “male” perché inganna le persone e le trasforma in batterie, fine della storia. Non c’è una critica sociale reale dietro, non c’è un gruppo riconoscibile, non c’è una categoria umana che possa sentirsi chiamata in causa. Nessun Ferengi da individuare, nessun Centauri da riconoscere, nessuna razza aliena che funzioni da metafora.
È un male astratto, comodo, universale.
E quindi, inevitabilmente, innocuo.
Ecco perché nel film non ritroviamo nessuno: perché non c’è nessuno da ritrovare. Il sistema è una macchina senza volto, gli agenti non rimandano a niente, l’Architetto non rappresenta nulla, l’Oracolo non ha equivalenti. È fantascienza depoliticizzata, disinnescata, costruita per non far male a nessuno.
Leggetelo, il libro. Vi accorgerete che, lì dentro, quella sterilizzazione non c’è. I personaggi sono veri, riconoscibili, fastidiosi, e le implicazioni sono molto più pesanti.
È proprio nel confronto tra queste due versioni che si vede come è cambiata la fantascienza — e perché Matrix è stato il punto di svolta.
Cool before of important: nel film hanno sostituito ciò che conta con ciò che colpisce. Ti tengono occupato a inseguire il “cool”, così non hai più tempo né attenzione per ciò che è davvero importante.
Nel senso brutto del termine.