Il libro di Matrix.

Il libro di Matrix.
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Alcune persone — e non trovo motivo di sottrarmi — sono uscite dalla prima visione di Matrix con una domanda tanto ingenua quanto essenziale: «E se fosse vero? E, soprattutto, come potrei accorgermene?» Era un pensiero immediato, genuino, ma perfettamente al centro della questione. Matrix, infatti, ha segnato un cambio di rotta memorabile: da quel momento la fantascienza più diffusa ha preso la strada dello spettacolo puro, lasciando in secondo piano i legami con la realtà. Il genere si è fatto estetica prima che analisi, sistema narrativo più che confronto politico, una macchina immaginifica votata all’intrattenimento.

Prima di cominciare, devo fare ammenda. Qualche tempo fa, probabilmente ispirato alle interviste delle autrici e degli autori (in inglese , sono numerosissime), apparve un "Libro di Matrix" in rete, falsamente attribuito a Yvonne Navarro, autrice ben nota nel campo della fantascienza e dell'horror. Navarro ha scritto diverse novelizations di film famosi, tra cui “Species”, “Species II”, “Hellboy”, “Ultraviolet”, “Elektra”, e svariati romanzi dell’universo “Buffy the Vampire Slayer”. Ho scaricato il pdf anni fa, ma quando una persona del forum dei Dudi mi ha chiesto l'ISBN, ho scoperto che si trattava di un falso—una fanfic, non un testo ufficiale. Il motivo per cui ci sono cascato è che il contenuto ricalca moltissimo le tematiche e le discussioni apparse in decine di interviste alle Wachowski e agli interpreti di Matrix, che avevo letto in precedenza e dopo. Devo dunque fare ammenda pubblica: il libro non esiste, il suo contenuto sì, ma sparso in interviste vere, non in un volume ufficiale.

Riflettiamo sulle serie come Babylon 5 e Deep Space 9, figlie di una stagione in cui la fantascienza conservava il desiderio di interrogarsi con onestà sulle complessità del mondo reale. Quando i Ferengi compaiono in scena, il gioco degli archetipi è palese: rappresentano in maniera vivida la caricatura del capitalismo predatorio, sono il popolo del culto del profitto, dell’affare come religione, della negoziazione come modo di essere. Lo spettatore è invitato a riconoscere quelle stesse dinamiche nel quotidiano: la venerazione quasi rituale del guadagno, la trasformazione dei rapporti umani in mere transazioni economiche, la totale indifferenza verso l’etica. In effetti, i Ferengi del nostro tempo non sono distinguibili per le orecchie vistose, ma per certi modi di agire che vediamo ogni giorno attorno a noi.

Lo stesso discorso vale per Babylon 5, dove ogni specie aliena è una parabola politica, una metafora vivente. I Centauri evocano subito la memoria di popoli colonizzatori, chiusi nella loro nostalgia di antichi splendori e segnati dall’eleganza decadente dell’imperialismo. I Narn raffigurano le nazioni schiacciate, cariche di sofferenza, costrette dalla storia a reinventarsi. La fantascienza, qui, è costantemente trasposizione della realtà: ogni pianeta, ogni razza, ogni conflitto rimanda a esperienze umane tangibili.

Anche Star Trek TOS ci offre esempi lampanti. Pur con limiti tecnici evidenti e qualche ingenuità scenica, la serie aveva una chiara volontà di aprire un discorso sul presente. L’episodio del pianeta abitato da persone dal corpo meta' bianco e meta' nero è quasi didascalico: Kirk, convinto che la doppia colorazione renda il razzismo superato, scopre invece che la discriminazione dipende da quale lato del corpo sia nero o bianco. Una lezione dura e semplice, efficace proprio per la sua chiarezza:

Il razzismo, in fin dei conti, poggia su un terreno artificiale. È una costruzione mentale, uno schema architettato per giustificare l’odio e il conflitto. Non si fonda su differenze oggettive, ma nasce dal bisogno — antico quanto la storia umana — di individuare un bersaglio su cui riversare paure e insicurezze. È simbolismo puro, prima ancora che politica: basta un dettaglio arbitrario, come ci mostra Star Trek, e l’ostilità riemerge sempre identica, a prescindere dal colore o dal pretesto. L’avversario è intercambiabile, ma il meccanismo resta invariato.

Le strutture sociali sono riconoscibili.


E a proposito di strutture riconoscibili, arriviamo finalmente a Matrix. Qui il terreno cambia drasticamente. È evidente — almeno a un livello iniziale — che Matrix ruota attorno al tema dei mass media: sono proprio loro, i “media”, ciò che si frappone tra noi e la realtà. Sono loro a fornire, giorno dopo giorno, quell’impalcatura mentale che finiamo per abitare, quell’insieme di immagini e contesti confezionati e pronti per essere accettati come reale.

Fin qui il processo sembra trasparente. Il problema si pone quando cerchiamo di applicare a Matrix lo stesso metodo che funziona con i Ferengi di Star Trek, o con i Centauri e i Narn di Babylon 5. In quei casi abbiamo archetipi chiari, quasi scolpiti: il predatore finanziario, l’imperialista compiaciuto, il popolo oppresso che cerca di risollevarsi. Se si usa Gordon Gekko come chiave interpretativa è perché la connessione con la realtà è immediata, quasi didattica. Quei personaggi funzionano come specchi: deformanti, senz’altro, ma veri specchi del nostro quotidiano.

Matrix invece non concede questo grado di riconoscibilità. Non nel film, almeno. Offre un sistema chiuso, una struttura astratta, un’idea che si fa totalità. Qui non ci sono razze aliene che incarnano vizi umani distinti, né popoli che rimandano a eventi o imperi storici facilmente classificabili. Non c’è il piacere di chiedersi “questi chi rappresentano?”: Matrix respinge la ricerca di equivalenze semplici, non ti fornisce il bersaglio umano, non offre etichette facili. Qui il gioco non si apre, si chiude: non ti invita a trasporre ciò che vedi nella realtà, ma ti costringe ad accettare una metafora unica e totalizzante, una visione compatta che non si presta alle molteplici letture offerte dalle fantascienze precedenti.

Da questa chiusura nasce la tensione: Matrix è un dispositivo allegorico privo di equivalenze, un luogo che non ammette scorciatoie interpretative e che pretende la resa — anche intellettuale — di chi guarda.


Certo, possiamo intuire che “The Matrix” sia, più che una semplice metafora, una complessa sommatoria di fattori: dal sistema educativo ai mass media, dall’industria musicale ai videogiochi, dalla pubblicità alla politica-spettacolo, dalla televisione fino agli algoritmi che popolano i social. Tutto concorre, con modalità diverse, a costruire la percezione collettiva della realtà, plasmando criteri di giudizio, sensibilità, vocabolario emotivo e senso critico. Fin qui il quadro è chiaro, persino seducente per chi ama scavare nelle trame occulte della cultura pop.

Ma subito emerge il dilemma: a chi si riferisce esattamente Matrix? Quale soggetto assume davvero il ruolo di “controllore” o “costruttore del sistema”? La potenza di ogni metafora sta nella sua capacità di concentrare il significato, di indirizzare lo sguardo su un bersaglio preciso, offerendo al lettore un punto fermo — a volte confortevole, a volte inquietante — su cui esercitare la propria analisi. Matrix, invece, si presenta come una nebulosa: i possibili “responsabili” si moltiplicano a dismisura. Di chi stiamo parlando realmente? Dei media tradizionali? Della scuola? Dell’universo digitale? Della pubblicità invasiva? Dei meccanismi dell’entertainment? Si potrebbe stilare un elenco sterminato di entità che concorrono, ciascuna in modo peculiare, a edificare la nostra gestalt, la mappa percettiva del mondo.

Questo rende impossibile la caccia al colpevole. Quando si tenta di stabilire una gerarchia — chiedendosi se sia più “Matrix” il sistema mediatico o quello educativo, la tv generalista o i libri di testo, il talk show che fomenta indignazione o la narrazione storica vissuta sui banchi di scuola — ci si accorge che manca qualsiasi strumento per misurare, qualsiasi unità per quantificare o attribuire meriti e colpe. Come si riconosce ciò che è “più Matrix”? Dal grado di controllo esercitato? Dalla pervasività culturale? Dalla capacità di influenzare comportamenti? Dai danni prodotti? E secondo quali parametri, quali occhi, quale prospettiva?

Matrix non fornisce alcuna metrica. Non indica il vero responsabile, non lo nomina, non consegna una chiave analitica che permetta di separare e discernere. Tutto partecipa al sistema e nulla emerge come il suo autentico cuore pulsante. L’ambiguità che ne deriva, lungi dal moltiplicare le interpretazioni, le soffoca: la metafora diventa talmente universale da risultare sfuggente, incapace di restituire un bersaglio concreto, una linea di analisi netta e aguzza.


Sul piano dei personaggi, la questione diventa ancora più intricata e densa. Le scelte narrative nel film propongono una serie di figure dagli aspetti distinti, e il confronto tra queste presenze amplifica la sensazione di ambiguità. Prendiamo Switch, ad esempio: il suo profilo nel mondo digitale e quello nella realtà fisica evidenziano il tema identitario, offrendo un rimando diretto alle tensioni sulla percezione di sé. Il meccanismo è limpido, chiaro nella sua intenzione; la metafora funziona proprio per la sua connessione con esperienze biografiche e con il vissuto personale delle autrici.

Ma è tornando ai personaggi principali che la costruzione allegorica perde di efficacia. Osservando gli Agenti — Smith, Brown, Jones — ci si trova subito davanti a un enigma: chi rappresentano davvero? Il loro stile, le uniformi da impiegati federali, richiamano il mondo degli apparati istituzionali, suggerendo collegamenti con agenzie di intelligence o corpi speciali. Tuttavia, Matrix viene rappresentato come sistema totalizzante, una struttura superiore che trascende e ingloba ogni singolo governo o organizzazione. Chi dovremmo riconoscervi nella vita reale? Se la domanda riguarda i Ferengi, la risposta è immediata: hanno un archetipo chiaro, rappresentano il volto noto dell'affarismo, dell'avidità, dell'assenza di scrupoli.

Quando però la domanda coinvolge la figura dell'“agente del sistema”, tutto si complica. Stiamo alludendo a un poliziotto convinto di servire la giustizia? A un funzionario inconsapevole e impersonale del sistema di sicurezza nazionale? Un membro di un servizio segreto che ignora le vere finalità del suo operato? Spesso chi lavora nelle istituzioni non incarna una forza oppressiva, ma semplicemente fa parte di un meccanismo più vasto, raramente dotato di piena consapevolezza. Gli Agenti, invece, non sono figure umane: sono astrazioni senza passato né motivazioni, privi di etica e privi di scopi personali. E questo li rende impossibili da riconoscere come metafora sociale efficace.

Ancora più difficile è il caso dell’Architetto. Questo personaggio sfuggente non rivela mai se sia malvagio, pragmatico, annoiato, o semplicemente distaccato. A tratti è burocrate dello spazio virtuale, a tratti una sorta di filosofo freddo che teorizza equilibrio e stabilità. Ma quale essere reale, quale istituzione, quale gruppo sociale potrebbe somigliare a questa creatura onnisciente e distaccata? Nessuno. Non c’è alcun equivalente empirico nella società, nessuno che abbia la visione totale né il controllo assoluto. L’Architetto rimane un puro costrutto narrativo: un simbolo senza riferimento, un vertice teorico che non trova riscontro nel mondo reale.


E qui si svela il limite strutturale di Matrix: dove la fantascienza classica ti mette tra le mani personaggi e tipologie riconoscibili, Matrix propone archetipi sganciati da qualunque riferimento sociale concreto. I suoi personaggi sembrano lambire il reale ma non offrono mai una griglia interpretativa chiara che permetta di associarli a gruppi, istituzioni o forze specifiche. Il tentativo di creare una metafora universale si tramuta così in una rappresentazione che, pur toccando tutti, non rappresenta davvero nessuno in modo nitido.

In più occasioni le Wachowski hanno raccontato che la loro intenzione, sin dall’inizio, era di rendere Matrix una parabola sulla trasformazione, sulla ricerca di liberazione dalle categorie imposte, piuttosto che una metafora politicamente didascalica. Lo testimonia la storia del personaggio di Switch, che in origine avrebbe dovuto cambiare sesso tra il mondo reale e Matrix, ma che la Hollywood del 1999 non era disposta ad accettare. Lo stesso tema è stato ribadito in interviste recenti: “Sono felice che oggi sia chiaro il significato originario, ma allora il mondo non era pronto,” dichiara Lilly Wachowski.

Il risultato è un’opera dove i protagonisti sono volutamente più sfumati e ambigui rispetto alle aspettative da blockbuster: Neo vive di dubbi, esitazioni e momenti di fragilità, Trinity è aspra e pragmatica, Morpheus spesso ossessivo. Gli Agenti, invece, non corrispondono mai a vere figure umane: assomigliano a concetti predatori, programmi senz’anima guidati solo dalla funzione. E tutto questo viene sottolineato anche dalle dichiarazioni degli interpreti, come Keanu Reeves, che ha più volte riconosciuto come la profondità psicologica dei personaggi e il messaggio aperto della storia siano stati per lui fonte di interpretazioni sempre nuove.

Anche il finale, lontano dal canonico trionfo eroico, resta inquieto e ambiguo: la tanto agognata “liberazione” non si trasforma in una gioiosa apoteosi, ma lascia il protagonista – e lo spettatore – nel sospetto che la rottura delle catene non sia mai definitiva, e che il vero potere della storia consista proprio nella sua inconcludenza.

Riferimenti:


Sembra una tautologia, lo so, ma il film Matrix stesso è… un pezzo di Matrix.

Non nel senso metafisico da adolescente complottista, ma nel senso più semplice e più inquietante: il film partecipa esattamente alla stessa dinamica che denuncia. È un prodotto industriale calibrato per non urtare nessuno, per non indicare nessun colpevole reale, per non attribuire a nessun potere umano un volto riconoscibile. È il “sistema” che critica, ma lo fa usando le sue stesse regole: spettacolo, astrazione, estetica pura e soprattutto neutralizzazione morale.
Il risultato è ironico: Matrix parla di una prigione che si mantiene invisibile proprio perché non ha un nemico identificabile — e il film applica la stessa logica alla sua narrazione. Ti parla del controllo, ma non ti dice chi controlla. Ti parla di inganno, ma non ti indica l’ingannatore. Ti parla di liberazione, ma non ti permette di sapere da chi esattamente ti stai liberando.
E così finisce per diventare ciò che descrive: un oggetto perfettamente levigato, assolutamente sicuro, politicamente innocuo, che gira a vuoto attorno a un’idea potente senza mai sporcarla con la realtà.
Un prodotto che denuncia la gabbia, ma non osa nemmeno graffiarla.
In questo senso, sì: Matrix è un pezzo di Matrix. E non c’è contraddizione.

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Ma soprattutto nel film, rispetto a ogni possibile versione scritta, rimane un problema di fondo: Matrix non riesce a costruire uno spazio morale “relatable”, uno spazio con corrispettivi riconoscibili nel nostro mondo. Non è mai chiaro chi siano i “buoni” e chi siano i “cattivi”, e la narrazione evita appigli etici semplici. Se analizziamo i personaggi dall’interno — grazie a considerazioni delle autrici — emergono ambiguità profonde: Morpheus smette di essere un guru zen e appare come un fanatico capace di sacrificare tutto per la sua visione; Neo, spesso descritto da Lana e Lilly Wachowski come una figura dominata da dubbi, paure e senso di alienazione, non incarna quella forza eroica “classica” cara alla fantascienza tradizionale. Trinity, agli occhi di Keanu Reeves e delle autrici, mantiene un carattere spigoloso e distante dal romanticismo di facciata.

Il punto è che, se vogliamo riconoscere queste figure nella nostra società, la versione cinematografica non ci offre appigli. Nessun legame diretto con settarismi religiosi, nessun rimando esplicito a ideologie, nessun parallelo con archetipi sociali o politici facilmente identificabili. Gli Agenti non rappresentano poliziotti, politici, militari: sono semplicemente programmi, astrazioni prive di umanità. L’Architetto rimane il demiurgo sterile, senza equivalente umano o sociale.

Le Wachowski hanno più volte dichiarato che, consapevolmente, la volontà era quella di evitare la creazione di un codice morale trasferibile e di lasciare i personaggi come “contenitori di possibilità”, non simboli chiusi o etichette fisse. Matrix, dunque, non offre una mappa etica sovrapponibile alla realtà: è universo spettacolare, iconico, filosofico, ma non riconducibile a codici morali universali. Da qui nasce il senso di spaesamento che accompagna lo spettatore: per tutta la durata del film ci si domanda chi siano davvero i protagonisti e perché dovremmo “parteggiare” per loro.

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Nel film Matrix resta evidente un problema di fondo: la difficoltà nel costruire uno spazio morale riconoscibile e “relatable”, un luogo che ci consenta di identificare i protagonisti con figure del nostro mondo. I personaggi, nel racconto cinematografico, si presentano magnetici, esteticamente potenti, ma perdono gran parte delle loro ambiguità e complessità psicologiche. Morpheus, ad esempio, passa da fanatico brillante e pericoloso – come ammesso in varie analisi dagli stessi autori – a incarnazione zen della saggezza ribelle, figura ripulita e facilmente assimilabile a un mentore. Neo, anche secondo le testimonianze di Lana e Lilly Wachowski, conserva una fragilità di fondo e un senso di alienazione; tuttavia, nel film diventa “l’Eletto”, privato di dubbi, paure e insicurezze. Trinity, spesso descritta dagli interpreti come personaggio spigoloso e ferito, si trasforma sullo schermo in una icona misteriosa e romantica.

Tutto questo è stato confermato nelle interviste: le Wachowski hanno più volte raccontato di aver scelto consapevolmente di eliminare gli aspetti più disturbanti e controversi. Il risultato è che, dove il racconto potrebbe costruire esseri umani reali, il film preferisce figure mitiche, silhouette che servono la coreografia e il simbolismo visivo più che il percorso interiore. I lati oscuri, le debolezze e le contraddizioni spariscono; rimane solo la superficie iconica. Matrix, in questo modo, smette di essere un racconto sulle persone e diventa una parata di simboli; e nel distacco dalla realtà perde la sua tridimensionalità.

Non a caso, Lana Wachowski ha dichiarato che “Matrix non doveva essere una fiaba morale semplice, ma uno spazio aperto e stratificato, dove lo spettatore potesse scegliere da che parte stare o anche non scegliere affatto”. Keanu Reeves ha raccontato che il mistero morale dei personaggi, la loro impossibilità di rappresentare a scatola chiusa il “buono” o il “cattivo”, è proprio ciò che ha reso il lavoro sul film affascinante e impegnativo.

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Certo, il problema nasce dal meccanismo culturale per cui siamo abituati ad affrontare prima il romanzo e poi la sua versione cinematografica. Vediamo “Dune” ripulito dai suoi machiavellismi profondi e ci chiediamo perché ridurlo a una specie di Star Wars, quando Star Wars esiste già. Abbiamo letto “Fanteria dello Spazio” e poi ci ritroviamo quella porcheria patapolitica dell’Innominabile olandese (Nomen tuum deleatur; historia tibi aversa sit; liberi liberorum tuorum numquam sciant te fuisse!!!), e così via.


L’epoca d’oro della fantascienza è da sempre dominio della parola scritta: romanzi, al massimo fumetti. Poi, con l’arrivo delle CGI e delle logiche dell’industria cinematografica, le storie sono diventate film e, per massimizzare il pubblico, sono state “ripulite” da qualsiasi riferimento esplicito. Nei prodotti di Hollywood sappiamo che ogni allegoria troppo precisa viene spianata per non alienare nessuno.

È per questo che se vuoi trovare un Ferengi vai a Wall Street. Ma ditemi dove possiamo trovare l’Oracolo del film Matrix nel nostro mondo! Perché basta leggere le dichiarazioni delle autrici per capire che non è una profetessa, non è una guida spirituale, non è una madre benevola. Oggi la sua funzione è molto più vicina a quella che definiamo “algoritmo”: un sistema che osserva, interpreta, prevede, e ci indirizza non verso la verità, ma verso una stabilità funzionale. Come ha espresso Lilly Wachowski, “The Oracle doesn’t set you free, it interprets you. It’s a predictive engine masked as a person.”

Nel romanzo questa funzione è lampante: l’Oracolo non ti libera, ma ti interpreta. Ti prevede, ti indirizza. È un vero motore predittivo, un precursore narrativo dell’algoritmo di TikTok, YouTube, Meta, di tutti quei sistemi che modellano ciò che vediamo, ascoltiamo, pensiamo. Nessun misticismo, solo una macchina che ci conosce meglio di noi stessi.

Ed è proprio leggendo le dichiarazioni dell'autrice che la metafora diventa cristallina:

L’Oracolo corrisponde a quello che chiamiamo "l’Algoritmo".

E, una volta che lo riconosci, non puoi più smettere di vederlo.


La leadership di Neo e Morpheus in Matrix si struttura attorno a un paradigma che richiama le dinamiche tipiche di una setta: visione salvifica, autorità carismatica, dottrina rivelata e, soprattutto, richiesta di obbedienza assoluta. Morpheus non si limita ad essere un mentore; nel racconto emerge come un vero capo religioso, convinto di una profezia che dirige ogni sua azione e ogni scelta della crew. L’immagine del “chosen one” (Neo) serve a irrigidire ulteriormente la logica del gruppo: chi aderisce alla missione lo fa per fede, non per ragione.

La struttura del comando nella nave Nebuchadnezzar ricorda la gerarchia di una comunità iniziatica: chi è dentro viene chiamato a credere, a sospendere il dubbio, a rinunciare al pensiero critico in favore di una lettura “divina” del reale. Morpheus impone la sua visione in modo quasi totalitario: “Trust me”, ripete spesso nei dialoghi. Non argomenta, non negozia, non lascia scampo al dissenso. Questa dinamica è fortemente riconosciuta dagli studiosi di psicologia dei culti: la sospensione del pensiero critico e la fede nel leader.

Persino il percorso di Neo, che si trasforma da misfit a “Eletto”, ricalca i meccanismi della conversione mistica: crisi, rivelazione, nuova identità, separazione dal passato. La crew collabora all’indottrinamento, accoglie il nuovo arrivato quando è vulnerabile, lo trasforma in simbolo della salvezza.

Cypher, unico vero dissidente, viene dipinto come traditore e nemico. La sua ribellione non viene trattata come disillusione, ma come eresia: il gruppo si richiude su se stesso, e Morpheus non mostra alcuna apertura al dialogo. In questa struttura, Sion diventa il luogo della salvezza, la “setta perfetta”. Ma sotto la superficie, la missione stessa si sposta dal piano del reale a quello del culto: fede cieca, prassi rituale, autorità carismatica e conflitto interno risolto attraverso l’espulsione del dissenso.

Le interviste delle Wachowski confermano la volontà di indagare il tema della fede e della leadership carismatica. Morpheus non è guidato dal dubbio, ma da una visione indiscutibile e dogmatica. Neo, pur essendo destinato, viene manipolato e spinto a diventare la pedina centrale di questo sistema.

Questa lettura rivela il volto inquietante della resistenza: non ribelli, ma adepti. Non missionari della verità, ma custodi di una narrazione che ammette solo la fede e la sottomissione. Matrix, sotto la patina del blockbuster, mette in scena lo scontro tra sistemi di credenze: la macchina contro la setta, il controllo contro il dogma.

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English References:


Vi consiglio quindi di leggere con attenzione tutte le interviste delle autrici riguardo Matrix, e anche quelle di Keanu Reeves. Sembrano davvero parlare di storie diverse.

Perché, se le leggete, vi verrà un dubbio inevitabile. Un dubbio che il film non permette nemmeno di formulare:

“Ma davvero la pillola rossa era la scelta migliore?”


E non parlo del cliché da meme. Parlo del dubbio serio, strutturale: la sensazione che, conoscendo davvero questi personaggi, forse non siano affatto le guide illuminate che il cinema ci ha venduto. Forse non rappresentano la verità, la liberazione, la consapevolezza. Forse rappresentano solo un altro sistema di credenze, un’altra narrazione salvifica, un’altra setta che promette rivelazioni definitive e in cambio ti chiede obbedienza cieca. La setta di Sion.

Ed è proprio qui che si capisce perché non riusciamo a ritrovare i personaggi di Matrix nel mondo reale. Perché, con Matrix, il cinema americano di fantascienza entra definitivamente nell’era del “politicamente corretto” — non nel senso banale e da bar, ma nel senso industriale: non indicare nessuno, non accusare nessuno, non alludere a nessuno che esista davvero.

È tutto neutralizzato. Tutto sterilizzato.
Nel film, Matrix è “male” perché inganna le persone e le trasforma in batterie, fine della storia.(nello script del 1996, le macchine hanno inventato una misteriosa fusione nucleare, che pero' necessita di bootstrap, fornito dal calore degli umani) Non c’è una critica sociale reale dietro, non c’è un gruppo riconoscibile, non c’è una categoria umana che possa sentirsi chiamata in causa. Nessun Ferengi da individuare, nessun Centauri da riconoscere, nessuna razza aliena che funzioni da metafora.
È un male astratto, comodo, universale.

E quindi, inevitabilmente, innocuo.
Ecco perché nel film non ritroviamo nessuno: perché non c’è nessuno da ritrovare. Il sistema è una macchina senza volto, gli agenti non rimandano a niente, l’Architetto non rappresenta nulla, l’Oracolo non ha equivalenti. È fantascienza depoliticizzata, disinnescata, costruita per non far male a nessuno.

Cool before important: nel film hanno sostituito ciò che conta con ciò che colpisce. Ti tengono occupato a inseguire il “cool”, così non hai più tempo né attenzione per ciò che è davvero importante.
Nel senso brutto del termine.

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English References: