Il cinque per cento di stocazzo.
Il titolo potrà sembrare volgave e brvtale, ma in fondo riflette una realtà che non possiamo ignorare: tutta questa messinscena ha un solo scopo, ossia permettere a Donald Trump di proclamare l’ennesima delle sue “vittorie immaginarie”. Da mesi, infatti, l’ex presidente statunitense continua ad annunciare trionfalmente presunti accordi commerciali, in particolare sul fronte dei dazi, salvo poi essere smentito nel giro di 24 ore dalle controparti coinvolte, che negano categoricamente di aver mai firmato alcunché.
È un copione già visto, che si ripete con puntualità disarmante: l’annuncio roboante, il plauso dei fedelissimi, e infine il silenzio imbarazzato quando i fatti lo contraddicono. Ma concentriamoci ora sul famigerato “cinque per cento”, cifra che è diventata una sorta di mantra propagandistico. Innanzitutto, occorre chiarire un punto fondamentale: il celebre “cinque per cento” non compare in alcun trattato vincolante, ma soltanto nel comunicato finale del vertice, un documento politico e dichiarativo, privo di effetti giuridici obbligatori. In altre parole, non si tratta di un accordo internazionale formalmente ratificato secondo le procedure previste dal diritto internazionale o dalle costituzioni nazionali, ma di una generica dichiarazione d’intenti. Secondo la prassi consolidata della NATO, i comunicati finali esprimono la posizione comune dei membri ma non comportano automaticamente l'assunzione di obblighi giuridici stringenti. [Fonte: NATO Summit Communiqués – nato.int]
Non mi soffermerò sull'uscita folcloristica del premier spagnolo — che ha elegantemente glissato sulla questione, dicendo in sostanza “vedremo” — quanto piuttosto su un fatto sostanziale: se nella prossima legge finanziaria di uno Stato membro non dovesse comparire alcun incremento della spesa militare fino al fatidico 5%, non accadrebbe assolutamente nulla. Non scatterebbero sanzioni, non ci sarebbero procedimenti d’infrazione, né verrebbero attivati automatismi politici.
Siamo di fronte a una promessa, a un auspicio, a un “buon proposito” in perfetto stile diplomatico. Ma se qualcuno si aspetta di vedere quelle cifre comparire come per magia nei bilanci nazionali già dal prossimo anno, forse non ha ben presente la complessità – e i vincoli – della finanza pubblica.
Ma cosa significa davvero, per un governo europeo, parlare di “spesa”?
Tutto, alla fine, parte da lì: dalla legge di bilancio. È questo il vero cuore della politica economica di uno Stato. Il governo la redige, il Parlamento la discute e, salvo casi eccezionali, la approva. A volte si ricorre al voto di fiducia per blindarne il testo e impedire modifiche sostanziali; in altri casi si procede con l’iter ordinario. Ma una cosa è certa: se la legge non viene approvata, o si riscrive radicalmente, oppure il governo è costretto a dimettersi.
Dunque, se davvero si vuole inserire il famigerato 5% di spesa militare, il primo passo obbligato è scrivere quella cifra all’interno di una legge finanziaria. Ma non basta. Quella legge deve superare una serie di controlli costituzionali e istituzionali di grande rilievo.
Il primo filtro è il Presidente della Repubblica, che ha il compito di promulgare le leggi solo se conformi alla Costituzione. In particolare, l’articolo 81 della Costituzione italiana stabilisce che ogni nuova spesa deve essere coperta da entrate certe, e che lo Stato deve tendere al pareggio di bilancio (comma 1: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”). In caso contrario, il Capo dello Stato può rinviare la legge alle Camere per una nuova deliberazione, esercitando il cosiddetto potere di “rinvio presidenziale” (art. 74 Cost.).
Questo vincolo non è solo italiano. In Germania, ad esempio, la Grundgesetz (legge fondamentale tedesca) prevede il cosiddetto Schuldenbremse, il “freno al debito”, agli articoli 109 e 115, che impongono limiti molto rigidi alla possibilità per lo Stato federale e i Länder di finanziare spese in deficit. Sebbene i limiti siano stati allargati dal governo di Merz, siamo MOLTO lontani dal 5% del PIL.
Nel caso italiano, un aumento della spesa militare fino al 5% del PIL comporterebbe una copertura economica ingente: o si introducono nuove entrate (tasse, imposte, accise), oppure si effettuano tagli dolorosi in altri settori – sanità, scuola, pensioni, infrastrutture.
In secondo luogo, la legge di bilancio deve rispettare anche gli obblighi derivanti dai trattati europei, in particolare l’articolo 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che vieta disavanzi eccessivi, e i parametri del Patto di Stabilità e Crescita. A questi si aggiungono i regolamenti sulla governance economica dell’UE riformati nel 2024, e – sebbene in forma attenuata – le regole derivanti dal Fiscal Compact, che l’Italia ha recepito con la legge costituzionale n. 1/2012.
Insomma, prima ancora della propaganda, serve una legge finanziaria che rispetti i vincoli della Costituzione e dei trattati internazionali. Non si possono semplicemente inventare soldi per comprare carri armati, almeno in linea di principio.
Parliamo quindi della finanziaria 2026, alla fine del 2026.
Ma ipotizziamo pure che la legge di bilancio venga approvata così com’è, senza modifiche, e che comprenda effettivamente il famoso 5% destinato alla spesa per la difesa. Anche in questo caso, è bene chiarire una cosa: l’approvazione della legge non equivale alla sua automatica realizzazione. Le leggi, per essere efficaci, devono essere anche attuate. Non basta che un testo venga pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale per produrre effetti concreti: qualcuno deve darvi esecuzione.
E qui entra in gioco il cosiddetto potere esecutivo, che – come suggerisce il nome – ha il compito di “eseguire” quanto stabilito dal potere legislativo. Questo potere è esercitato dal Governo, e in particolare dai suoi organi operativi: i ministeri. In questo caso, la palla passerebbe al Ministero della Difesa, che riceverebbe le risorse previste in bilancio sotto forma di stanziamenti di competenza.
Attenzione, però: lo stanziamento non implica un trasferimento immediato di denaro – come se si stesse facendo un bonifico su un conto corrente. Vuol dire, piuttosto, che quelle somme sono vincolate alla disponibilità del Ministero della Difesa: nessun altro potrà utilizzarle, ma il ministero dovrà deliberare come e quando spenderle, nel rispetto delle normative contabili. È solo l’inizio dell’attuazione, e fino a questo punto non si è ancora acquistato nemmeno un bullone.
Una volta disponibili i fondi, il Ministero convoca lo Stato Maggiore della Difesa e i comandi delle singole Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri), per pianificare l’impiego concreto delle risorse. È qui che nascono i grandi progetti d’acquisto: quattro nuovi cacciatorpediniere per la Marina? Va bene. Ventotto nuovi velivoli da combattimento per l’Aeronautica? Approvato. Duecentocinquanta esemplari del nuovo carro armato modulare per l’Esercito? Inserito in programma.
Qui passa, circa, un annetto buono. E siamo gia' al 2027, forse 2028.
A questo punto, ogni progetto viene formalizzato come una “voce di spesa”, e ad esso viene associato un centro di costo (o centro di responsabilità amministrativa). Solo allora i fondi vengono “girati” ai rispettivi centri di spesa interni al Ministero, e da quel momento in poi non potranno più essere impiegati per altri scopi, se non attraverso una variazione di bilancio – cosa possibile solo in casi straordinari, ad esempio per calamità naturali gravi o emergenze nazionali (come previsto dall’art. 42 del D.Lgs. 118/2011, relativo alla contabilità armonizzata dello Stato e degli enti pubblici).
In sintesi: a questo stadio, il denaro è impegnato, vincolato a specifici progetti, e “sparisce” dal flusso operativo del governo centrale. Non può più essere utilizzato liberamente per altre esigenze, e nemmeno il Ministero dell’Economia può riassorbirlo se non attraverso una nuova decisione politica e contabile.
A questo punto, per quanto riguarda la legge, i soldi sono stati SPESI.
Siamo nel 2028/29, circa, e non e' stata comprata nemmeno una pistola.
A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare: “Un momento, non abbiamo ancora comprato nemmeno un proiettile. Com’è possibile che abbiamo già speso dieci miliardi?” Ecco, questa è la magia della finanza pubblica – o, se preferite, l’arte dell’impegno contabile.
Il punto è semplice: costruire un cacciatorpediniere non è come andare dal panettiere con la moneta che ti ha dato tua madre per comprare una pagnotta. La difesa è un mondo che funziona su tempi lunghi, estremamente lunghi. Una volta che i fondi vengono stanziati, allocati ai progetti e vincolati ai centri di responsabilità, quei soldi sono considerati “spesi” dal punto di vista del bilancio, anche se nella realtà materiale non si è ancora acquistato nulla.
Non è un errore del sistema: è così che funziona. Si chiama “impegno di spesa” (ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. 118/2011), ed è il momento in cui lo Stato assume formalmente l’obbligo giuridico di effettuare un pagamento futuro, sulla base di un atto amministrativo valido (tipicamente, un contratto o una determina dirigenziale).
Da quel momento, il denaro è congelato: non disponibile, non riassegnabile, non spendibile altrove. Ma siamo solo all’inizio del processo. Ora bisogna davvero acquistare le cose.
Per farlo, è necessario avviare le gare d’appalto, secondo le procedure previste dal nuovo Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 36/2023). Bisogna che le aziende interessate si qualifichino, dimostrino i requisiti tecnici, economici e industriali richiesti. In alcuni casi si tratta di gare aperte, in altri di procedure ristrette, e nel settore della difesa è frequente il ricorso a contratti riservati o classificati, data la natura strategica dei beni.
Prima ancora, tuttavia, è necessario definire le specifiche tecniche: che tipo di velivolo serve? Quali requisiti operativi devono soddisfare i nuovi sistemi radar? Quante ore di autonomia deve avere un drone da sorveglianza? Ogni voce va definita con estrema precisione. A questo si aggiunge la spesa operativa, cioè tutte le voci correnti: stipendi, manutenzioni, logistica, combustibili, formazione, armamenti individuali, vestiario, ecc.
Se, poi, si decide di aumentare il numero di militari professionisti, bisogna aprire nuovi concorsi pubblici, gestiti dal Ministero della Difesa o dai singoli comandi d’Arma. Servono bandi, commissioni, valutazioni, prove, graduatorie. Anche solo per aumentare gli organici servono mesi, se non anni.
Tutto questo, nella migliore delle ipotesi, richiede almeno uno o due anni di lavoro amministrativo e operativo. Siamo già nel 2027, e ancora non abbiamo visto nemmeno l’ombra di un cingolo o di una carlinga. Ma per i contabili NATO, i soldi sono già “spesi”, e dunque l’obiettivo è stato formalmente raggiunto.
E intanto, lontano dai riflettori, tutto procede nei corridoi del Ministero e nei consorzi industriali della difesa: assegnazione dei contratti, trattative con i fornitori, stipula degli ordini, apertura dei cantieri. E no, i cacciatorpediniere non si tengono pronti in magazzino dietro al bancone, tra le scorte di cancelleria. Ci vogliono anni di progettazione, costruzione, collaudi, certificazioni.
Nel frattempo, il cittadino comune continua a sentir parlare di miliardi “spesi”, ma senza vedere nulla di concreto – perché nel settore militare e governativo, “spendere” non significa “comprare oggi”, ma “vincolare per costruire domani”.
Siamo nel 2029, e tutto quello che abbiamo sono degli appalti in assegnazione.
Nel caso tedesco, poi, le complicazioni aumentano. Anche ammesso che si siano conclusi tutti i passaggi preliminari — legge finanziaria, stanziamenti, progettazione — in Germania vige una regola molto specifica: qualsiasi appalto militare che superi i 25 milioni di euro richiede una nuova approvazione parlamentare.
Non si tratta di un passaggio formale o automatico. La regola, nota come 25-Millionen-Vorlage, obbliga il Ministero della Difesa a sottoporre ogni singolo contratto sopra quella soglia al vaglio del Budgetausschuss, cioè la Commissione Bilancio del Bundestag. Finché il Comitato non approva, il contratto non può essere firmato — e se dovesse essere firmato comunque, risulterebbe privo di efficacia giuridica.
È un meccanismo di controllo parlamentare estremamente stringente, nato in epoca pre-euro (quando la soglia era fissata a 50 milioni di marchi tedeschi) e mai aggiornato per tener conto dell’inflazione o dell’aumento fisiologico dei costi nel settore della difesa. Oggi, quindi, la soglia rimane anacronisticamente bassa rispetto alla dimensione media dei grandi sistemi d’arma, tanto da obbligare il Parlamento tedesco a pronunciarsi su decine e decine di progetti all’anno, con una mole di lavoro legislativo e tecnico che sfiora il micromanagement.
Nel 2024, ad esempio, sono passati al vaglio del Bundestag oltre 90 contratti per un valore totale vicino ai 60 miliardi di euro, molti dei quali provenienti dal nuovo fondo speciale da 100 miliardi destinato alla Bundeswehr, STANZIATI NEL 2022. 40 miliardi sono ancora in attesa, in coda. E si stava ancora discutendo, nel 2024, l'aggiunta di otto aerei F-35 aggiuntivi.
In teoria, questo controllo dovrebbe garantire la trasparenza e l’accountability democratica della spesa militare. In pratica, però, rallenta drasticamente i tempi di approvvigionamento e introduce un elemento di instabilità politica nei cicli di investimento pluriennali.
Risultato: anche una volta approvati i fondi in legge di bilancio, anche dopo che i progetti sono stati definiti, anche dopo aver costituito i centri di spesa, in Germania l’ultima parola non è ancora detta. Se superi i 25 milioni, torni davanti al Parlamento. E speri che nel frattempo non sia cambiata la maggioranza, l’umore dell’opinione pubblica o l’agenda della commissione.
Tradotto in pratica: se la Bundeswehr decidesse di acquistare, poniamo, 40 caccia F-35, e ogni contratto di fornitura (compresi armamenti, addestramento, manutenzione o parti di ricambio) supera i 25 milioni di euro, ciascun segmento dell’acquisto richiederà un passaggio separato in Parlamento.
Non è una semplificazione retorica: potenzialmente ci vorranno 40 delibere parlamentari — una per ogni tranche di spesa che superi la soglia. Motivo per cui acquistare sistemi complessi diventa una maratona legislativa, più che una questione industriale o strategica.
Il legislatore tedesco potrebbe teoricamente accorpare più forniture in un unico grande appalto, così da superare una volta sola la soglia dei 25 milioni e limitare il numero di passaggi parlamentari. Tuttavia, nella pratica ciò si rivela spesso impossibile o estremamente complicato.
Le ragioni sono molteplici:
- Differenti tempistiche di consegna: i programmi d’arma hanno cicli produttivi e finanziari molto diversi tra loro, rendendo difficile pianificare un unico contratto omnicomprensivo.
- Diverse esigenze tecniche e operative: i requisiti di un aereo da combattimento, di un carro armato o di un sistema radar variano troppo per poter essere raggruppati in un solo bando coerente.
- Vincoli giuridici e amministrativi: ogni appalto deve rispettare criteri specifici di trasparenza, qualificazione e gestione del rischio, che spesso obbligano a scorporare i contratti per mantenere chiarezza e responsabilità.
- Flessibilità di modifica: contratti troppo grandi diventano più difficili da adattare nel tempo in base a evoluzioni tecnologiche o esigenze operative.
Perciò, la tendenza naturale e consolidata è quella di frammentare le acquisizioni in più gare distinte, ognuna delle quali può facilmente superare la soglia e richiedere un’autorizzazione parlamentare separata.
A questi vincoli legislativi si aggiungono poi i regolamenti interni e le restrizioni di natura tecnica e strategica, che influenzano significativamente le scelte di acquisto militare.
Nel caso della Germania, l'acquisto di armamenti da fornitori esteri deve rispettare condizioni precise, fra cui il requisito che il prodotto fornito sia conforme agli standard tecnologici e operativi nazionali, e che sia lo stato dell'arte.
Questa esigenza è disciplinata principalmente dalla Legge tedesca sul controllo delle esportazioni di armi (Kriegswaffenkontrollgesetz – KWKG), che regola rigorosamente la produzione, l'importazione e l'esportazione di materiale bellico. Il KWKG impone che qualsiasi importazione di armamenti sia preventivamente autorizzata dal Ministero federale dell’Economia e dell’Energia (BMWi) e rispetti le normative europee, come il Regolamento UE n. 258/2012 sul controllo delle esportioni di prodotti a duplice uso.
Inoltre, l’approvvigionamento militare in Germania deve tenere conto della Legge sul bilancio federale (Bundeshaushaltsordnung – BHO), che disciplina la gestione finanziaria dello Stato e stabilisce limiti e procedure di spesa per l’acquisto di beni e servizi, inclusi i materiali bellici.
Un caso emblematico riguarda la scelta tra i caccia stealth F-35 e F-22, entrambi prodotti dalla statunitense Lockheed Martin. L’F-22, considerato più avanzato tecnologicamente, non è disponibile per la vendita all’estero a causa di restrizioni imposte dal Congresso degli Stati Uniti e dal Department of Defense, sancite nella normativa statunitense sul controllo delle esportazioni militari (International Traffic in Arms Regulations – ITAR). Questa politica limita la disponibilità del modello F-22 per i Paesi alleati, preservandone il vantaggio tecnologico esclusivo.
In definitiva, scelto un fornitore per la gara, lo stato tedesco puo' comprare SOLO l'arma piu' moderna prodotta da quel fornitore. Se l' F-22 e' piu' avanzato dell' F-35, difficilmente potra' comprare gli F-35. E' gia' successo che, dopo alcuni problemi assurdi legati al fucile G-36, lo stato tedesco abbia fatto una gara per sostituirlo, alla quale le aziende americane non avrebbero comunque potuto partecipare , perche' non vendevano mai l'ultimo modello. Ma se non e' l'ultimo modello che l'azienda produce, lo stato tedesco non lo puo' comprare. Un cortocircuito stile Comma 22.
Di conseguenza, sebbene la Germania possa tecnicamente volere gli F-35, la normativa e le prassi politiche statunitensi limitano la disponibilità alle opzioni più avanzate in termini di capacità militare. In termini pratici, ciò si traduce in una restrizione concreta alla scelta degli armamenti, dove la Germania può svuotare i propri magazzinidi armi obsolete a favore di fornitori esteri , ma non accettare prodotti che non corrispondano agli standard stabiliti, ovvero non svuota i magazzini di nessuno dalle armi obsolete.
Per questa ragione, il parlamento tedesco e' stato capace di autorizzare n2l 2024 l'acquisto di 35 F-35 (che forse saliranno di altri sei ) solo perche' il corrispondente francese e' stato dichiarato “di quarta generazione avanzato” e non “di quinta generazione”. Di conseguenza, non c'erano altre offerte per aerei di quinta generazione, ed e' stato possibile bypassare il regolamento per via della fantomatica “uscita di servizio dei Tornado”. Usando soldi stanziati nel 2022, scorso governo, dopo l'assalto all' Ukraina.
Ma anche in questo caso, a partire dal 2025, Rheinmetall, in collaborazione con Lockheed Martin e Northrop Grumman, costruirà nella zona di Weeze (Renania Settentrionale‑Vestfalia) una linea di produzione per sezioni del fusoliera centrale dei F‑35A. (Che poi verranno assemblati e ricollaudati in Texas, ma bisognava sfuggire alla burocrazia).
Questa dinamica si riflette anche in molte altre forniture militari, dove il rispetto delle normative di esportazione, la salvaguardia dei segreti industriali e la politica di alleanze influenzano in modo decisivo le trattative e gli acquisti.
Se si mettono insieme i vincoli legislativi interni e le restrizioni imposte dai partner esteri, emerge un quadro molto chiaro: se la Germania vuole davvero procedere a un riarmo serio e rapido, come annunciato, deve necessariamente semplificare o eliminare più vincoli possibile.
In pratica, questo significa che i tedeschi dovranno puntare principalmente su una produzione nazionale delle armi, per evitare l’ingorgo burocratico e politico che caratterizza gli acquisti dall’estero. In alternativa, dovranno investire in progetti congiunti e collaborazioni internazionali di sviluppo di sistemi d’arma, così da condividere responsabilità, tecnologie e procedure autorizzative.
Altrimenti, la Germania si troverà a dover affrontare il doppio delle valutazioni tecniche, giuridiche e politiche: da una parte quelle interne per autorizzare le spese e gli acquisti, dall’altra quelle imposte dai paesi fornitori, con tempi e complessità che rischiano di rallentare o bloccare ogni piano.
In sostanza, per riarmarsi davvero e in tempi utili, Berlino dovrà scegliere tra una maggiore autonomia industriale o una forte cooperazione strategica internazionale, perché altrimenti la macchina burocratica e politica diventa un muro quasi insormontabile.
La situazione paradossale nel rapporto tra Germania e Stati Uniti riguardo alle forniture militari nasce dal fatto che, negli USA, esiste una normativa federale che vieta la vendita all’estero delle armi più avanzate in dotazione alle forze armate americane. Questa restrizione, sancita principalmente dall’International Traffic in Arms Regulations (ITAR) e dalla legge sul controllo delle esportazioni militari, mira a preservare il primato tecnologico e strategico degli Stati Uniti.
Immaginate quindi il corto circuito che si crea quando una nazione come la Germania deve acquistare armamenti che, dal suo punto di vista, non possono essere obsoleti o inferiori agli standard piu' avanzati del fornitore, ma che allo stesso tempo non può accedere ai sistemi più sofisticati in mano agli USA proprio per questi vincoli legali da parte USA.
Questo scontro di interessi e normative ha già generato attriti concreti in passato. Un caso emblematico è la vendita del sistema missilistico Patriot alla Germania, resa possibile solo grazie a una deroga legislativa del Congresso americano attraverso il National Defense Authorization Act (NDAA), che ha eccezionalmente derogato alla regola generale di non esportare l’arma più avanzata in dotazione. Ma dall'altra parte non e' stato semplice, al punto che gli USA hanno dovuto concedere una licenza di costruzione: i patriot tedeschi vengono costruiti a Schrobenhausen, in Baviera. Qui sorge una struttura costruita da COMLOG – la joint venture al 50:50 tra MBDA Deutschland e Raytheon – e rappresenta il primo sito di produzione Patriot al di fuori degli Stati Uniti. Quindi, e' diventata produzione domestica.
Questa dinamica evidenzia quanto possa essere complesso e contraddittorio il rapporto tra alleati quando si parla di sicurezza e difesa: leggi nazionali, strategie geopolitiche e interessi industriali si intrecciano, complicando spesso le forniture militari anche tra Paesi storicamente amici.
Anche nel caso italiano, la valutazione dell'adeguatezza dei sistemi d'arma in acquisto segue vie abbastanza complesse.
Processo di valutazione e acquisizione di un sistema d'arma straniero
- Identificazione dell'esigenza operativa
Il processo inizia con l'identificazione di un'esigenza operativa da parte delle Forze Armate, che viene formalizzata nel Documento Programmatico Pluriennale (DPP) della Difesa. Questo documento è previsto dall'articolo 536 del Codice dell'ordinamento militare (D.Lgs. n. 66/2010).
- Analisi delle opzioni disponibili
Il Segretariato Generale della Difesa, attraverso il III Reparto (Politica industriale e relazioni internazionali), coordina l'analisi delle opzioni disponibili, considerando sia soluzioni nazionali che internazionali. Questa fase include la valutazione tecnica, economica e strategica delle diverse alternative.
- Proposta di acquisizione
Una volta individuata la soluzione più idonea, il Direttore Nazionale degli Armamenti (DNA), istituito dall'articolo 41 del Codice dell'ordinamento militare, predispone la proposta di acquisizione. Il DNA è responsabile della pianificazione e dell'approvvigionamento dei sistemi d'arma, in collaborazione con il Capo di Stato Maggiore della Difesa.
- Parere delle Commissioni parlamentari
Secondo l'articolo 536 del Codice dell'ordinamento militare, per i programmi finanziati con gli ordinari stanziamenti di bilancio, la proposta di acquisizione deve essere trasmessa alle Commissioni Difesa di Camera e Senato per l'espressione del parere. Il Governo è tenuto a conformarsi ai pareri espressi, salvo motivata contrarietà.
- Approvazione finale
Se il parere parlamentare è favorevole, il Ministro della Difesa emette il decreto ministeriale di approvazione del programma. In caso di parere contrario, il Governo può rivedere la proposta e ripresentarla al Parlamento.
- Esecuzione dell'acquisizione
Una volta approvato, il programma viene attuato dal IV Reparto (Coordinamento programmi di armamento) del Segretariato Generale della Difesa, che gestisce l'esecuzione delle acquisizioni, inclusi gli aspetti contrattuali e logistici.
Per evitare le complicazioni legate alle complesse procedure di acquisizione di sistemi d’arma stranieri, molte nazioni preferiranno puntare sulla produzione interna.
Tuttavia, non tutti gli Stati dispongono di tutte le capacità industriali necessarie, per cui vedremo moltiplicarsi accordi strategici tra grandi gruppi industriali, come Leonardo-Rheinmetall o Fincantieri con altri partner europei.
Quando un Paese detiene la proprietà o il controllo di un’azienda produttrice, il sistema d’arma viene considerato “domestico”, consentendo così di aggirare gran parte della burocrazia legata all’acquisto estero e di risparmiare tempo e risorse.
Di conseguenza, assisteremo a una proliferazione di iniziative volte a sviluppare “in casa” i propri sistemi d’arma, come i programmi FCAS (Future Combat Air System) e Tempest. In Europa, le due nazioni che scontano i costi burocratici più elevati per l’acquisto di armamenti stranieri sono Germania e Italia; da qui nasceranno numerosi progetti congiunti per ovviare a queste difficoltà.
Altri esempi emblematici di collaborazioni industriali europee includono il progetto dei siluri “Murène” tra Italia e Francia, la realizzazione congiunta delle fregate FREMM (Fregate Europee Multi-Missione) sviluppate da Fincantieri e Naval Group, il carro armato Leopard 2 prodotto da Germania e partner europei, il sistema missilistico Aster sviluppato da Italia e Francia, e l’elicottero NH90 nato da una collaborazione tra diversi Paesi europei tra cui Italia, Germania e Francia. Inoltre, il programma Eurofighter Typhoon è frutto di un consorzio tra Regno Unito, Germania, Italia e Spagna.
Questi esempi mostrano chiaramente come la tendenza a costruire “in casa” sistemi d’arma, anche se attraverso partnership internazionali, sia ormai la norma per superare i vincoli burocratici e mantenere una capacità tecnologica e industriale competitiva a livello globale.
Ma torniamo al punto cruciale: nella nostra ipotesi, siamo nel 2030/31 e, nonostante tutti gli annunci e le promesse, stiamo ancora costruendo i sistemi d’arma, senza averli effettivamente pagati.
Nel frattempo, però, per cinque anni – ipotizzando una spesa costante al 5% del PIL – avremmo “riempito” le casse dei centri di spesa militari con un volume complessivo pari al 25% del PIL.
Solo che nel 2030/31 probabilmente Donald Trump non è più al potere, e la situazione geopolitica globale sarà probabilmente molto diversa da quella attuale. Nel frattempo, da qualche parte al ministero della difesa si sarà accumulato un gigantesco “salvadanaio” – o forse un enorme debito – mentre molte nazioni faticano a sostenere i costi di welfare e servizi essenziali per i propri cittadini.
Per avere un’idea, oggi (2025) la spesa pubblica media nei Paesi OCSE dedicata a sanità, istruzione e protezione sociale supera in media il 20% del PIL, con tendenze in aumento dovute all’invecchiamento demografico e alle crisi economiche post-pandemiche (OCSE, 2024). Parallelamente, l’aumento forzato della spesa militare rischia di comprimere ulteriormente queste voci essenziali.
La domanda quindi è: quanto può durare una simile situazione senza provocare tensioni sociali e instabilità economiche? La risposta è: non molto.
Una spesa militare elevata e protratta nel tempo, a scapito del welfare, può aumentare il rischio di malcontento popolare, pressioni fiscali crescenti e fragilità del tessuto sociale, mettendo a repentaglio la coesione interna degli Stati.
In conclusione, la sostenibilità di una strategia basata su una spesa militare al 5% del PIL per anni è altamente incerta e soggetta a forti pressioni politiche e sociali. Senza un bilanciamento attento tra sicurezza e benessere, le conseguenze potrebbero essere pesanti, sia sul piano interno che in termini di relazioni internazionali.
In sostanza, la retorica del “5% del PIL” è una fandonia utile solo a Donald Trump per rivendicare, a uso interno, una vittoria immaginaria.
Una narrativa costruita per umiliare pubblicamente la classe politica europea, costretta a rincorrere dichiarazioni che non hanno alcun fondamento giuridico né vincolo operativo. Un’umiliazione, tuttavia, destinata a durare poco.
Appena Trump sarà fuori scena – che sia per scadenza di mandato o a seguito di un ridimensionamento politico alle elezioni di midterm – questa promessa finirà rapidamente nel dimenticatoio. Molti programmi militari verranno tagliati, rinviati o ridimensionati. E se anche si registrerà un aumento della spesa per la difesa, sarà ben lontano dal 5% annunciato.
Il resto è propaganda: fumo negli occhi alimentato da ambienti trumpiani per scopi elettorali e mediatici. Più verosimilmente, ci si assesterà su un incremento moderato, con una spesa reale appena sopra il 2% del PIL – in linea con gli obiettivi storici della NATO – e una quota nominale che potrebbe salire attorno al 3%, dovuta in parte a fondi allocati ma non ancora spesi, parcheggiati nei cosiddetti “salvadanai” dei centri di spesa militari, dei quali ho appena parlato.
Nulla di rivoluzionario, insomma. Solo l’ennesimo annuncio roboante destinato a svanire sotto il peso della realtà contabile e politica europea.
Uriel Fanelli
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