Il cervello hollywood.
Mi è capitato, negli ultimi giorni, di discutere di scenari catastrofici legati al riscaldamento globale. Non appena ho menzionato l’ipotesi di un collasso ecologico, l’interlocutore ha risposto con una sicurezza disarmante: «pensavo a una situazione alla Mad Max».
Lo stesso avviene quando si parla di intelligenza artificiale: invece di discutere di algoritmi, modelli e processi cognitivi, la conversazione deraglia su Terminator, sulle macchine senzienti e risvegliate.
E quando si discute di propaganda? Immancabilmente compare Matrix, con la sua illusione collettiva prodotta da un sistema centrale.
Un osservatore superficiale direbbe che questo dimostra l’enorme impatto del cinema sull’immaginario collettivo. Sarebbe una conclusione corretta, ma incompleta. La parte ignorata è più scomoda: per molti individui, la realtà non è una percezione, ma una sceneggiatura già vista.
Non si limita a influenzare l’immaginario: lo sostituisce.
La nostra mente non registra la realtà; la costruisce.
Quello che chiamiamo “vedere” è una cooperazione forzata tra i sensi e ciò che, con delicatezza britannica, potremmo definire pregiudizi concettuali: strutture cognitive preesistenti che decidono cosa stiamo osservando prima ancora che noi ne diventiamo consapevoli.
Quando diciamo “questo è un cane” o “quello è un gatto”, crediamo ingenuamente di basarci sulla vista. In realtà, la vista fornisce solo un flusso di dati grezzo: forme, colori, movimento.
L’identificazione—questo è un cane—non appartiene all’occhio, ma alla mente. È un atto di classificazione fondato su aspettative, categorie e ricordi. In altre parole:
noi non vediamo: riconosciamo.
La differenza è sottile, ma decisiva.
La percezione è passiva.
Il riconoscimento è interpretazione.
Quando, quindi, alla parola clima qualcuno risponde Mad Max, o alla parola IA risponde Terminator, non sta spiegando la realtà—sta attivando un pattern di riconoscimento prelevato dal cinema, e lo applica come modello interpretativo.
Il problema della frase «pensavo a una situazione alla Mad Max» non è stabilire se quel tipo di scenario possa realizzarsi. È molto più banale, e molto più grave: Mad Max non è una situazione. È un film.
Prima ancora di discutere la plausibilità del mondo post-apocalittico con automobili cromate e saldature spettacolari, bisognerebbe ricordare che per ottenere quelle automobili—o anche solo per fabbricare decentemente una marmitta—serve una supply chain industriale globale. In un collasso sistemico, nessuno si metterebbe a cromare muscle car: userebbero clave e pelli di animale, e fine dell’estetica “dieselpunk”.
La realtà, quando entra in scena, è in genere meno glamour.
Il punto è un altro: quando le persone rispondono “Mad Max”, non stanno descrivendo un possibile mondo; stanno citando un film perché non possiedono un modello mentale della realtà.
La mappa non solo sostituisce il territorio: lo cancella.
Lo stesso meccanismo opera quando si parla di intelligenza artificiale.
Da più di trent’anni, tra giornalisti e intellettuali conformisti c’è l’ossessione di piegare ogni progresso tecnologico dentro il paradigma di Terminator: la macchina che diventa autocosciente, decide di sterminare l’umanità e via con il canone narrativo hollywoodiano.
Peccato che Terminator non abbia previsto l’unica cosa che è accaduta davvero:
le intelligenze artificiali non hanno sviluppato coscienza, ma sono state usate per spogliare donne senza il loro consenso.
Nessun robot killer.
Solo una forma di abuso efficiente.
Abbiamo temuto Skynet, e ci siamo ritrovati con il deepfake porn.
Mel Gibson non lo aveva previsto.
James Cameron non lo aveva previsto.
E tutta la narrativa cyberpunk, per quanto brillante, non aveva previsto i social network, l’odio a ciclo continuo e la progressiva riduzione dell’interazione umana alla versione cognitiva di una carie.
Nel cyberpunk immaginavano l’arrivo del crawl: l’uomo che scivola nel cyberspazio come un asceta cibernetico.
La realtà ci ha regalato solo il brain rot: scroll compulsivo, dopamina in streaming, e neuroni che chiedono asilo politico.
Il cinema non anticipa la realtà: la sostituisce.
Non produce categorie, le impone a livello cognitivo.
La conseguenza è che, quando cerchiamo di capire il mondo, lo interpretiamo come se fosse una sceneggiatura già scritta.
Non chiediamo più com’è la realtà; chiediamo a quale film assomiglia.
E se non assomiglia a nessun film, ci sembra impossibile capirla.
Vedo problemi evidenti in questa colonizzazione cognitiva da parte del cinema. Il primo è l’appiattimento: i film di fantascienza stanno diventando intercambiabili.
Una volta esistevano filoni riconoscibili, quasi delle scuole di pensiero visive.
Le distopie, certo, già allora abbondavano.
Ma almeno avevano una funzione didascalica: volevano mostrarci cosa sarebbe accaduto se avessimo seguito il predicatore sbagliato, il populista carismatico, il politico col ghigno da salvatore. Era un cinema che usava la paura in modo educativo—una minaccia per stimolare una domanda etica.
Poi c’erano le utopie.
Star Trek era l’unico vero esperimento utopico progressista: l’idea che l’umanità, con il tempo, sarebbe migliorata. Che un giorno avremmo incontrato una razza più logica, più pacifica e più saggia di noi, frutto della propria storia violenta.
Era ottimismo cosmologico allo stato puro.
Poi, lentamente, arrivano i Ferengi (capitalismo puro) e i Klingon (militarismo tribale), e oggi i fan imparano più volentieri il Klingon del Vulcaniano.
L’utopia è stata mangiata dall’intrattenimento.
C’erano poi le opere che si interrogavano su qualcosa, e non avevano bisogno di etichette:
- Zardoz, che si chiedeva cosa resti dell’umanità dopo l’immortalità—e perché l’intimo maschile debba essere rosso.
 - Blade Runner, che si domandava cosa distingua un essere umano da una replicante, e soprattutto perché quella replicante fosse così incredibilmente gnocca.
 - Kubrick, che usava un monolite per chiedersi come cazzo siamo arrivati qui.
 
Era fantascienza come speculazione, non come preset estetico.
Oggi apri Netflix e cerchi “science fiction”.
Netflix, onestamente, li classifica: trovi Dystopic ovunque.
Non è un’interpretazione: è il menu.
Se cerchi utopia, non trovi nulla.
Nemmeno Star Trek è più utopia: è stato riclassificato come “azione”, “political drama”, “dark”, “edgy”.
La speranza, a quanto pare, non è più contemplata dal catalogo.
La standardizzazione è completata:
la fantascienza non immagina più mondi possibili, ricicla paure disponibili.
Persino il rifugio adolescenziale dei supereroi è crollato.
Un tempo il cinema ci offriva almeno un sollievo infantile: l’eroe che arriva dal cielo e rimette a posto le cose. Una fantasia quasi evoliana: il Salvatore virile, muscoloso, moralmente puro, che protegge la civiltà—e, inevitabilmente, New York.
(Quanto devono odiare New York, a Los Angeles, per produrre ogni anno film in cui mostri, cataclismi e alieni la radono al suolo? È come se in Brianza girassero solo film sull'Etna che esplode. Un’ossessione geografica travestita da intrattenimento.)
Anche quella piccola utopia—qualcuno più forte di noi verrà a sistemare tutto—è stata annientata.
The Boys ha portato il colpo finale: niente eroi, solo corporation.
Il nuovo Superman non salva nessuno: ti prende per il culo con la stessa efficienza con cui Microsoft PowerPoint ti distrugge l’anima a una riunione.
La narrazione è chiara:
non c’è nessun salvatore in arrivo. E se c’è, è sotto contratto.
A quel punto, il pubblico si sposta verso oriente, convinto che manga, anime e K-pop siano un mondo “non contaminato”, più autentico, più puro.
Magari.
Quel mondo è stato colonizzato da Hollywood ancora prima di arrivare da noi.
Prima gli orientali  hanno masticato l’immaginario americano, poi ce l’hanno risputato addosso sotto forma di prodotto “esotico”. E noi lo mangiamo felici, perché rispetto al fast-food culturale americano, il vomito asiatico sembra spezia.
Il risultato?
Stiamo nutrendo il cervello dei nostri ragazzi con un vomito ideologico che consideriamo “alternativo” solo perché il packaging è diverso.
L’esempio perfetto è Kenshiro.
Viene celebrato come qualcosa di radicale e mai visto.
Ma basta guardarlo con un filo di lucidità:
- ha la faccia di Stallone in Cobra
 - si muove in un mondo “alla Mad Max” e ammazza i punk
 - combatte come Chuck Norris; grida come Bruce Lee
 - il suo antagonista ha la faccia di Schwarzenegger
 
Originale giapponese, ovviamente.
Siamo davanti a un fenomeno paradossale:
credettiamo di consumare nuovi immaginari orientali, ma stiamo solo importando imitazioni della cultura americana che imitano sé stesse.
Perche' dico che a volte imitano se' stessa?
Ho gia' parlato di Pacific Rim? No? E non lo faro', fa troppo schifo.
In un ambiente cognitivo in cui ogni riferimento al futuro proviene da distopie cinematografiche, cosa ci aspettiamo di ottenere dal pensiero umano?
Se l’unico repertorio mentale disponibile è composto da:
- distopie hollywoodiane,
 - distopie orientali vomitate dopo un giro al McDonald’s culturale di Hollywood,
 
allora avremo solo un tipo di output cognitivo: ansia narrativa.
Ogni cambiamento viene interpretato come inizio della catastrofe.
Arriva il climate change → Mad Max.
Arriva l’intelligenza artificiale → Terminator / Skynet.
Arriva internet → Cyberspazio, Matrix.
La struttura logica è sempre la stessa:
nuovo evento → vecchia distopia applicata
Non c’è analisi. C’è riconoscimento automatico.
Quando tutto quello che possiedi è un martello, ogni cosa ti sembra un chiodo.
Quando tutto il cinema che parla di futuro lo fa in senso distopico, l’unico futuro che puoi riconoscere è la distopia.
La conseguenza è devastante e silenziosa:
se l’unico futuro che sai immaginare è pessimistico, anche il presente ti sembrerà il preludio di una catastrofe.
E così qualsiasi innovazione—tecnologica, sociale o culturale—viene filtrata attraverso un paradigma di collasso. Non perché il collasso sia reale, ma perché è l’unica narrazione che possediamo.
Il futuro non è più da pensare: è già stato visto al cinema.
Certo, ogni tanto emergono innovazioni narrative.
Storie che potrebbero aprire varchi in questo ecosistema culturale claustrofobico.
Ma Hollywood ha un talento innato nel trasformare ogni forma di originalità in materiale compatibile con il suo apparato digestivo: la prende, la mastica, la espelle sotto forma della stessa identica merda standardizzata.
La norma non è più creare; è normalizzare.
Esempi? Eccone alcuni.
Predator. Il primo. Solo il primo.
È geniale per una ragione banale: l’alieno non viene per conquistare la Terra, né per rubare risorse, né per punirci della nostra arroganza.
Viene perché gli piace.
Predator è il primo alieno credibile della storia del cinema: ha un hobby.
Va a caccia. Punto.
È quasi antropologicamente elegante.
Risultato?
La saga lo trasforma in un prodotto da scaffale: non più un cacciatore intergalattico per divertimento, ma l’ennesimo ingranaggio di una società “spietata”, con rituali di passaggio, prove di sangue, gerarchie.
Perché Hollywood non ammette l’idea che una creatura intelligente faccia qualcosa perché si diverte.
Nell'universo hollywoodiano:
gli hobby non esistono.
Esistono solo traumi e riti tribali.
Sense8.
Il finale è un insulto alla distopia dominante: finisce con un party—un’orgia—sulla Torre Eiffel.
Sconfitti i cattivi, cosa fa l’umanità migliorata, interconnessa, evoluta?
Non fonda un governo mondiale, non conquista Marte, non diventa ascetica.
No. Tromba.
Una visione finalmente positiva del futuro:
quando l’umanità evolve, scopre il piacere, non l’oppressione.
Risultato?
Serie rimossa dall’immaginario mainstream.
Troppo gioiosa, troppo libera, troppo esplicita.
Hollywood non tollera l’idea che il futuro possa essere goduto.
Altri esempi di opere che tentavano di scappare, e sono state uccise nella culla:
Contact (1997).
Alieno non ostile, contatto pacifico, niente laser.
Finale filosofico. Risposta del pubblico? “Noioso”.
Risposta di Hollywood? “Mai più”. Eppure, contiene una riflessione sul discorso cognitivo da paura, che Kibrik je spiccia casa.
Arrival (2016).
Fantascienza basata sul linguaggio, sulla comunicazione, sul ruolo del linguaggio nei processi cognitivi, una riflessione che aiuterebbe un pelino per riflettere sugli LLM. Il messaggio del film è quasi sovversivo: il linguaggio cambia la realtà.
Reazione di Hollywood? Due anni dopo, l'alieno torna a sparare come sempre.
Her (2013).
Una relazione con un’IA che non finisce in apocalisse. Solo vulnerabilità, intimità, limite umano. Hollywood che fa?
Reintroduce Terminator nel discorso pubblico, per sicurezza.
Wall-E (2008).
Utopia ecologica travestita da film per bambini: l’umanità potrebbe smettere di consumare, mangiare meno, fare sport, e tornare al mondo di una volta. Grazie ai robot.,Morale effettiva: il capitalismo verde può salvare il mondo senza cambiare nulla. Comprate i miei robot! 
Everything Everywhere All at Once (2022).
Multiverso come occasione per guarire relazioni familiari, non per distruggere mondi. Hollywood risponde con: Multiverse of Pasticci Marvel™. Mai una gioia.
La dinamica è sempre identica:
- nasce un’idea originale, non distopica;
 - Hollywood la identifica come “anomalia”;
 - la sterilizza, la converte in prodotto neutro, la assorbe.
 
Hollywood non crea fiction.
Crea anticorpi contro ogni idea fuori standard.
Di fronte a un futuro possibile, Hollywood ha una risposta precisa:
se non è distopia, deve diventarlo.
Perché un futuro felice non genera sequel.
Tutta la fantascienza toccata da Hollywood diventa merda.
RIP Dr. Who. L'ho gia' detto? No? RIP Dr. Who.
Alcuni vedono un progetto politico dietro questo appiattimento culturale.
Altri parlano di gatekeeper: un sistema che controlla quali idee possono esistere e quali vanno neutralizzate.
Prendiamo Star Trek come laboratorio di questo meccanismo.
Se torniamo alla serie originale—non la versione depressa e ansiosa degli ultimi anni—ci accorgiamo che la struttura sociale della Federazione è qualcosa che, per un europeo, non fa nemmeno sollevare un sopracciglio. È un’utopia tecnologica, un’economia dell’abbondanza, un mondo post-scarcity.
Per un americano, invece, è bestemmia politica: gomunismo intergalattico.
Il replicatore a livello subatomico, che ti materializza le lasagne senza bisogno della nonna e senza sfruttare bambini cinesi, rende irrilevanti concetti come proprietà privata, salario, mercato.
In un mondo in cui puoi avere tutto ciò che vuoi, senza costo né fatica, che senso ha il capitalismo?
Non è un’opinione. È logica pura.
Se hai una tecnologia che annulla la scarsità, l’unico sistema coerente è:
- niente lavoro forzato,
 - niente povertà,
 - niente accumulo.
 
Tradotto: il comunismo ideale.
Con un interior design per il film,  che ricorda (non) sorprendentemente il Cosmismo, quella corrente filosofica sovietico-positivista che immaginava l’umanità come progetto collettivo nello spazio.
Ora, prova a dire questa frase davanti a un investitore di Wall Street:
“Nel futuro avanzato, il denaro non serve.”
Ti ritrovi la SWAT in casa. Come sarebbe a dire, non serve?
Perché la fantascienza utopica presenta concetti che negli USA sono considerati sovversivi:
- una società senza proprietà,
 - senza gerarchie economiche,
 - senza sfruttamento.
 
E poi arriva un’altra eresia: Predator.
Un alieno con un hobby.
Non invade la Terra, non ha bisogno delle nostre risorse (rimane da definire quali risorse noi crediamo di avere che interesserebbero a una civiltà capace di viaggiare tra le stelle).
Non vuole petrolio, acqua, minerali.
Vuole andare a caccia nel weekend. E trova una preda stronza e molto permalosa , dall'accento austriaco, che lo ammazza. Ma si sa, durante un safari capita.
Ha un hobby.
Ha tempo libero.
Ha le ferie. Durante le ferie, fa i safari.
E vaffanculo al problema dei tre corpi.
È più scandaloso del replicatore di lasagne.
Hollywood non può tollerarlo, perché introduce un concetto ancora più eversivo del comunismo:
il tempo libero come valore ontologico.
Se un alieno tecnologicamente superiore ha un hobby, allora il lavoro non è il centro dell’universo morale.
Allora l’esistenza non è definita dalla produttività.
Ed ecco perché ogni narrazione che esce dai binari viene immediatamente corretta, sterilizzata, distopizzata.
Star Trek è stato progressivamente reso cupo, conflittuale, ansiogeno.
Predator è stato trasformato in una razza tribale ossessionata dal combattimento.
Sense8 è stato cancellato perché una società connessa non produce guerre, produce orgasmi—e non c’è nemmeno bisogno di societa' miliardarie come Tinder ed Onlyfans per farlo. 
La verità è semplice, e non richiede nessuna teoria del complotto: Hollywood è un sistema di filtraggio dell’immaginazione.
Il suo compito non è descrivere il futuro: è impedire che ne immaginiamo uno che non serva agli interessi della big industry americana.
Se preferisci: del big money.
Ogni volta che compare un’idea che non celebra mercato, competizione, scarsità o paura, Hollywood la ingerisce e la converte nella solita narrativa tossica. Non importa quanto tu sia ottimista, quanto tu creda nei progressi degli ultimi vent’anni, o quanto tu sia convinto che la tecnologia possa migliorare l’esistenza umana.
Hollywood ha un obiettivo preciso:
sostituire ogni possibile futuro con una distopia.
Non perché il futuro sarà distopico.
Ma perché se tutto ciò che hai nella testa è distopia, non potrai immaginare nient’altro.
Funziona così:
- elimini le utopie,
 - sterilizzi le visioni alternative,
 - lasci solo scenari di collasso e oppressione.
 
Risultato?
Quando ogni categoria mentale associata al concetto di “futuro” è una distopia, allora qualsiasi cambiamento del presente viene automaticamente interpretato come l’inizio della distopia.
Non è manipolazione politica: è colonizzazione cognitiva.
Se puoi controllare il futuro che una società riesce a immaginare, non hai nemmeno bisogno di controllare il suo presente.
Perché un popolo che non riesce più a immaginare un futuro diverso, non proverà nemmeno a costruirlo.
C’è veramente da stupirsi se un romanzo tutto sommato mediocre come Il problema dei tre corpi sia stato pompato fino all’isteria collettiva?
Il libro non aggiunge idee: aggiunge paranoia.
Non apre uno scenario: lo chiude.
E soprattutto fa una cosa che Hollywood ama più del gluten-free: conferma che il futuro è inevitabilmente ostile, incomprensibile e senza uscita.