I futurai.
Un tempo frequentavo con una certa regolarità, oltre alle manifestazioni del CCC, anche quelle fiere patinate dedicate al “futuro” — gli eventi in cui si radunavano i profeti del domani, gli “evangelisti” della tecnologia, gli immancabili visionari in giacca slim e sneakers bianche. Arrivavano sempre con l’aria di chi aveva appena fatto ritorno da un viaggio interstellare, col trolley ancora al seguito e l’etichetta dell’aeroporto a penzoloni, pronti a raccontarti cosa ci attendeva laggiù, nel futuro, come se l’avessero appena attraversato in business class.
Si presentavano con slide, acronimi, e quella particolare sicurezza di chi confonde il marketing con la rivelazione divina. E tu, tra uno stand e l’altro, finivi per chiederti se davvero il futuro fosse lì — in quelle lucine LED, nei robot da cucina connessi in Wi-Fi, o nel modo in cui tutti parlavano di “disruption” senza mai interrompere il buffet.
E la cosa, lo ammetto, sta iniziando a infastidirmi sul serio.
Per una ragione molto semplice: non puoi continuare a parlarmi dell’utopia radiosa che sarà il futuro, se nel frattempo gli stessi protagonisti che la predicano — le grandi aziende, i guru, gli “innovatori” da palcoscenico — stanno costruendo sotto i nostri occhi una distopia lucida e perfettamente funzionante.
Non puoi venirmi a raccontare del “lavoro inclusivo del futuro”, se l’unica forma di inclusione che siete riusciti a rendere davvero accessibile a tutti si chiama OnlyFans.
Non puoi farmi sognare una medicina d’avanguardia in cui un’intelligenza artificiale manovrerà un robot chirurgo, se poi non mi spieghi perché, nel bel mezzo di un’operazione, non dovrei essere svegliato da uno spot pubblicitario di antibiotici sponsorizzati da Amazon Health.
E, per favore, non raccontarmi quanto saremo felici, un giorno, di essere circondati da eserciti di robot domestici, assistenti empatici e automi servizievoli, quando nella realtà sempre meno persone possono permettersi persino una casa da far pulire a quei robot.
Perché a furia di sentir parlare di progresso, di automazione e di futuro inclusivo, sta venendo fuori un paradosso: il futuro non lo stanno costruendo per noi, ma su di noi.
Non potete continuare a vendere l'utopia mentre, sotto i nostri occhi, state costruendo una distopia, e di quelle brutte-brutte.
Parlando di Neuralink, per esempio, possiamo osservare con chiarezza la distopia che sta prendendo forma.
Qualcuno, nel film — o meglio, nel manga — Ghost in the Shell, si era già posto la domanda giusta: cosa succederebbe se un hacker riuscisse a prendere il controllo di un dispositivo del genere, e quindi, di fatto, del cervello umano?
La rappresentazione era brutale, quasi insostenibile: persone convinte di essere qualcun altro, di avere una famiglia, dei figli, un’intera vita che in realtà non esisteva.
Ma quello, va detto, era un caso estremo.
La nostra realtà non sta andando in rovina perché qualcuno ci ha riprogrammato la mente con un collegamento alla corteccia cerebrale. Il problema non è se Neuralink potrà un giorno riscrivere il nostro cervello: il problema è come userà la connessione.
Perché lo scenario più probabile non è la manipolazione mentale, ma la pubblicità neurale.
Immaginate: siete soli, con il vostro partner, e all’improvviso nel cervello parte lo spot di una marca di preservativi, con tanto di jingle e logo fluttuante nella corteccia visiva.
Ecco la vera distopia: non l’hacker che vi ruba l’identità, ma l’inserzionista che vi ruba l’attenzione — direttamente nel lobo frontale.
Perché oggi non viviamo circondati da telefoni che gli hacker controllano (succede, ma di rado): viviamo circondati da telefoni che non possiamo controllare, dove vuoi solo cancellare un appuntamento dal calendario, ma lo schermo viene inghiottito da una pubblicità che non si chiude mai, con un tasto di uscita grande quanto un leptone e la stessa funzione di un placebo.
Non mi preoccupa il fatto che il mio freezer possa essere hackerato e trasformato in una macchina mortale che surgela tutto l'appartamento. Mi preoccupa il fatto che il vostro fotturo schermo, fatto per "avvisarmi che sto finendo il latte", cominci a suonare una musichetta antipatica,e mi mostri la pubblicita' della Nestle', e per aprire il frigo devo aspettare 4...3...2...1...0 chiudi l'ad.
Non stiamo vivendo in un incubo fatto di grandi, epici atti di pirateria, voluti da Grandi Daibatsu che pagano milioni un hacker professionista per mandare un'automobile contro un albero e uccidervi.
Stiamo vivendo una distopia che portera' le automobili a fare pubblicita' ad un sito porno, sul parabrezza, mentre guido l'auto se passo di fronte ad un sexy shop. Non il grande , estremo abuso che qualcuno ha pagato milioni, ma l'ennesimo, milionesimo piccolo fastidio che qualcuno ha pagato 0.003 centesimi a visualizzazione.
Non mi preoccupa affatto l’idea che il mio freezer possa essere hackerato e trasformato in un’arma di distruzione fredda, capace di surgelare l’intero appartamento.
Mi preoccupa, piuttosto, il vostro maledetto “frigo intelligente”, quello che dovrebbe avvisarmi sul suo schermo esterno quando sto finendo il latte — e che invece, un bel giorno, inizierà a suonare una musichetta insopportabile, per poi mostrarmi la pubblicità della Nestlé.
E se avrò la sfortuna di voler solo aprire la porta del frigorifero, dovrò prima sorbirmi un countdown: 4… 3… 2… 1… chiudi l’ad. Perche' ovviamente servira' il cellulare per sbloccare il frigo.
Non stiamo vivendo in un incubo di epici atti di pirateria, con hacker pagati milioni da oscure Daibatsu per mandare le auto contro gli alberi.
Quella è fantascienza: elegante, tragica, perfino eroica nella sua perversione.
La nostra distopia è infinitamente più banale — e per questo più subdola.
Viviamo in un mondo in cui la tua automobile, un giorno non troppo lontano, proietterà sul parabrezza la pubblicità di un sito porno solo perché stai passando davanti a un sexy shop.
Non il grande abuso orchestrato da un genio criminale strapagato, ma il piccolo, miserabile fastidio quotidiano che qualcuno ha venduto per 0,003 centesimi a visualizzazione.
E sarà quello, il vero collasso: non la ribellione delle macchine, ma la loro resa al marketing.
E naturalmente vi stanno già offrendo “gratis” un servizio di nome Orgasmy — perché, a furia di infilare elettrodi nel cervello, prima o poi ci si arriva, no?
Il problema è che subito dopo dovrete sorbirvi una bella pubblicità: “Scopri ora il nuovo film esclusivo su Netflix!”.
E subito dopo, come in un perfetto catalogo dell’apocalisse, arriva RØNFÅ, la nuova camera da letto IKEA: progettata per il sonno del futuro, ma pronta ad aggiornarsi da sola nel cuore della notte per proporvi un’offerta imperdibile su materassi sponsorizzati.
Perché, se c’è un trend che vedo — e non serve certo essere un futurologo per accorgersene — è che tutta quella tecnologia che doveva farci risparmiare tempo, semplificare la vita e liberarci dalle incombenze quotidiane, si è trasformata esattamente nel contrario: un generatore automatico di pubblicità e una macchina che ci ruba il tempo, goccia dopo goccia.
Oh, ma che meraviglia il collare “intelligente” del cane! Tiene tutto sotto controllo, e grazie all’intelligenza artificiale mi avvisa se i suoi movimenti sono normali, se dorme troppo o se magari è un po’ costipato.
Un trionfo del progresso, davvero.
Specialmente quando riempirà lo stereo di casa di pubblicità di crocchette per cani, magari proprio mentre sto ascoltando la mia musica preferita.
Perché è sempre così: ogni passo avanti che promette libertà, finisce per chiederti in cambio un pezzetto di attenzione, un frammento di silenzio, un minuto della tua vita. E tutto, rigorosamente, troppo COOL!
Siamo ormai circondati da campanelli “intelligenti”, con telecamera, sensore di movimento e app dedicata: arriva qualcuno, suona, e il campanello fa drin.
E magari anche il cellulare. Cosi' potete rispondere da remoto al citofono. Comodità straordinaria, no?
Ma quando lo avranno tutti, quanto tempo passerà prima che, invece del solito driiin, sentiremo una voce allegra annunciare: “Mancano sei giorni al Black Friday! Affrettati!!”.
Dopotutto, chi ci guadagna oggi dal drin? Nessuno.
E allora perché non sostituirlo?
Nel mondo che stiamo costruendo, anche il suono della porta d’ingresso dev’essere monetizzabile.
E la cosa più assurda, in tutto questo, è il continuo invito a “partecipare”, a “condividere”, a “far parte del cambiamento” — lo slogan ricorrente di quelli che, un tempo, sembravano i liberatori dalle iniquità del vecchio mondo analogico.
Gli stessi che oggi, con la stessa disinvoltura, stanno costruendo l’incubo da cui non si può più uscire.
Prendiamo Airbnb, per esempio.
All’inizio era la promessa della libertà: l’alternativa geniale ai costi assurdi di un settore monopolizzato e ingessato.
Il racconto era semplice: “apri la tua casa, condividila, guadagna qualcosa, sii parte della nuova economia”.
Peccato che oggi, proprio grazie a quella libertà, gli affitti siano schizzati alle stelle.
In molte città, chi ci vive davvero non riesce più a trovare una casa, perché ogni stanza, ogni monolocale, ogni brandello di spazio è stato riconvertito in investimento turistico.
La promessa di emancipazione si è trasformata in un incubo immobiliare: la condivisione è diventata speculazione, e la libertà si è tradotta in sfratto.
Stiamo avendo un mondo migliore? No. Tutto quello che gli oligarchi toccano diventa merda. Toccano il settore alberghiero e immobiliare, e improvvisamente diventa un inferno di iperturismo e affitti giganteschi.
TUTTO QUELLO CHE DOVEVA DIVENTARE UNA COMMODITY E' DIVENTATO UN LUSSO.
Tinder?
In origine doveva essere la rivoluzione del sesso libero, l’app che permetteva a chiunque di trovare qualcuno per una scopata senza troppi preamboli.
Risultato? È diventato un deserto digitale in cui la probabilità che succeda davvero qualcosa è così infinitesimale che vi conviene uscire, andare in un bar qualsiasi e ordinare una birra: avrete molte più chance seduti al bancone.
Grindr?
Ancora peggio.
Un tempo, se eri gay o bisessuale e volevi una zipless fuck, bastava una sauna gay — meglio se con dark room — e non uscivi senza aver fatto centro.
Oggi, su Grindr, trovi solo maniaci in loop infinito: chat, fantasie, promesse, nulla di reale. È la simulazione del desiderio, senza il desiderio.
Netflix?
Doveva liberarci dal dominio dei quattro produttori di Hollywood che sfornavano solo supereroi, vampiri, vichinghi, prequel e sequel infiniti.
E cosa stiamo guardando oggi?
La stessa merda di Hollywood, ma in streaming, e a prezzo triplo se non vuoi la pubblicità.
Amazon Prime, Apple TV, Disney+: tutti uguali, tutti gonfi di contenuti seriali che si autoalimentano come muffe digitali.
I social?
Avrebbero dovuto aiutarci a restare connessi con le persone della nostra vita.
Ora servono solo a connetterci con gli influencer.
La possibilità di comunicare è praticamente scomparsa: parlano in pochi — sempre gli stessi — e tutti gli altri osservano, reagiscono, fanno rumore bianco.
Spotify & co., ovvero “la musica”.
Dovevano democratizzare tutto: dare voce a ogni gruppo, a ogni artista, a ogni musicista di provincia che non aveva accesso all’industria.
Promettevano una nuova era di creatività diffusa, di libertà musicale, di scelte infinite per tutti.
Risultato?
Se non ti chiami Taylor Swift, ti pagano così poco che non vale nemmeno la pena accendere la chitarra.
Milioni di brani caricati, milioni di artisti invisibili: un oceano di suoni che nessuno ascolta, dove gli unici a galleggiare sono i soliti tre nomi in cima alla playlist ufficiale del lunedì.
Autopubblicazione?
Stesso copione.
Se lo fai per hobby, va bene: ogni tanto ti ci paghi una birra, o due se vendi all’estero.
Ma se non hai miliardi da investire in promozione, scordatelo: scompari nel rumore bianco.
Credevamo che la libertà editoriale avrebbe portato qualità, nuove voci, idee fresche.
Invece i siti di self-publishing si sono trasformati in nuove case editrici — più voraci, più opache — e spesso controllano anche i dispositivi di lettura.
E il risultato è paradossale: vendo molto più su Lulu, che usa un formato aperto, che su Amazon, la patria del monopolio “democratico”.
La promessa era libertà per tutti.
Il risultato è sempre lo stesso: libertà per chi la può comprare.
Tutto ciò che toccate, cari CEO miliardari, diventa merda.
Siete i Re Mida al contrario: ricchissimi, inavvicinabili, e come se non bastasse, vi pagano pure per rovinare ciò che toccate.
Ai vostri futuri immaginifici non crede piu' nessuno.
Perche' sappiamo bene che quello che fate e' usare la logica della corsa dello spermatozoo: uno vince tutto, cinquecento milioni no. Il guaio e' che i cinquecento milioni vengono spennati , al prezzo modico di 0.o003 euro a testa, perche' ci sia un tizio che compra uno yacht nuovo.
Cosi', io so benissimo che dietro alla storia del frigo intelligente c'e' il tentativo di far pagare pubblicita' , in modo che alla fine ne beneficino le solite due o tre marche. E presto scoprirete che il supermarket vi offrira' cibo "fatto per il frigo samsung", il cui rfid parla con quel frigo e solo quello.
Tutto. Tutto quello che toccate diventa merda. Le criptomonete erano nate come monete nella speranza, o forse utopia, di un sistema finanziario piu' equo. E come e' finita? Siete arrivati voi, ed e' diventato un mondo in cui non riuscireste ad usare una di queste coin per comprare una pizza, tranne nelle solite citta' tecnofighette in cui c'e' sempre il negozio - che poi fallisce in fretta - che accetta i bitcoin.
Mi spiace, ma le vostre "week", le vostre conventions, le vostre fiere, non riescono piu' a darmi la speranza di un mondo migliore.
E non perche' la tecnologia sia peggiore o non sufficiente.
Perche' ci siete voi. Perché lo sappiamo bene: tutto quello che fate si basa sulla logica dello spermatozoo.
Uno vince tutto, cinquecento milioni no.
Il problema è che quei cinquecento milioni li spennate — con pazienza, precisione, e al prezzo modico di 0,0003 euro a testa — per far sì che quell’uno diventi ricco.
Così, quando sento parlare di frigo intelligente, so già dove si andrà a parare.
Non è innovazione: è pubblicità connessa in rete, e il fine ultimo è sempre lo stesso — far guadagnare le solite due o tre marche.
E aspettate: presto scoprirete che il supermercato vi offrirà prodotti “fatti per il frigo Samsung”, con RFID che comunicano solo con quel modello e nessun altro.
L’ennesima catena dorata venduta come progresso.
Tutto quello che toccate diventa merda.
Il mondo delle startup, ricordate?
Doveva essere la rivoluzione dell’imprenditoria, la democratizzazione della creazione d’impresa, il grande laboratorio dove chiunque — con un’idea, un portatile e un sogno — poteva cambiare il mondo.
Risultato?
È diventato il reparto ricerca e sviluppo esternalizzato delle grandi aziende.
Le corporation non innovano più: delegano il rischio agli entusiasti, ai visionari, ai disperati in coworking.
Aspettano che qualcuno trovi davvero qualcosa di utile, e poi lo comprano, lo inglobano, e lo sterilizzano fino a renderlo compatibile con la loro burocrazia.
Alla fine, non resta la startup: resta l’acquisizione.
E quella che doveva essere una fucina di libertà è diventata una catena di montaggio del capitale.
Le criptovalute erano nate come moneta della speranza — o forse dell’utopia — per un sistema finanziario più equo.
E com’è finita?
Siete arrivati voi, e avete trasformato anche quello in un casinò digitale, dove non puoi neppure comprare una pizza, se non in qualche città tecnofighetta con il solito negozio che accetta bitcoin… e che puntualmente chiude dopo sei mesi.
Mi spiace, ma le vostre Tech Week, le vostre convention e le vostre fiere del futuro non riescono più a darmi nemmeno un briciolo di speranza.
E non perché la tecnologia sia cattiva, o inadeguata, o inutile.
Ma perché ci siete voi.
Non siete piu' futurologi, siete futurai, i giornalai degli oligarchi.
E non avete una "visione del futuro", al massimo avete un business plan.