Equilibri artificiali.

In questi giorni, è sufficiente sfogliare le prime pagine di qualsiasi quotidiano per essere travolti da un profluvio di retorica geopolitica, spesso superficiale, quando non del tutto fuorviante. Lo spettacolo mediatico della guerra – o, per meglio dire, lo Show della Guerra – monopolizza l’attenzione pubblica con una messa in scena tanto incessante quanto, in molti casi, manipolata. I riflettori sono puntati esclusivamente su un conflitto che, al netto della sua drammaticità reale, viene trattato come un prodotto da consumo emotivo, con una narrazione che scivola pericolosamente verso l’intrattenimento.

In un simile contesto, è facile intuire che difficilmente si troverà spazio per altri temi, anche se di cruciale rilevanza. La saturazione mediatica opera come una nebbia fitta che oscura il resto: tutto ciò che non rientra nello schema bellico dominante viene silenziato, ignorato o marginalizzato.

La mia urgenza di scrivere nasce proprio da questo squilibrio comunicativo. In particolare, noto con crescente preoccupazione che la stampa italiana sta approfittando del clima emotivamente acceso per veicolare messaggi che, in un contesto più lucido e meno condizionato, probabilmente non passerebbero indenni al vaglio dell'opinione pubblica.


Uno dei concetti che, in modo sempre più insistente e subdolo, si cerca di far penetrare nel dibattito pubblico è quello dell’Unione Europea come Impero. Sì, proprio così: un’entità sovranazionale che, secondo una certa narrativa mediatica, dovrebbe acquisire il potere – e il diritto – di intervenire nei conflitti globali in qualità di forza ordinatrice, se non addirittura coercitiva.

Sui giornali non si leggono che lamentele: la UE, ci dicono, è debole, impotente, assente dai tavoli negoziali. Non riesce – o peggio, non osa – imporsi come attore determinante nella crisi tra Israele e Iran. Come se questa fosse una sua responsabilità naturale. Come se il fatto stesso di non intervenire rappresentasse un fallimento strutturale del progetto europeo.

Ma proviamo a fare un minimo di chiarezza. Prendete una semplice cartina geografica. L’Ucraina, ad esempio, è situata ai confini dell’Unione, e in effetti rappresenta una zona di contatto – e potenziale frizione – con la Federazione Russa, che a sua volta si estende a nord-est. In quel contesto, la preoccupazione europea può avere una logica di prossimità, se non altro strategica. Ma Israele? L’Iran? Due nazioni culturalmente, storicamente e geograficamente scollegate dal continente europeo, due realtà complesse, autonome, situate ben oltre ogni ragionevole sfera di influenza europea.

A questo punto la domanda si impone: come si definisce uno Stato – o un’unione di Stati – che pretende di esportare la propria visione politica, economica o ideologica in regioni lontane, sconnesse, profondamente diverse per storia e cultura? La risposta è chiara: si chiama Impero.

Chi oggi auspica un’Europa in grado di “fermare” la guerra tra Israele e Iran, in realtà sta auspicando – magari senza rendersene conto, o fingendo di non capirlo – un’Europa imperiale. Ma siamo sicuri che sia questo ciò che vogliamo diventare? Chi ha mai votato per un simile progetto? Chi ha firmato un mandato per trasformare l’Unione in una potenza neocoloniale con pretese di interventismo globale? Nessuno, credo. A parte, forse, certi “intellettuali organici” che pontificano ogni giorno sulle pagine dei quotidiani, con toni da tribuni romani e una visione del mondo ferma all’Ottocento.

Qualcuno tenterà di nascondersi dietro un paravento semantico, sostenendo che non si tratti di voler un impero, ma una potenza. Una parola apparentemente neutra, quasi nobile, che gli Stati Uniti hanno usato per decenni per autoassolversi dal proprio evidente status imperiale. Eppure, il paradosso è gustoso: proprio loro, che fondarono la propria identità nazionale sulla ribellione a un impero, quello britannico, sono oggi l’archetipo del potere imperiale mascherato da “grande potenza”.

E allora, torno a chiedere: per quale motivo, esattamente, l’Unione Europea dovrebbe avere voce in capitolo in un conflitto come quello tra Iran e Israele? Cosa ci autorizza? Quale interesse vitale, quale vincolo giuridico o storico? Davvero vogliamo calarci nei panni degli antichi imperi, pretendendo di dettare legge in ogni angolo del mondo? Io, personalmente, mi rifiuto. E sono convinto che anche molti di voi non desiderino affatto vedere l’Europa trasformarsi in una replica pallida di imperi defunti.

Ciò che mi lascia attonito è la disinvoltura con cui buona parte della stampa italiana – senza dibattito, senza contraddittorio – sostiene che, se l’Europa vuole esistere, deve diventare un impero. Altrimenti, quasi meglio che si dissolva.

Ma vi rendete conto dell’assurdità di questa posizione?Siamo proprio sicuri? Ma anche no, secondo me.


Il secondo nodo cruciale è l’incapacità – o il rifiuto deliberato – di leggere il calendario. Parlo di un’incapacità sistemica, quasi patologica, che affligge buona parte del dibattito politico e mediatico contemporaneo. Da tempo sostengo che la storia del mondo non è altro che una sequenza di equilibri temporanei che si succedono l’un l’altro. Nessuno stato di equilibrio è eterno; ogni fase di stabilità è solo un intervallo tra due crisi.

Ebbene, la situazione in cui – a poche migliaia di chilometri dall’Europa – potevano coesistere l’Iran e Israele senza precipitare in un conflitto aperto era, chiaramente, un equilibrio artificiale. Non naturale, non spontaneo: un equilibrio imposto dall’esterno. Un po’ come la Jugoslavia postbellica, tenuta insieme non dalla coesione interna, ma dal pugno di ferro del socialismo titino, che mascherava sotto una patina ideologica divisioni etniche, religiose e storiche profondissime.

Ora, cosa accade quando quella forza esterna – quell’elemento artificiale che teneva in piedi l’edificio instabile – si indebolisce o sparisce del tutto? Cosa succede quando l’Impero che garantiva quell’equilibrio crolla, si ritira, o semplicemente si disinteressa? La risposta è semplice e sotto gli occhi di tutti: le soluzioni politiche forzate si disgregano, gli equilibri tenuti in vita da un’egemonia declinante si sgretolano. Le tensioni sopite riaffiorano, le faglie si riattivano, i conflitti esplodono.

È esattamente ciò che sta avvenendo oggi. Gli equilibri imposti dal dominio anglosassone – quell’architettura geopolitica figlia della vittoria nella Seconda guerra mondiale e consolidata durante la Guerra Fredda – stanno cedendo uno dopo l’altro. È l’effetto domino di un potere che non riesce più a mantenere la propria presa sul mondo. In questo quadro, il conflitto tra Iran e Israele non è nemmeno il più pericoloso: è solo uno dei tanti sintomi di un processo storico ben più ampio e strutturale.

E allora, la vera domanda è: per quale motivo l’Unione Europea dovrebbe precipitarsi a soccorrere l’Impero statunitense, che oggi appare in evidente stato di disfacimento? Un impero che sta cedendo non tanto per una sconfitta militare, quanto per un collasso culturale, intellettuale ed economico. Basta guardare ai numeri per capirlo: il debito pubblico statunitense ha raggiunto livelli insostenibili e sta strangolando ogni possibilità di manovra strategica a lungo termine. [Fonte suggerita: U.S. Treasury data, Congressional Budget Office, FMI]

Ecco allora che si apre uno scenario inedito: questo sarebbe il momento ideale per l’Europa di fermarsi, smettere di agitarsi inutilmente, e osservare il mondo dal balcone. Non con cinismo, ma con lucidità. Magari con un sacchetto di popcorn in mano, per sottolineare che no, non ci faremo trascinare ancora una volta in un copione scritto da altri, in un teatro che non ci appartiene. Anziché correre dietro a Trump o chi verrà dopo di lui, come cagnolini in cerca di attenzioni, potremmo – per una volta – restare immobili. E aspettare. Perché la fine dell’egemonia anglosassone è uno spettacolo da non perdere.

Nel frattempo, la stampa italiana – fedele alla propria funzione di apparato ideologico del potere atlantico – continua ostinatamente a proporre la favola dell’“Occidente collettivo”. Un’illusione che ormai non convince più nessuno, a parte Vladimir Putin, che la evoca strumentalmente per dare legittimità al suo stesso progetto imperiale.

La verità è che quell’Occidente collettivo non esiste più. È finita. E sarebbe ora che qualcuno, soprattutto nelle redazioni italiane, se ne accorgesse.


Ci sono altre fesserie in circolazione? Certo che sì. Prendiamo per esempio la narrativa dominante che dipinge Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Una frase che circola come un dogma, senza che nessuno si chieda: in che senso, precisamente?

Sul piano formale, Israele mantiene istituzioni democratiche: un parlamento elettivo, un sistema multipartitico e una magistratura che – per ora – conserva almeno un margine di autonomia . Tuttavia, indicatori internazionali descrivono un paese in regressione: Freedom House segnala un calo da 81/100 a 73/100 in dieci anni, un trend di erosione della libertà politica e civica ; anche l'Economist Intelligence Unit etichetta Israele come una “democrazia imperfetta”, con segnali preoccupanti di deriva illiberale .

Ma passiamo alla questione più clamorosa: la selettività radicale del diritto di voto. Dei circa 6,46 milioni di palestinesi sotto controllo israeliano — compresi quelli nei territori occupati — soltanto 1,55 milioni (il 24 %) possono partecipare alle elezioni israeliane.

Questo significa che il 76 % dei soggetti palestinesi sotto l’egida di Tel Aviv è sistematicamente escluso dal processo democratico — un principio intrinsecamente antidemocratico. Paradossalmente, Israele concede automaticamente la cittadinanza a ogni ebreo nel mondo, ma nega il “diritto al ritorno” a milioni di palestinesi, rendendo permanente questo svantaggio politico-legale .

Dunque: uno Stato che esclude sistematicamente una parte significativa della popolazione dalla partecipazione politica — senza possibilità di riscatto o integrazione — non può definirsi una democrazia pienamente tale. È qualcosa di ben diverso. Un regime duale, che offre diritti politici solo a chi rientra in un criterio etnico-religioso, mentre ignora o sopprime l’altro.

Per fare un paragone: è come se in Italia si decidesse di togliere il diritto di voto a tutti i meridionali, giustificando il tutto con motivazioni identitarie o storiche. Quale democrazia sopravviverebbe a una simile discriminazione?

Chiamare Israele “l’unica democrazia del Medio Oriente” diventa così un abuso di linguaggio, se non un espediente propagandistico per silenziare chi solleva critiche legittime.

Ho sentito rispondere, con visibile entusiasmo, che se vai su una spiaggia a Tel Aviv ci trovi ragazze in bikini: la prova inoppugnabile che Israele incarna tutti i valori dell’Occidente, dalla democrazia ai diritti umani. Davvero imbarazzante.

Non vale nemmeno la pena spiegare quanto sia banale – e offensivo – ridurre la democrazia a un costume da bagno. Non è escusabile neanche il paragone con la DDR: sì, il nudismo era diffuso, e per l’Est come per l’Ovest erano una presenza normale su molte spiagge , ma le due nazioni non erano esattamente nello stesso stadio della democrazia. E parlando di dittature, basti pensare a Cuba: spiagge affollate di donne in bikini o tanga, sotto un governo tutt’altro che liberale. In che modo, di preciso, il costume da bagno e' prova di democrazia?

Secondo noi, prima che esplodessero bombe atomiche su un atollo , nel 1946, non c'era mai stata democrazia?

Mettere la democrazia sullo stesso piano di un capo estivo è infantile. La democrazia vera ha poco a che vedere con la moda balneare. È un modo patetico di derubricare questioni fondamentali a mera estetica da spiaggia. E potete trovare ragazze in bikini in molti paesi non democratici.

cuba Ragazze in bikini a Cuba. Deve proprio essere una democrazia. E guardate che diritti umani. Chiaramente occidentali.


Un’altra cosa che mi fa venire i nervi è l’ignoranza intenzionale della storia dell’ultimo secolo, in particolare di come e perché gli inglesi volessero l’esistenza di Israele. Serve sempre ricordare: cosa può spiegare meglio la genesi dello Stato israeliano se non il ruolo attivo della Gran Bretagna e il suo intervento nel Medio Oriente post-ottomano?

Origini e dissoluzione dell’Impero Ottomano

Attorno agli anni 1915–1920, durante e subito dopo la Prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano — definito “l’ammalato d’Europa” — fu formalmente smembrato dai vincitori. Con accordi come:

si pose la base legale e politica per l’istituzione di Israele. Nel 1918, la “Occupied Enemy Territory Administration” britannico‑francese prese il controllo dei territori ex-ottomani, comprese Palestina e Siria.

La fine formale dell’Impero Ottomano avvenne tra il 1920 e il 1923, tra il Trattato di Sèvres e il successivo, più favorevole ai turchi, Trattato di Losanna del 24 luglio 1923 (fonte). Da quel momento, le ex province ottomane furono trasformate in mandati europei o Stati nazionali, con il mandato britannico per la Palestina e la creazione dell’ossatura politica che avrebbe portato a Israele.

Obiettivo britannico

La Gran Bretagna non ha “casualmente” voluto Israele. L’operazione faceva parte di una strategia più ampia per garantire controllo geopolitico nella regione, preservare le rotte verso l’India e contrastare la Francia e l’influenza russa nel Vicino Oriente.

Questo contesto storico non è un episodio “lontano”, ma la base originaria di uno Stato libero dalla sua nascita — certo, anche con motivazioni di redenzione storica per il popolo ebraico — ma indissolubilmente legato a un disegno imperialista europeo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, le nazioni europee erano esauste sotto ogni profilo — economico, politico e militare — mentre la Turchia, forte delle riforme di Atatürk e con un esercito ben strutturato, appariva come un potenziale polo di potere regionale. È proprio in quel momento che l’Occidente, in particolare il blocco anglosassone, vede nell’istituzione di Israele un baluardo strategico per impedire la rinascita di una sfera d’influenza turco‑ottomana.

In questo contesto, la presenza stessa di Israele è funzionale a evitare che la Turchia possa mai essere di nuovo al centro di un impero regionale. Un cuneo militare e ideologico, blindato dall’Occidente, piantato nel cuore del Medio Oriente per evitare ogni ricaduta storica verso una nuova potenza neo‑ottomana.

Dunque, questo è un altro equilibrio artificiale costruito e mantenuto dagli imperi. E adesso poniamoci una domanda cruciale: che succede quando l’impero cade?

La conclusione è netta: non c’è storia. L’egemonia turca, con il suo apparato bellico imponente, renderebbe vana qualsiasi illusione di ordine regionale pacifico per mano occidentale o multilaterale.

In sintesi, se l’impero che oggi sostiene equilibri strategici (Israle + Occidente) cade o sio indebolisce, lascia campo libero a una Turchia militarmente dominante, pronta a forgiare un nuovo ordine nel Vicino Oriente.

Se pensate che lo scontro tra Israele e Iran sia il peggiore scenario possibile, è solo perché non avete ancora immaginato cosa accadrà quando si aprirà il capitolo Israele contro Turchia.

Se mai dovesse configurarsi un confronto diretto tra queste due potenze regionali — entrambe militarizzate, ideologicamente mobilitate e supportate da alleati esterni — il livello di escalation supererebbe di gran lunga quello attuale con l’Iran. Perché mentre Teheran opera attraverso proxy e guerra indiretta, Ankara dispone di un esercito regolare moderno, di armamenti NATO, di una posizione geografica strategica e di una leadership ambiziosa che sogna apertamente un ritorno al ruolo imperiale dell’epoca ottomana.

Questo rende la prospettiva di uno scontro Turchia-Israele non solo più concreta, ma anche potenzialmente catastrofica per l’intera regione.

Il Medio Oriente è una trappola geopolitica, un groviglio di etnie, religioni, nazionalismi e frontiere artificiali. L’unico modo per non affondarvi è restarne fuori, osservando con attenzione ma senza l’illusione di poter “mettere ordine”.

Se auspicate un ruolo maggiore della UE in medio oriente, vi sfugge la storia di quel posto.

Ma a parte questo, quello che innervosisce e' che la storia di Israele viene venduta come una storia per cui gli inglesi diedero una terra agli ebrei, quasi come compensazione per le persecuzioni subite. Non e' cosi'. Israele nasce per limitare le mire imperiali turche.


L’ultima, irritante pantomima che ci viene riproposta ciclicamente dalla stampa occidentale riguarda la presunta distinzione tra le fazioni politiche iraniane: i cosiddetti “moderati”, gli “integralisti” e i “riformisti”. Una rappresentazione teatrale utile solo a rassicurare l’opinione pubblica occidentale, ma priva di reale sostanza.

In realtà, si tratta di correnti interne allo stesso apparato religioso e ideologico che governa la Repubblica Islamica, tutte pienamente inserite nei meccanismi teocratici del sistema. Il confronto tra queste fazioni ricorda molto da vicino le diverse sensibilità presenti, ad esempio, all’interno della Chiesa cattolica: possiamo avere cardinali più “progressisti” o più “tradizionalisti”, ma nessuno sano di mente si sognerebbe di parlare di “integralisti” o “riformisti” come se fossero partiti politici contrapposti, né tanto meno si aspetterebbe da uno di loro una rivoluzione del dogma.

Allo stesso modo, in Iran, le differenze tra queste cosiddette fazioni sono perlopiù di facciata: variazioni di tono, differenze di approccio diplomatico, ma nessuna di esse mette in discussione il ruolo del clero sciita, la guida suprema o la struttura teocratica del paese. Le cosiddette leadership “moderate” non hanno mai prodotto riforme sostanziali né cambi di rotta nei dossier cruciali: né sui diritti civili, né sull’apparato repressivo, né sulle relazioni internazionali.

Le elezioni in Iran sono semmai un meccanismo di cooptazione interna al sistema, in cui i candidati sono pre-selezionati dal Consiglio dei Guardiani. Parlare di “moderati” o “integralisti” in questo contesto è come parlare di “falchi” e “colombe” in un pollaio: restano comunque parte della stessa struttura.

Insistere su questa finzione narrativa serve solo a perpetuare l’illusione che un cambiamento dall’interno sia possibile per via elettorale. Ma la storia recente dell’Iran dimostra che si tratta, appunto, di una pantomima.

Non è del tutto chiaro a chi possa giovare davvero l’illusione secondo cui l’Iran potrebbe mantenere immutata la propria struttura teocratica e il proprio orientamento geopolitico, diventando però — per qualche misterioso processo interno — meno “integralista”, più “aperto” e magari anche più democratico.

Chi coltiva questa fantasia o è ingenuo, oppure ha interessi in gioco che richiedono una narrativa di questo tipo.

È difficile non notare come, ogni volta che l’Iran accenna a una qualche forma di “apertura”, in Occidente si scateni un’ondata di entusiasmo mediatico, spesso del tutto scollegato dalla realtà. Si moltiplicano i commentatori che parlano di “nuove speranze”, di “primavere iraniane”, di “moderati” che finalmente avrebbero voce. E puntualmente, dietro questa narrazione, emergono interessi ben più concreti — economici, energetici, industriali.

Prendiamo ad esempio il caso italiano. L’Italia ha storicamente buoni rapporti commerciali con Teheran, soprattutto nel settore energetico e petrolchimico. Diverse aziende italiane, pubbliche e private, sperano da anni in una piena normalizzazione dei rapporti con l’Iran per riattivare commesse, investimenti e partnership.

Ecco allora che serve una narrativa utile: un Iran che resti abbastanza “iraniano” da garantire la stabilità del sistema (e mantenere soddisfatti i Pasdaran), ma abbastanza “aperto” da permettere investimenti, scambi e cooperazione.

È una costruzione perfetta per far quadrare il cerchio: un regime intoccabile, ma con una verniciatura riformista sufficiente a placare i parlamenti europei e legittimare i contratti. Tutto molto funzionale, finché non si guarda in faccia la realtà.

Perché la verità è che l’Iran non cambierà davvero. Non senza una rottura radicale con la sua architettura teocratica. Ogni altra lettura è propaganda al servizio di interessi economici, travestita da analisi geopolitica.


Uno degli ultimi messaggi deliranti che rimbalza con insistenza sui media, e a cui si è recentemente unito anche Friedrich Merz — leader dell’Unione Cristiano-Democratica tedesca — è l’idea secondo cui impedire all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare sarebbe un “lavoro sporco, ma necessario”. Secondo questa logica, esisterebbe un ristrettissimo club di nazioni legittimate a possedere l’atomica, mentre tutte le altre dovrebbero esserne escluse per motivi... etici? geopolitici? razziali? La motivazione cambia, ma la conclusione è sempre la stessa: noi sì, voi no.

Questo ragionamento è non solo ipocrita, ma anche palesemente irrazionale. Le tecnologie necessarie alla costruzione di un ordigno nucleare sono oggi alla portata di qualsiasi paese con un minimo di struttura industriale avanzata. Turchia, Arabia Saudita ed Egitto dispongono già delle competenze e delle infrastrutture necessarie per avviare, se lo volessero, un programma nucleare militare. Eppure, il panico mediatico esplode solo quando a muoversi in quella direzione è Teheran.

La giustificazione più comune, e anche la più tossica, è che “l’Iran userebbe immediatamente la bomba contro Israele”. È un’accusa gravissima, fondata su nulla, e che per giunta riflette un razzismo implicito: si parte dal presupposto che la leadership iraniana sia irrazionale per definizione, incapace di logiche di deterrenza, incline alla distruzione suicida.

Ma se usiamo lo stesso metro di giudizio, allora dovremmo chiederci: cosa impedisce a Israele di lanciare un attacco atomico contro l’Iran? O contro la Siria? Anche Israele ha l’atomica — sebbene non l’abbia mai ufficialmente ammessa — eppure nessuno sembra preoccuparsi della sua razionalità strategica.

Il problema, evidentemente, non è la proliferazione nucleare in sé. Il vero nodo è chi viene considerato “affidabile” dal punto di vista occidentale e chi no. La bomba in mano a una democrazia occidentale è vista come strumento di equilibrio; in mano a un paese fuori dall’orbita NATO, diventa automaticamente una minaccia esistenziale.

Qual è, dunque, il criterio? Chi stabilisce chi è “maturo” abbastanza per possedere l’atomica? E con quale autorità morale? Perché una cosa è certa: non esiste alcuna coerenza logica né etica in questo approccio. Solo la volontà geopolitica di mantenere un ordine gerarchico mondiale dove la forza è un privilegio di pochi, mentre agli altri si chiede obbedienza e buon comportamento.

Se si volesse davvero parlare seriamente di non proliferazione, si comincerebbe con un disarmo multilaterale, credibile e vincolante. Ma questo, ovviamente, non è neanche lontanamente all’orizzonte.

Anche questa idea — ovvero che solo alcune nazioni siano legittimate a possedere armi nucleari — è figlia di un equilibrio artificiale, figlio diretto dell’assetto geopolitico uscito dalla Seconda guerra mondiale. È lo stesso principio che ha prodotto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con i suoi cinque membri permanenti dotati di potere di veto: un'aristocrazia nucleare sancita dal diritto internazionale, frutto della divisione imperiale del mondo tra blocchi di potere.

All’epoca della fondazione dell’ONU, nel 1945, questa architettura poteva forse avere un senso: si trattava di congelare il mondo in una fragile tregua tra vincitori, stabilizzando un ordine che impedisse una nuova guerra mondiale. Ma oggi quel sistema è una reliquia che stride con la realtà del mondo multipolare contemporaneo.

L’elenco dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza — Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti d’America — è oggi palesemente obsoleto. La composizione non riflette più né i veri equilibri economici né le dinamiche demografiche globali.

Come si può giustificare l’esclusione di attori fondamentali come l’India, la più popolosa democrazia del mondo, che pure ha l'atomica? A che titolo il Regno Unito, con una popolazione di circa 67 milioni e un’influenza globale in evidente declino, mantiene un potere di veto in seno all’ONU, mentre l’India, con oltre 1,4 miliardi di abitanti e una crescita economica tra le più rapide al mondo, resta fuori dalla stanza dei bottoni, pur avendo a sua volta l'atomica?

È evidente che siamo di fronte a un equilibrio artificiosissimo, mantenuto in vita unicamente dal peso storico e militare degli imperi che l’hanno forgiato. Non ha alcuna legittimità democratica, né aderisce più al principio di rappresentanza delle potenze reali del pianeta.

Questa architettura serve solo a congelare il potere di chi già lo detiene, impedendo l’evoluzione naturale degli equilibri globali. Ma come tutti gli equilibri imposti dall’alto, anche questo è destinato a incrinarsi, e infine a crollare.

Abbiamo dunque davanti a noi un bivio molto chiaro: o si agisce prima che questo equilibrio artificiale crolli in modo rovinoso, oppure si accetta che il mondo si frantumi in una miriade di “Coree del Nord”, ognuna dotata del proprio arsenale atomico, governata da regimi paranoici pronti a tutto per conservare il potere. Non è una previsione distopica: è una semplice conseguenza di ciò che accade quando le regole imposte dai vincitori di una guerra diventano anacronistiche.

A proposito di proliferazione nucleare: è noto che Israele ha sviluppato il proprio arsenale atomico in collaborazione con il regime dell’apartheid sudafricano, in violazione di ogni trattato internazionale. Documenti declassificati nel 2010 hanno rivelato che il governo sudafricano offrì uranio arricchito a Israele in cambio di testate nucleari, in una trattativa riservata tra Shimon Peres e il ministro della difesa sudafricano P.W. Botha nel 1975.(Fonte : “The Unspoken Alliance: Israel's Secret Relationship with Apartheid South Africa”, Sasha Polakow-Suransky, 2010. Confermato anche da documenti declassificati pubblicati dal Guardian (24 maggio 2010))

E se allora fu possibile aggirare ogni protocollo internazionale per costruire bombe atomiche in segreto, cosa impedisce oggi a un leader come Kim Jong-un di vendere una testata all’Iran, in cambio di cooperazione diplomatica o strategica? O a Putin, in un momento di isolamento e pressioni crescenti, di cedere tecnologia nucleare in cambio di appoggi nell’arena internazionale o sul fronte ucraino?

Chi si illude che la non proliferazione sia una questione puramente tecnica, e non politica, sta ancora ragionando con la logica del 1945: un mondo diviso tra “potenze responsabili” e “nazioni sorvegliate”, in cui tutto si tiene grazie a un ordine imposto dall’alto.

Ma quell’ordine è morto, anche se nessuno vuole pronunciarne il funerale. Continuare a combattere per tenere in piedi un sistema di controllo nato ottant’anni fa, che esclude metà del pianeta dalle decisioni globali, significa solo ritardare l’inevitabile. E aumentare il rischio che il crollo non sia graduale, ma caotico. Perché se l’equilibrio è davvero artificiale, il giorno in cui salta, non ci saranno piani B.


Ecco, sarebbe ora di smetterla di propagare queste idee come se fossero vive e moderne.

Altrimenti, stiamo solo annaffiando fiori morti.

Uriel Fanelli


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