E' tempo di crociate.

E' tempo di crociate.

Siamo ormai alle soglie di Ferragosto, e nulla sembra galvanizzare il maschio contemporaneo più di una crociata in piena estate. D’altronde, parliamo di una creatura che non tocca cibo senza un impiattamento degno di una mostra fotografica, e che non si concede al sesso se non in presenza di una top model — il che, nella pratica, significa ... mai.


Questa volta, però, la chiamata alle armi è davvero seria. Urgente, persino. Perché non si tratta di una battaglia qualsiasi, ma di una crociata pura, santa e necessaria contro una delle specie più invadenti e moleste del panorama umano: i gastrofighetti.

So bene che, in fondo, la colpa non è interamente loro. La nascita del gastrofighettismo ha radici precise e, per quanto mi pesi ammetterlo, quasi logiche. La prima è la proliferazione di quelle trasmissioni da ciarlatani della cucina — capofila, ovviamente, il famigerato MasterChef — che hanno instillato in milioni di italiani l’illusione di essere raffinati esperti di gastronomia. Bastava aver visto tutte le puntate per sentirsi investiti di un’aura da chef stellato.


Un po’ come credere che guardare in sequenza l’intera filmografia di Valentina Nappi ti trasformi, per misteriosa osmosi, in un consumato pornoattore: stesso meccanismo, stesso livello di autoinganno, solo con più grembiuli e meno lubrificante.

Del resto, quando una trasmissione televisiva arriva a proporre al pubblico realtà come la “Confraternita del baccalà alla vicentina” o l’“Ordine del bollito piemontese”, il mondo non può che spaccarsi in due fazioni ben distinte.
Da un lato, ci sono quelli che percepiscono immediatamente la deriva grottesca e imbarazzante della situazione, e che, pur di dissociarsi, iniziano a dichiarare in giro di essere spagnoli, islandesi o persino apolidi.
Dall’altro, troviamo i soggetti privi di senso del ridicolo, di pudore e di un minimo di dignità civile: anime candide — o forse irrimediabilmente perse — che prendono sul serio simili congreghe culinarie come se fossero accademie platoniche, pronte a discutere del sacro taglio della cipolla con la stessa gravità con cui un tempo si dibatteva del destino dell’Impero romano.


Oggi, senza timore di smentita, possiamo affermare che MasterChef abbia completamente stravolto — e in buona parte rovinato — la percezione che gli italiani avevano della cucina.
Il problema è che l’italiano medio già partiva da una base piuttosto ingenua: è cresciuto con l’idea rassicurante che la mitica “Nonna Amelia” passasse le giornate a sfornare crostate e tagliatelle, incarnando la saggezza culinaria di un’epoca perduta.


Peccato che, se oggi hai vent’anni, la tua “nonna” appartiene con ogni probabilità alla generazione dei rave illegali: tatuaggio lombare in bella vista, piercing strategico in zona genitale e una competenza dolciaria limitata a torte che contengono quantità illegali di erba verde.

E qui arriviamo al primo nodo della questione: chi è, in concreto, il gastrofighetto?

Si tratta di una creatura recente, una specie di neotenia, frutto di precise circostanze generazionali. Anzitutto è abbastanza giovane da avere avuto una madre totalmente inetta in cucina: una donna che, per dirla senza giri di parole, riesce a bruciare il cibo persino quando si tratta di uova sode.

Per motivi anagrafici e sociali, il gastrofighetto è cresciuto in un appartamento senza orto, senza piante di pomodoro che maturano al sole, senza pentoloni ribollenti di salsa rossa su un fuoco vivo nel cortile. Non ha mai sentito il profumo di un passato di pomodoro fatto in casa, perché il regolamento condominiale lo vieta e, anche se fosse permesso, sua madre non saprebbe nemmeno da dove cominciare. Il massimo della vita per lui e' andare in qualche trattoria, o a sfondarsi di kebap. Sia chiaro: kebap d'autore.

La sua infanzia alimentare si è svolta quindi tra cibi pronti, scaldati in padella quando la genitrice voleva sentirsi sofisticata, o buttati nel microonde quando non aveva alcuna voglia di fingere. È cresciuto così: senza il concetto di stagionalità, senza il sapore vero delle cose, ma con una grande fiducia nel packaging e nelle scritte “gourmet” stampate sopra.

E' cresciuto mangiando cose come:

  • Lasagne surgelate Findus o Buitoni (versione “alla bolognese” fatta con carne che ha visto Bologna solo in cartolina)
  • Cannelloni ricotta e spinaci da banco frigo, pronti in microonde
  • Risotti in busta Knorr o Star (alla milanese… senza zafferano vero)
  • Pizza surgelata ItalPizza o Cameo Ristorante
  • Bastoncini di pesce Findus (cibo d’infanzia e di penitenza)
  • Minestre pronte in brick (Zuppa Toscana o Passato di verdure sterilizzato)
  • Parmigiana di melanzane surgelata Aia Food o Buitoni
  • Ravioli al vapore pronti Cameo (per sentirsi “internazionali”)
  • Torte salate confezionate (Rustica o “sfoglia spinaci e ricotta”)
  • Sughi pronti in barattolo Barilla o Mutti (“arrabbiata” che non ha mai visto un peperoncino vero)

È ovvio che, dal suo appartamento poverchic a due passi dal centro, arredato con finiture di “preggio” e piastrelle che costano quanto un monolocale in provincia, il gastrofighetto accenda la televisione e, alla vista di Cannavacciuolo che esegue lo stress test sfidando i concorrenti a cuocere venti uova fritte di fila, percepisca di aver trovato il suo personale Shangri-La gastronomico.
Come sarebbe a dire che le uova fritte… si fanno? Non si comprano già pronte, impacchettate in vaschette monoporzione dal banco frigo, pronte a essere scaldate?
E ancora: come sarebbe a dire che un cuoco può preparare una tartare? Ma il macinato non si raccoglie forse nella mistica “Valle degli Orti”, sotto lo sguardo benevolo dell’Uomo del Monte, pronto a dire di sì?

È ovvio che, per il gastrofighetto — cresciuto a cordon bleu surgelati e purè in busta, in un monolocale poverchic di Cologno Monzese con vista privilegiata sul parcheggio del centro commerciale — la visione di MasterChef equivalga a un’epifania mistica.
All’improvviso, il programma gli spalanca orizzonti insospettabili, iniziandolo a segreti che credeva appannaggio di logge segrete e ordini iniziatici. Scopre così mirabolanti concetti come:

  • Che l’acqua della pasta si deve salare prima di buttare la pasta (e no, non basta “sentire” il dado Star che fa l’occhiolino).
  • Che il sale grosso non nasce già appiccicato agli spaghetti dentro il pacco.
  • Che il pomodoro fresco non è un “formato speciale” di salsa in tubo.
  • Che il prezzemolo non cresce in micro-buste trasparenti nel banco frigo.
  • Che le uova possono essere cucinate in più di due modi: strapazzate o al microonde.
  • Che “rosolare” non significa “bruciare tutto finché il fumo fa partire l’allarme antincendio”.
  • Che il pesce può essere comprato anche senza impanatura surgelata attorno.
  • Che il vino da cucina non è una confezione di Tavernello con l’etichetta strappata.
  • Che la carne tritata non proviene dalla mitica “Valle degli Orti” dove l’Uomo del Monte decide il grado di macinatura.

E, soprattutto, che l’olio extravergine non è olio dove nessuno ha mai immerso il cazzo, come credeva sino a qualche minuto prima.


In definitiva, per ottenere il perfetto esemplare di gastrofighetto — quello ossessionato dalla nozione che nella carbonara deve esserci il guanciale, come se la vita stessa dipendesse da questo dogma — serve una combinazione di disastri generazionali.
Il primo ingrediente è una generazione di madri che, in cucina, incarnano la rappresentazione culinaria di Chernobyl: zone interdette, odori tossici e conseguenze che si protraggono per decenni. Non basta però la sola mamma incapace di cuocere un uovo sodo senza bruciarlo — anche perché, a occhio e croce, per lei un uovo sodo richiede due o tre ore di forno ventilato — occorre un ulteriore cataclisma.
Ed ecco entrare in scena le nonne sessantottine e settantasettine: vecchie punk raggrinzite, figlie dei fiori ridotte a ossa e pelle, e, spingendosi di qualche anno più in là, ravers sopravvissute a ogni genere di eccesso. Donne che hanno collezionato più esperienze orali che ricette, e per le quali la cucina è sempre stata un ambiente estraneo.
Gente che, se provi a dire “questa salsa è un po’ acida”, non ti chiede di che pomodoro sia fatta, ma quanti euro costa la pasticca.

E quando la nonna riesce a essere persino più incompetente in cucina della madre, allora sì che il disastro è completo.


Si accende la TV, mentre sul tavolo passano spinaci riscaldati in padella e ravioli “della nonna” — rigorosamente scaldati al microonde — e sullo schermo appare MasterChef, pronto a spalancare universi di magie culinarie mai immaginate.
E non parliamo della pubblicità, che trasforma la mitologica Nonna Amelia in una sorta di Nonna Papera in versione Homo sapiens, intenta a fare tagliatelle come in un documentario antropologico. La si vede, con amore, stenderle sul matterello sospeso tra due sedie e preparare un ragù con la stessa devozione di una leonessa che lecca i cuccioli appena nati.

Peccato che la realtà sia leggermente diversa: da giovane, “nonna” si faceva chiamare Cessa e pranzava direttamente dal bidone dell’immondizia.
Nella foto promozionale, Nonna Amelia e Nonna Rosetta: una delle due sembra più vecchia solo per via dell’overdose di eroina avuta nel 1979.

Nella foto, Nonna Amelia e Nonna Rosetta. Una delle due sembra vecchia per via dell'overdose di eroina avuta nel 1979.

Questa somma di fame da cibo domestico, Kebap da due soldi - ma molto poverchic - e incompetenza totale fa credere ai poveri ragazzi italiani che

  • il Baccala' alla vicentina sia una prelibatezza degna di Artusi.
  • il bollito piemontese sia qualcosa di diverso dalla ricetta dei cannibali dell'uganda, cioe' pezzi di carne bollita.
  • la Pasta alla Carbonara sia l'apice mai raggiunto dalla cucina italiana.
  • il Prosecco sia un vino.
  • e infine, di sapere qualcosa di qualsiasi cosa sulla "tradizione italiana".

È necessaria, oggi più che mai, una crociata contro i gastrofighetti.
Parlo di quelli che del cibo sanno solo ciò che hanno sentito dire in televisione, perché a casa loro si è sempre mangiato in modo indecente. Quelli che, da bambini, hanno addentato il famigerato tortino alla marijuana di nonna — unico vero capolavoro culinario della famiglia — e oggi, con l’aria sognante di chi rievoca i tempi d’oro, raccontano in giro che la suddetta nonna sfornava crostate paradisiache. Omettono, naturalmente, il dettaglio che il “paradiso” in questione durava sei ore e includeva visioni mistiche di lampadari parlanti.

E che dire, poi, dei nuovi chef?
Ve lo dico chiaro: se per caso entro nel vostro ristorante e vi chiedo una carbonara, non voglio percepire nemmeno l’ombra del sapore dell’acqua di cottura. Zero. Nada. Niente.


La pasta alla carbonara me la sapevo fare a dieci anni — e senza il trucchetto dell’acqua di cottura per “mantecare” e ottenere la crema. Perché non serve. Se seguite l’ordine corretto nella preparazione, il rosso d’uovo è più che sufficiente per dare alla salsa la consistenza perfetta.

Portatemi un piatto in cui galleggia acqua di cottura e ve lo tiro in faccia, senza esitazione. E potete risparmiarvi le vostre giustificazioni poverchic, quei pistolotti pseudo-tecnici da rivista patinata: sono aria fritta, e nemmeno quella sapete farla bene.


Qual'e' il casus belli? Succede che sono venuto a fare qualche giorno di ferie in Italia. E succede che una mamma che NON e' stata punk, e se sapete fare due conti, sapete capire che eta' abbia, decide di farmi una zuppa di ceci. Ricetta adattissima, ovviamente, ad un ferragosto afoso. Chi non sogna una bella zuppa di ceci calda a Ferragosto?

Comunque, siccome litigare con una mamma non serve oltre ad una certa eta', ecco che se ne parte con la ricetta canonica.

Che richiede e contiene questo.

Ebbene si. Spaghetti spezzati. A pezzi piccoli.

E questo perche' il risultato appare in questo modo:

Voi direte: “E vabbè, ovvio che spezzi gli spaghetti.”
E invece no.
Perché il gastrofighetto, un giorno, ha visto su YouTube che “gli spaghetti non si spezzano mai”. E poco importa se, nella tradizione italiana, gli spaghetti spezzati sono sempre esistiti: nelle zuppe di paese, nel minestrone di verdure, nelle paste e fagioli che hanno sfamato generazioni.
Per lui la verità è quella del tutorial online, e tutto il resto è eresia. Così, forte della sua laurea honoris causa in cucina conferitagli da un algoritmo, difende il dogma a spada tratta.
E pazienza se le loro nonne punk, figlie di un’epoca in cui il cucinare era un’attività esotica, non hanno mai conosciuto — né tantomeno tramandato — queste tradizioni. Del resto, per loro, il mestolo è sempre stato uno strumento musicale da percuotere a tempo di ska.

Diciamolo pure: se vi sentite dei maestri della cucina italiana solo perche' sapete che bisogna salare l'acqua della pasta, e' perche' a casa vostra la pasta era quella liofilizzata comprata al supermarket. Altrimenti sarebbe senso comune.

Comunque, per tornare a bomba, mettendo la foto degli spaghetti spezzati su un social, mi sono sentito dire che "essendo un expat, hai perso il senso della tradizione italiana". Per un piatto, cioe' una zuppa di ceci che esistera' da un millennio, che esisteva prima che Bastianic si pulisse il culo col vostro tiramisu', facendovi poi pagare i suoi tarzanelli come "gocce di cacao".


E non finisce certo qui. Perché il gastrofighetto vive immerso in un catechismo di verità rivelate da YouTube, da cui attinge dogmi intoccabili come:

  • L’olio d’oliva non si mette mai nell’acqua della pasta (salvo poi condire l’insalata con l’olio di semi “perché è più leggero”).
  • La pasta non si sciacqua mai sotto l’acqua fredda… tranne quando serve “bloccare la cottura” della sua insalata di farfalle al tonno in scatola.
  • La pizza vera deve cuocere 90 secondi netti in forno a legna — anche se lui vive in un monolocale con forno elettrico che scalda meno di un termosifone spento.
  • Il sushi va mangiato solo con bacchette di bambù… che lui tiene rigorosamente al contrario.
  • Il vino rosso si serve a temperatura ambiente, anche se siamo a Ferragosto e la bottiglia è stata sul davanzale al sole.
  • La carne va fatta “riposare” dieci minuti… tempo che lui usa per impiattarla su un tagliere Ikea e fotografarla per Instagram.
  • Il coltello giusto cambia tutto — motivo per cui possiede un set di coltelli giapponesi che usa solo per aprire i pacchi di Amazon.

Perché la regola fondamentale del gastrofighetto è questa: non importa se una cosa ha senso o no, l’importante è averla sentita in un video con sottofondo di musica lo-fi e sottotitoli in Helvetica.


Serve una Crociata.

Una spietata, senza quartiere. Con tanto di inquisizione pronta a processare i miscredenti e a pronunciare sentenze esemplari.
Non sai cosa sono gli agnolotti al plin? Impalato all’istante.
La parola Cjarsòns non ti dice nulla? Al rogo, e senza nemmeno la grazia del boia.
Ignori i pici all’aglione? In pasto ai leoni, che almeno servirai a qualcosa.
Mai assaggiati i maccheroni alla molinara? Scuoiato vivo, con tanto di commento tecnico della folla.
Non riconosci la zuppa catanese di pesce e finocchietto? Squartato con quattro cavalli da tiro, come nei tempi migliori.
Non sai preparare il maccu di fave? Non meriti di respirare la stessa aria degli esseri umani.
E se il nome Taccu marchigiano non ti evoca nulla? Tatuaggio infamante sul braccio e via, diretto nelle docce.