E cade la maschera di Harvard

Questo blog non si inchina né ai santi né ai martiri, qualunque sia la fila in cui decidano di mettersi. Che oggi Harvard venga issata sul patibolo come l’ennesima vittima sacrificale di Trump non cambierà una virgola di ciò che sto per scrivere. Perché nel gran teatro della narrazione su Harvard, ci stiamo dimenticando un dettaglio minuscolo ma decisivo: non era questo il volto che ci avevano venduto. E quando l’odore comincia ad assomigliare più a quello di una truffa che a quello del prestigio, forse è il caso di tapparsi il naso e aprire gli occhi.

Facciamo un salto indietro, giusto per rinfrescarci la memoria. Quando, anni fa, qualcuno osava sollevare il problema dell'élitismo soffocante di Harvard — con rette da capogiro e costi di vita degni di una monarchia del Golfo — la risposta era sempre la stessa, scolpita nel marmo dell’ipocrisia: “È un’università privata, al massimo uno studente può chiedere un mutuo per godersi il privilegio di frequentare un’istituzione d’eccellenza”.

E guai a non ringraziare se per caso si riceveva una borsa di studio: poche, rare, distribuite come indulgenze papali. Del resto, ce lo spiegava già l’evangelista Milton Friedman: Harvard è un’azienda, e in quanto tale non ha obblighi sociali. Deve vivere delle sue entrate, punto. Se l’istruzione è un prodotto, allora gli studenti sono clienti e nessuno regala la merce al supermercato.

Fin qui, il ragionamento sembrava persino coerente: niente soldi pubblici, niente doveri pubblici. Harvard, si diceva, era l’epitome del vero privato americano, quello cool, quello efficiente, quello che non chiede nulla alla società e quindi non deve nulla ai poveracci. La beneficenza, si sa, non è mai stata di moda nei consigli d’amministrazione.

Finché non arriva Trump. E a quel punto, come un macellaio in un salotto buono, inizia a incidere dove fa male: comincia a cavare fuori quanto lo Stato — sì, quello stesso Stato che Harvard dichiarava di non volere tra i piedi — le passasse in realtà montagne di denaro pubblico. Non noccioline: miliardi. Così, senza neppure troppa discrezione.

Un attimo. Fermi tutti. Ricapitoliamo: l’università più privata, più indipendente, più market-oriented dell’universo conosciuto... prendeva soldi pubblici? Non solo li prendeva, ma li prendeva a palate. Mentre predicava l'autosufficienza come un monaco predica la castità. Il castello di carte comincia a traballare, e l’odore di ipocrisia si fa più pungente.

Ma Trump non si ferma qui. Decide anche di mettere mano ai vantaggi fiscali. Che, attenzione, non sono esattamente “soldi dati” — sono peggio. Sono soldi non riscossi. Grazie al famigerato Internal Revenue Code, Section 501( c)(3), Harvard è classificata come non-profit educational institution. Questo significa: esenzione totale dalle imposte sul reddito. E come se non bastasse, niente tasse sulla proprietà (grazie ai benefici locali concessi dallo Stato del Massachusetts), esenzione da imposte su donazioni e fondi endowment, e ovviamente deducibilità totale per i donatori. Il tutto condito dallo Tax Reform Act del 1969, che cristallizzò l’immunità fiscale per gli endowment universitari.

In pratica: un intero arsenale fiscale costruito per proteggere un’istituzione che, teoricamente, dovrebbe di conseguenza servire il bene pubblico. E che invece, con i suoi oltre 50 miliardi di dollari di endowment, fa investimenti speculativi in hedge fund mentre si fa rimborsare il rotolo di carta igienica dal contribuente.

E qui viene il colpo di scena tragicomico: Harvard, che per decenni ha rivendicato con orgoglio la sua privatissima privatitudine — “noi non siamo responsabili di nulla, siamo privatoprivatoprivatììììì!” — si rivela essere più dipendente dalla mammella pubblica di quanto lo siano certe municipalizzate da terzo mondo.

E come se non bastasse, salta fuori un’altra perla: i suoi studenti stranieri beneficiavano, udite udite, di una procedura speciale e accelerata per ottenere il visto di studio. Un canale preferenziale. Un fast track istituzionale, reso possibile grazie a programmi federali come il Student and Exchange Visitor Program (SEVP), gestito dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE), che mantiene accordi diretti con le università accreditate. Chi paga? Harvard? Ma figuriamoci. Pagava lo Stato. Ancora lui. Quello che Harvard teoricamente ignora, disprezza e considera un fastidio regolamentare. E tutto questo, mentre il coretto degli adoratori del “modello americano” in Europa cantava in falsetto “eh, ma è privata, fa quello che vuole!”

Già. Fa quello che vuole, coi soldi di tutti. E con una benedizione legale cucita su misura.


Ed eccoci arrivati al cuore della farsa. Il “privato” privatissimo, l’élite dell’élite, che pretende dagli studenti mutui ventennali per poter varcare i suoi cancelli dorati — ed è pure giustificato, si dice, perché è un privato — in realtà, privato non lo è affatto. È un’organizzazione non-profit. Anzi, secondo la legge americana, è una 501©(3): tecnicamente una charitable organization a scopo educativo. Tradotto per i comuni mortali: una ONLUS col pedigree.

E in quanto tale, non paga un centesimo di tasse sul reddito. Zero. Nada. Il suo patrimonio, stimato in oltre 50 miliardi di dollari di endowment, cresce ogni anno grazie a investimenti finanziari che nessun fisco osa toccare. Il Tax Reform Act del 1969 e successive modifiche, con l’aiutino del Internal Revenue Code, le garantiscono un ombrello fiscale che nemmeno la famiglia reale britannica.

In parole povere, Harvard riceve moltissimo dalla società. E non parliamo solo di elargizioni pubbliche dirette, ma anche di esenzioni, sussidi impliciti, e privilegi normativi che valgono miliardi. Quelli sono soldi del contribuente, cazzo. Non puoi, con la faccia serafica del profeta, predicare distacco sociale ed esclusività quando il contadino del Minnesota — quello che forse non sa nemmeno dove si trovi il Massachusetts — ti finanzia in silenzio con le sue tasse.

Perché, diciamolo chiaramente, i casi sono due. Primo caso: prendi soldi dallo Stato. Ricevi benefici, sgravi, immunità. Allora hai una responsabilità sociale. Devi rendere conto. Devi includere, non escludere.

Secondo caso: vuoi essere il puro modello di libero mercato? Bene. Allora niente fondi pubblici, niente agevolazioni, niente codicilli. Ti sostieni da solo, come ogni altro attore del capitalismo feroce che tanto idolatri. Ma la comoda via di mezzo, in cui si prende tutto il meglio di entrambi i mondi e si restituisce nulla, non regge più.

E qui crolla la narrativa — non solo di Harvard, ma dell’intera Ivy League. Non sono eccellenti nonostante siano private. Lo sono perché sono no profit coccolate dallo Stato. E tuttavia, non disdegnano di spremere gli studenti fino all’ultima goccia, con rette astronomiche e debiti da saldare fino alla pensione.

Il martire? Macché martire. Nemmeno un santo. Al massimo un abile contorsionista fiscale. E quando la caccia al cinghialone finirà di puntare il mirino su Trump, forse qualcuno inizierà a domandarsi com’è possibile che per decenni — o forse per secoli — il mondo intero si sia bevuto questa fiaba in salsa Ivy, servita con il cucchiaio d’argento e l’etichetta dell’eccellenza.


Perché basta gettare uno sguardo oltre l’Atlantico — verso quella vecchia, decrepita, inefficiente Europa che tanti negli USA adorano disprezzare — per assistere a un confronto che definire impietoso è un eufemismo. Sì, proprio noi, i maledetti comunisti europei, con le nostre università pubbliche, accessibili, spesso gratuite o quasi, che non costringono intere generazioni a ipotecare il proprio futuro per ottenere un titolo di studio.

Eppure, sorpresa: se si sommano i fondi pubblici diretti, le esenzioni fiscali, i vantaggi normativi e i sussidi impliciti, lo Stato americano spende molto di più, pro capite, per mantenere le sue università cosiddette “private”, di quanto gli Stati europei spendano per le loro pubbliche. È l’ennesima magia del capitalismo truccato: l’università si traveste da ente privato quando deve giustificare la selezione, l’élitismo e i prezzi da finanziaria svizzera; ma dietro le quinte incassa fondi pubblici a pioggia, sgravi milionari, privilegi fiscali e aiuti federali.

E il bello è che, in cambio, non restituisce nulla. Nulla in termini di accesso, nulla in termini di equità, nulla in termini di responsabilità sociale. Al massimo qualche post su Instagram con studenti sorridenti sotto alberi secolari.

Ricordate quando Trump minacciò di tagliare i fondi a queste università? Le reazioni furono esilaranti. La gente si stringeva nelle spalle, con quel sorrisetto da superiorità morale che spesso accompagna l’ignoranza: “Ma quali fondi? Sono privati!”. E invece no. Quando il rubinetto ha cominciato a chiudersi, si è sentito un urlo collettivo provenire da Harvard, Columbia e altri. Un urlo acuto, indignato, vagamente isterico. Non sembravano esattamente dei privati. Sembravano, piuttosto, azionisti dell’erario.

La morale? Semplice. L’università americana non è “un tempio del merito privato”. È un gioco delle tre carte. E qualcuno, prima o poi, dovrà chiedersi come sia stato possibile scambiare questo marchingegno per un modello di “privato di eccellenza”.


Questo non è un post in difesa o in accusa a Trump. Non mi interessa stabilire se abbia ragione o meno. Quello che mi interessa — profondamente — è mettere sotto la luce cruda dell’evidenza l’ipocrisia di fondo del mito americano, nella sua declinazione più tossica e patinata: Harvard. Il tempio laico dove il potente Dio Mercato, entità ultraterrena più efficiente di qualunque governo (concetto ormai bollato come “socialista”), amministra la giustizia del merito. Un luogo dove tutto è guadagnato, nulla è regalato, e nessuno deve nulla a nessuno.

Ci avevate creduto? Sul serio?

Bene. Allora, se non altro, questo scontro con Trump avrà avuto un merito: mostrarci come, nella terra del “privato che funziona”, il governo americano sia riuscito a collezionare oltre 33 trilioni di dollari di debito pubblico. Un’impresa non da poco, per uno Stato che — a sentir loro — non dovrebbe nemmeno aver bisogno di spendere, perché “ci pensa il privato”.

Ma a quanto pare, quel “privato” è spesso solo un ente pubblico in maschera. Una creatura parastatale travestita da superuomo del capitalismo. L’emanazione diretta non del mercato, ma della fiscalità generale. E Harvard ne è il più fulgido esempio: l’università che si autodefinisce indipendente, meritocratica, purissima... e che però, alla prima stretta di bilancio federale, inizia a tremare come un ente assistito qualsiasi.

La mascherata è finita. Se basta un tweet minaccioso di un presidente a far saltare sulla sedia tre rettori della Ivy League; se Harvard oggi grida alla persecuzione perché le vengono negati fondi pubblici e agevolazioni fiscali — che, ricordiamolo, arrivano dritti dritti dalle tasse dei cittadini — allora è evidente che qualcosa non torna.

È evidente che quell’idea di “privato eccellente”, incarnata da Harvard e venduta al mondo come l’apice della civiltà accademica, è crollata. Non era eccellenza, era privilegio travestito. Non era libertà di mercato, era rendita di posizione. E non era indipendenza: era dipendenza profonda, strutturale, sistemica, dal denaro pubblico che si fingeva di disprezzare.

E così, tra i marmi dei campus e le litanie sul merito, oggi resta solo l’eco di una farsa. Un sogno che si è svegliato — e si è scoperto indebitato.

Quell'idea di “privato eccellente”, rappresentata da Harvard, e' caduta.

Almeno, qualcosa di buono succede.

E dovrebbe farci riflettere. Vero, cari bocconiani?

Uriel Fanelli


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