Dolore bestiale.

Dolore bestiale.

Non dormo da giorni.
La notte è una distesa grigia e umida, un lenzuolo che mi soffoca e mi avvolge.
Ho provato a restare immobile, ad ascoltare il ticchettio dell’orologio, sperando che il tempo mi ipnotizzasse. Invece ogni battito è un colpo al petto, un richiamo al pensiero che non smette mai di rodere.

Esco a camminare. Il buio della strada mi accoglie come un vecchio complice, ma non c’è conforto. L’aria è densa, impregnata di un silenzio ostinato. Non passa nessuno. Nemmeno i gatti hanno voglia di muoversi. Le serrande abbassate mi guardano con occhi spenti. Penso che anche loro, in fondo, sentano la stessa desolazione che sento io.

Il giorno non porta sollievo. Le tende lasciano filtrare una luce che non scalda, un bianco slavato che mi fa male agli occhi. Apro la finestra: il vento porta con sé l’odore di qualcosa di distante e irrimediabilmente perduto. Lo sento nei polmoni, nello stomaco, nelle ossa. Mi appoggio al davanzale e resto lì, fermo, mentre un pensiero circolare mi morde la testa.

Mangiare è diventato un atto meccanico, senza gusto. Il pane si sbriciola tra le dita, il caffè è amaro e tiepido. Non ho fame. Non ho sete. Solo una fame diversa, una sete che niente può placare. Ho provato a leggere, a guardare un film, a scrivere. Tutto si scioglie in pochi minuti in quella sostanza vischiosa che è l’ansia.

La gente intorno non capisce. Mi parlano con parole piene, dense, e io rispondo con vuoti. Mi chiedono cosa ho, e io scuoto la testa, come se non sapessi. In realtà lo so fin troppo bene, ma dirlo sarebbe come strappare un velo che, per quanto opaco, ancora mi protegge.

Ogni volta che passo davanti al mare, sento una fitta che parte dal collo e scende giù, fin nello stomaco. Le onde si muovono lente, indifferenti, come se non portassero nessun peso. Ma io lo porto, e ogni loro risacca sembra ricordarmelo. L’orizzonte non è più un confine, è una ferita.

Ho iniziato a evitare certi luoghi. Le piazze soleggiate, le voci allegre, i pomeriggi spensierati: mi feriscono più di qualsiasi ricordo. Vedo le persone ridere, brindare, scambiarsi promesse leggere, e dentro di me qualcosa si tende, pronto a spezzarsi. Cammino altrove, scelgo strade secondarie, marciapiedi crepati, muri scrostati. Ci sono meno occhi lì, e meno pericoli di inciampare in ciò che non voglio affrontare.

Eppure anche da lontano, anche nascosto, tutto torna sempre a galla.
Di notte, nel buio, sento il rumore delle onde anche se non c’è mare vicino.
Di giorno, nel traffico, nei clacson, nei passi frettolosi, sento echi di quella stessa vibrazione che mi tiene sveglio.

Ho iniziato a contare i giorni, ma poi ho smesso: non serviva a niente. Ho provato a scrivere per dare un nome a ciò che sento, ma la penna si ferma sempre nello stesso punto, e io resto lì a fissare l’inchiostro, con la mano che trema.

Ci sono mattine in cui credo di poter reagire. Apro la finestra, lascio entrare l’aria, mi vesto, esco. E per qualche ora mi illudo che le cose siano più leggere, che tutto sia un malinteso, che basterà poco per tornare a respirare. Ma poi arriva un dettaglio — una parola, un colore, un odore — e la morsa ricomincia. È come se il mondo fosse pieno di mine pronte a esplodere, e io ci camminassi sopra a piedi nudi.

Ho visto altri soffrire, e ho pensato che fosse diverso, che fosse sopportabile. Mi sbagliavo. Questa è una fame che non si placa, una sete che non trova acqua. Questa è un’inquietudine che non ha stagione, che non conosce tregua. Ogni alba è solo un tramonto rovesciato.

La notte scorsa mi sono svegliato con il cuore che batteva come un tamburo. Ho acceso la luce, ho guardato le pareti. Bianche, lisce, silenziose. Ho sentito un vuoto nello stomaco, un freddo nei polsi. Ho pensato: “Non può continuare così. Qualcosa deve cambiare.” Ho camminato fino alla cucina, ho versato un bicchiere d’acqua. L’ho bevuto piano, cercando di capire se era questo che volevo. Non lo era.

Non lo è mai.

È che i balneari sono in crisi. Sono i crisi.

Come puoi essere felice, cosi'?