"Di chi sono" le immagini? E perche'?

"Di chi sono" le immagini? E perche'?

L’irruzione delle intelligenze artificiali, insieme alle polemiche sull’uso giudicato “illegittimo” delle immagini di alcune figure politiche femminili, ha riportato a galla una questione che molti fingono sia giuridica, ma che in realtà si colloca soprattutto sul terreno dell’informatica e della cultura digitale. Intorno a queste immagini, infatti, si moltiplicano rivendicazioni bizzarre e pretese improbabili, accomunate da un medesimo leitmotiv: “poiché io appaio in quella fotografia, allora ne sono automaticamente il proprietario, e nessuno può utilizzarla, commentarla o reinterpretarla senza il mio permesso”.

È un’illusione che assume forme diverse ma sempre riconoscibili. Nel caso delle intelligenze artificiali, si traduce nella convinzione che le immagini reperibili online non possano essere impiegate come materiale di addestramento — come se la rete neurale commettesse un furto semplicemente apprendendo da ciò che già circola in rete. Nel caso delle donne in politica, invece, prende la forma di una censura preventiva: “siccome quell’immagine mi riguarda, non è lecito commentarla in termini che mi risultino sgraditi”.

Due volti della stessa medaglia, dunque: il tentativo di confondere la presenza del soggetto con la titolarità del contenuto, trasformando il diritto d’autore e il diritto all’immagine in scudi arbitrari, più utili a limitare la libertà altrui che a tutelare davvero la propria.


Il solo fatto di comparire in una fotografia, o più in generale in qualsiasi opera dell’ingegno, non rende in alcun modo proprietari di quell’opera, né titolari dei diritti che ne derivano. Il paradosso è evidente se lo si applica a un caso celebre: la donna ritratta nella Gioconda — chiunque essa sia stata davvero — non è certo la proprietaria del quadro, né può rivendicarne i diritti d’autore. Quella tela apparteneva a Leonardo da Vinci in quanto autore, e oggi è patrimonio del Museo del Louvre: il soggetto raffigurato, in termini giuridici, non ha mai avuto titolo né sulle pennellate né sull’opera nel suo complesso.

Qui è essenziale distinguere tra due concetti che spesso vengono confusi: proprietà intellettuale e diritti sull’opera. La prima riguarda la paternità creativa: l’opera è di chi la realizza, e questo è tutelato dalla Legge italiana sul diritto d’autore (L. 633/1941) e, più in generale, dalla normativa europea e dalle convenzioni internazionali (come la Convenzione di Berna). I diritti sull’opera, invece, sono l’insieme delle facoltà economiche e morali che derivano da quella paternità.

Ed è proprio qui che nasce il malinteso: apparire in un’opera non significa acquisirne automaticamente la titolarità. Il classico esempio è quello della fotografia di moda. Una modella accetta di posare davanti all’obiettivo: la sua immagine viene fissata su pellicola o in digitale, ma la fotografia rimane opera dell’autore, cioè del fotografo. È lui (o lei) a detenere i diritti patrimoniali, potendo decidere se e come pubblicarla, salvo gli accordi contrattuali con la modella. Quest’ultima, infatti, non ha diritti d’autore sulla fotografia, ma possiede invece un diverso tipo di tutela: il diritto all’immagine, disciplinato dall’art. 10 del Codice Civile e dagli artt. 96 e 97 della legge sul diritto d’autore.

Tale diritto le consente di opporsi alla pubblicazione della sua immagine senza consenso, salvo eccezioni di rilievo pubblico, cronaca, giustizia o scopi scientifici e didattici. Ma questo non equivale a dire che la fotografia “sia sua”: il diritto all’immagine protegge la persona ritratta da abusi, mentre la proprietà intellettuale tutela l’autore che ha creato l’opera. Sono due ambiti separati e regolati in modo diverso.

Per chiarire meglio:

  • La proprietà intellettuale (diritto d’autore, copyright) è tutelata dalla Legge 633/1941, che fa parte del diritto civile. Le controversie si risolvono in sede civile, con azioni di accertamento, inibitoria o risarcimento.
  • Il diritto all’immagine (art. 10 c.c. e artt. 96-97 LDA) è anch’esso un diritto della personalità, quindi sempre civile. Se qualcuno pubblica una foto senza consenso, non va in galera: rischia invece una causa civile per il ritiro della pubblicazione e l’eventuale risarcimento del danno.
  • Solo in casi estremi, quando l’abuso dell’immagine coincide con un reato (per esempio la diffamazione, art. 595 c.p., oppure la pornografia non consensuale), si entra nel penale. Ma lì il cuore della questione non è il copyright, bensì l’offesa alla reputazione o la violenza privata.

Quindi sì: quando discutiamo di chi possiede la foto, di chi detiene i diritti patrimoniali o del consenso del soggetto ritratto, ci muoviamo in un ambito civilistico.

Se la AI utilizza la tua foto per training, o qualcuno utilizza la foto della Moretti per scopi onanistici, "denunciare alla polizia" non serve a nulla, salvo altri reati.


Abbiamo visto che il semplice fatto di comparire in un’opera — una fotografia, un dipinto, un video — non vi rende titolari della proprietà intellettuale. La foto non è “vostra”: è semplicemente un’opera in cui siete ritratti. Due piani diversi, che la legge disciplina in maniera distinta.

Ma allora, quali diritti avete quando la vostra immagine viene fissata in un’opera?

Dal punto di vista legale, le strade sono sostanzialmente due: civile e penale.

Sul piano civile, entra in gioco il cosiddetto diritto all’immagine, sancito dall’art. 10 del Codice Civile e dagli artt. 96 e 97 della Legge sul diritto d’autore. Questo diritto vi consente di controllare la diffusione della vostra immagine, impedendone la pubblicazione senza consenso. La regola generale è semplice: nessuno può esporre o mettere in commercio una vostra foto senza il vostro permesso. Tuttavia, esistono eccezioni rilevanti, quando l’immagine:

  • ha finalità di interesse pubblico (informazione giornalistica, cronaca, atti di giustizia);
  • ha scopo culturale, scientifico o didattico;
  • riguarda una persona che riveste un ruolo pubblico (politici, artisti, figure istituzionali), a condizione che non vi sia lesione della dignità.

Va precisato che in moltissimi casi la tutela civile si basa su un contratto con il fotografo o con chi gestisce lo sfruttamento economico delle immagini. È il tipico caso delle modelle: firmano una liberatoria o un contratto in cui autorizzano l’uso della loro immagine entro certi limiti (per pubblicità, riviste, campagne). Senza quel contratto, l’utilizzo sarebbe molto più vincolato.

Diverso è il discorso quando la questione si sposta sul piano penale. Qui non si parla più semplicemente di consenso o contratti, ma di violazioni che possono assumere rilevanza criminale. Gli esempi principali sono:

  • diffamazione a mezzo stampa o telematica (art. 595 c.p.), quando l’immagine viene usata per offendere la reputazione di una persona;
  • molestia o violenza privata, se la foto viene scattata o diffusa in circostanze invasive;
  • nei casi più gravi, fenomeni come il revenge porn (art. 612-ter c.p.), cioè la diffusione non consensuale di immagini sessualmente esplicite.

In sintesi: il diritto all’immagine vi tutela sul piano civile, permettendovi di limitare l’uso della vostra foto e chiedere risarcimenti; il diritto penale interviene solo quando l’uso dell’immagine diventa strumento di aggressione alla reputazione, alla dignità o alla libertà personale.

Quando si passa dal mondo tradizionale della fotografia a quello dell’intelligenza artificiale, ci si addentra in una zona giuridica grigia. La normativa non è stata scritta pensando a questa tecnologia e, di conseguenza, gli strumenti che abbiamo oggi sono parziali, spesso inadeguati o soggetti a interpretazioni contrastanti.

Il problema è questo: l’AI per funzionare ha bisogno di dataset composti da immagini, testi, suoni. Ma nel momento in cui un algoritmo “apprende” da una fotografia, sta davvero violando il diritto d’autore? La legge italiana ed europea sul copyright parla di riproduzione, elaborazione, diffusione al pubblico: categorie pensate per il mondo analogico e poi adattate all’era digitale. Ma “nutrire” una rete neurale con migliaia di immagini è un atto assimilabile a una riproduzione? O piuttosto si tratta di un’elaborazione puramente tecnica, che non crea copie destinate al mercato?

Al momento, l’orientamento europeo è cauto. La Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale ha introdotto eccezioni per il text and data mining (estrazione di testi e dati), consentendo a ricercatori, università e in certi casi anche ad aziende di utilizzare opere protette senza autorizzazione, purché ciò avvenga a scopo di analisi e non di sfruttamento commerciale diretto. Tuttavia, l’uso delle immagini per addestrare AI commerciali resta controverso: le grandi piattaforme sostengono che sia lecito sotto l’ombrello del “data mining”, mentre molti autori e fotografi reclamano che si tratti di un vero e proprio sfruttamento non autorizzato delle loro opere.

In Italia, i tribunali non hanno ancora stabilito un precedente chiaro: ci si muove su analogie con i casi di copia digitale, di plagio o di utilizzo abusivo di banche dati. Non esiste una norma specifica che dica: “addestrare un’AI con immagini protette è lecito/illecito”. Questo genera una situazione di incertezza: non è automaticamente illegale, ma non è neppure automaticamente lecito.

Quel che è certo è che la rivendicazione “la mia immagine non può entrare in un dataset perché è mia” semplifica troppo. In realtà il nodo giuridico è molto più complesso: si tratta di stabilire se il training costituisca un atto di riproduzione (e quindi richieda consenso e compenso) o se sia un uso tecnico coperto dalle eccezioni previste dal diritto d’autore.


Prendiamo un caso concreto: la giovane politica ritratta in una fotografia e poi citata in un forum online. Qui la prima questione non è tanto “se la foto può essere usata” ma come viene usata.

Se il forum si limita a pubblicare un link che rimanda a una fonte esterna — per esempio un sito di gossip o un quotidiano online — allora tecnicamente non sta ospitando alcuna immagine. Non c’è una copia della fotografia caricata sui server del forum, ma solo un collegamento ipertestuale all’originale. In questo scenario, parlare di “uso” della fotografia diventa complicato: il forum non diffonde direttamente l’opera, ma indirizza l’utente verso chi la ospita realmente.

Il problema è che la legge sul diritto d’autore, nata in un’epoca di carta stampata e dischi in vinile, non ha mai compreso fino in fondo il concetto di “link”. Per il legislatore degli anni ’40 (e in parte ancora oggi), un link non esisteva; la normativa successiva ha dovuto rincorrere l’evoluzione tecnica, spesso con risultati incerti.

La giurisprudenza europea si è divisa per anni: alcuni tribunali consideravano il link un atto neutro, altri un vero e proprio atto di “comunicazione al pubblico”. Solo con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, caso Svensson (C-466/12, 2014), si è stabilito che inserire un link verso un’opera già liberamente accessibile online non costituisce violazione del diritto d’autore, a meno che non venga offerto a un pubblico “nuovo” rispetto a quello previsto dall’autore. Successivamente, la Corte è intervenuta di nuovo con il caso GS Media (C-160/15, 2016), precisando che il link può essere illecito se il sito che lo pubblica ha finalità commerciali e se sapeva (o avrebbe dovuto sapere) che il contenuto linkato era stato messo online senza autorizzazione.

Tradotto: se un forum di appassionati posta un link a un articolo di gossip regolarmente online, difficilmente sarà accusabile di violazione. Se invece il forum vive di pubblicità e linka consapevolmente materiale pirata o abusivo, allora può scattare la responsabilità.

Ma resta il fatto che, dal punto di vista concettuale, il link non è la foto. È un segnale, un rinvio, una porta: la fotografia rimane ospitata altrove. Pretendere che un link equivalga a un “uso” è come accusare un passante di “diffusione non autorizzata” perché ha indicato a un amico la vetrina di una galleria.


Il problema e' che a risultare offensiva non e' l'esposizione della foto, ma il commento, e ci sono due casi diversi. La foto viene ripostata da una persona, ma i commenti offensivi possono essere molteplici. Arriviamo ora al caso clou, quello che fa più discutere. Immaginiamo di aprire un sito qualunque — chiamiamolo “frittomisto.com” — e di trovarci davanti a una fotografia della politica Moretti. A quel punto, qualcuno scrive nei commenti: “questa me la friggerei col soffritto, e il prezzemolo”. Un’uscita greve, destinata a risultare offensiva, anche solo per il dettaglio gastronomico del prezzemolo. La domanda è: la Moretti ha davvero titolo per rivendicare qualcosa?

Qui occorre distinguere nettamente due piani:

  1. L’esposizione della fotografia.
    Se l’immagine è stata pubblicata legittimamente da un giornale o un sito autorizzato, e il forum o il blog si limita a riprenderla o a linkarla, non c’è di per sé un atto illecito nei confronti del soggetto ritratto. La fotografia, come abbiamo visto, è opera dell’autore e circola secondo le regole del diritto d’autore e del diritto all’immagine. A meno che non si violino specifici divieti (ad esempio uso commerciale senza liberatoria), il semplice atto di mostrarla in un contesto pubblico non costituisce offesa.
  2. Il contenuto del commento.
    È qui che nasce la possibile responsabilità. Non è la fotografia a risultare offensiva, bensì la frase associata. In ambito civile, la Moretti potrebbe invocare il danno all’onore e alla reputazione, sostenendo che quel commento lede la sua dignità personale (art. 2 Cost., art. 10 c.c. e art. 2043 c.c. per il danno ingiusto). In ambito penale, si potrebbe addirittura configurare la diffamazione a mezzo internet (art. 595 c.p., comma 3), perché l’offesa viene proiettata in un luogo “aperto al pubblico” e con ampia diffusione.

Ma attenzione: in questi casi il vero nodo non è la foto, bensì il linguaggio. La fotografia rimane neutra, un contenitore; i commenti sono invece moltiplicabili all’infinito e ciascuno genera una responsabilità autonoma. Se venti utenti scrivono venti insulti diversi sotto la stessa foto, la titolare del diritto leso (la Moretti, in questo esempio) non potrà dire che “la foto è offensiva”: dovrà contestare i singoli commenti.

C’è dunque una differenza fondamentale:

  • La foto si collega al diritto d’autore e al diritto all’immagine.
  • I commenti ricadono nella libertà di espressione, che però ha dei limiti: il diritto di critica e di satira non copre le offese gratuite e umilianti.

In sintesi: la vera offesa nasce dalla parola, non dall’immagine. Ed è lì che la legge civile e penale interviene. Pretendere di censurare la foto perché accompagnata da insulti è giuridicamente fragile: sarebbe come proibire a un giornale di pubblicare un ritratto ufficiale di un politico solo perché poi qualcuno, al bar, ne fa una battuta di cattivo gusto.


Il nodo vero della questione è che quando parliamo di commenti, ci muoviamo in un’area scivolosa. La linea di confine tra ciò che è sanzionabile e ciò che rientra nella libertà di espressione è sottile, e spesso affidata al giudizio dei tribunali.

Facciamo un esempio estremo: scrivere pubblicamente “la Moretti è una t**”* (per esteso) costituisce con ogni probabilità un’offesa diretta, dunque un atto diffamatorio ai sensi dell’art. 595 c.p. Qui non si tratta di satira, né di critica politica: è un insulto gratuito, lesivo della reputazione e della dignità personale. In sede civile potrebbe giustificare una richiesta di risarcimento danni, e in sede penale persino una condanna.

Diverso il discorso per frasi come “la porterei a letto” o “me la cucinerei in padella”. Per quanto grossolane, sessiste o di cattivo gusto, queste espressioni difficilmente rientrano nella nozione di diffamazione. Non attribuiscono un fatto determinato e lesivo, non offendono in senso stretto l’onore, ma esprimono piuttosto una volgare fantasia personale. Dal punto di vista giuridico, siamo davanti a un discorso che può urtare la sensibilità, ma che si colloca sotto l’ombrello della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).

Certo, la maleducazione può arrivare a livelli abietti: descrizioni di particolari fisiologici, dettagli sessuali, doppi sensi insistiti. Ma la giurisprudenza tende a distinguere la volgarità dall’offesa penalmente rilevante. In altre parole: ciò che è osceno non è necessariamente diffamatorio.

Questo non significa che il soggetto ritratto non possa reagire: in sede civile, può comunque sostenere che quei commenti ledano la sua dignità e chiedere un risarcimento. Tuttavia, ottenere una condanna per diffamazione o un risarcimento sostanzioso su queste basi non è affatto scontato.

Il confine è chiaro:

  • Insulto diretto (attribuire epiteti degradanti o qualificazioni denigratorie) → probabile illecito.
  • Espressione volgare o sessualizzata (“la porterei a letto”, “me la friggerei”) → difficilmente sanzionabile, se non in casi di particolare gravità o reiterazione.

In sintesi: il diritto distingue tra la lesione giuridica e la lesione del buon gusto. La prima può portare in tribunale, la seconda resta confinata al piano sociale e morale.


Tutto questo, dal punto di vista della legge, è ormai abbastanza chiaro: chi bazzica internet da anni — e chi come me ha avuto modo di frequentare anche i tribunali italiani come perito nei casi di informatica — sa bene come funzionano i meccanismi di base.

Il vero guaio nasce altrove: quando la fotografia del corpo viene trattata come se fosse il corpo stesso. È questa la teoria che si sta diffondendo online, spesso sostenuta con toni moralistici: se in una foto appare il corpo di una persona, allora ogni intervento sull’immagine deve essere regolato come se si stesse toccando, modificando o usando il corpo reale. In altre parole, si vorrebbe applicare alla rappresentazione fotografica le stesse regole di consenso esplicito, di rispetto fisico e di integrità personale che spettano al corpo umano.

Ma questa equivalenza, dal punto di vista giuridico, non esiste. La fotografia è un’opera dell’ingegno, un artefatto culturale: non è il corpo. La legge italiana non sostiene affatto che comparire in una foto significhi acquisire un potere di veto assoluto su di essa. Certo, ci sono casi estremi: se l’immagine viene manipolata in modo da creare una rappresentazione degradante o pornografica, oppure se viene utilizzata in un contesto che arreca un danno concreto alla reputazione, allora il soggetto ritratto può agire in sede civile (e talvolta penale). Ma non è un automatismo: non basta che la persona compaia in una foto per vietare qualsiasi commento o utilizzo.

La confusione nasce perché il discorso pubblico online tende a proiettare sul simbolo lo stesso valore del reale: la foto diventa il corpo, l’avatar diventa la persona, il nickname diventa l’identità. È un’illusione alimentata dalla cultura digitale, che però non trova riscontro nel diritto. Giuridicamente, la fotografia resta un’opera distinta dalla persona che vi compare, regolata da diritti specifici (d’autore, d’immagine, privacy), e non da quelli legati all’integrità fisica.

In sintesi: la legge non impedisce di commentare una foto solo perché vi appare un corpo, così come non equipara un insulto online a un’aggressione fisica. Può succedere che un giudice riconosca l’offensività in casi gravi, ma non esiste la scorciatoia “foto = corpo”.


Oggi capita spesso di imbattersi in persone che parlano di “microaggressioni”, o che arrivano addirittura a evocare la “cultura dello stupro” per commenti osceni o volgari lasciati sotto una fotografia. È un linguaggio iperbolico, mutuato dai dibattiti anglosassoni e importato sui social come se fosse diritto positivo. Ma queste persone devono comprendere — e, se non lo comprendono, lo scopriranno obtorto collo nelle aule di tribunale — che il diritto non funziona così.

Per la legge italiana, un’aggressione è un atto fisico (art. 581 c.p. e seguenti), così come lo stupro è un reato gravissimo che riguarda la violenza sessuale (art. 609-bis c.p.). Un commento, per quanto osceno, sgradevole o sessualmente volgare, non rientra in queste categorie. Può forse configurare una diffamazione, o un illecito civile per lesione della dignità, ma non potrà mai essere equiparato né a un’aggressione fisica né tantomeno a uno stupro.

La differenza è sostanziale:

  • Aggressione e violenza sessuale → reati penali, puniti con la reclusione.
  • Commento osceno o offensivo sotto una foto → al massimo illecito civile (risarcimento danni) o diffamazione (con sanzione pecuniaria), e non sempre.

Sovrapporre questi piani non è solo un errore concettuale, è un modo per svilire i veri reati, mescolando tutto in un calderone emotivo. Se ogni volgarità online diventa “violenza”, il risultato è che la violenza vera perde di definizione.

In altre parole: la legge italiana non riconosce il concetto sociologico di “microaggressione” come categoria giuridica. È una narrazione politica o culturale, non un reato. Chi confonde i piani, attribuendo a un insulto la stessa gravità dello stupro, non fa altro che dimostrare la propria ignoranza.


È paradossale, e culturalmente deprimente, vedere politici discutere di commenti osceni sotto una foto con la stessa gravità che meritano un’aggressione fisica o uno stupro. Eppure, questa è la direzione in cui spesso si spinge il dibattito pubblico. Chi fa le leggi dovrebbe sapere distinguere, applicare le definizioni giuste e tutelare le categorie reali di violenza, non interpretare i dileggi sul web come se fossero violenza fisica.

La sensibilizzazione culturale non può e non deve sostituire il rigore giuridico. È urgente richiamare chi legifera a pensarci seriamente: la decostruzione culturale del linguaggio giuridico inizia da chi ha il potere di modificarlo. E vedere protagonisti del potere legislativo confondere concetti tanto fondamentali è tutto fuorché edificante.