“Chiuderemo la guerra in 24 ore”, disse qualcuno.

Non mi trovo spesso a parlare della guerra in Ucraina, consapevole che, in fondo, essa rappresenta la continuazione del calcio con altri mezzi – e come tale, attirerebbe senz’altro un pubblico ben più vasto e rumoroso. Le rare volte in cui decido di farlo, lo faccio per sottolineare verità banali, quasi scontate, che purtroppo sembrano sfuggire a molti. Forse un giorno finirò per raccoglierle e relegarle tra le FAQ, come le ovvietà che diventano immortali solo grazie alla smemoratezza collettiva.

D’altronde, la pretesa di “chiudere la guerra in 24 ore” riecheggia come un’eco amara nella storia, un ritornello di promesse roboanti che si scontrano con la realtà concreta del conflitto. Clausewitz ci ricorda che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma oggi, nella retorica delle diplomazie improvvisate, sembra piuttosto la continuazione delle chiacchiere da talk show. Tra una conferenza stampa e l’altra, la tragedia scivola via come un intrattenimento da prima serata.

La cosa che molti faticano a comprendere è che il concetto di “attacco” e quello di “difesa” sono semplicemente due prospettive complementari: questioni di punto di vista, nient’altro. L’errore più grossolano, però, è credere che la guerra sia un gioco a somma zero, un campo da calcio dove chi non vince perde. Purtroppo, la realtà è assai più sfumata.

Se ci affidiamo alle regole del calcio, immaginiamo che una guerra si possa solo vincere, perdere o pareggiare. Ma l’idea che entrambi i contendenti possano né vincere né perdere in senso stretto – senza per questo parlare di pareggio, perché la guerra ha sempre un costo, e dunque perdite – sembra del tutto estranea alla mente di molti commentatori. Perché? Semplice: nel calcio non accade mai.

Nel pallone, se nessuno vince, allora si pareggia, e la sconfitta è l’altra faccia della medaglia della vittoria. Ma la guerra, come ben sanno gli strateghi degni di questo nome, funziona in modo radicalmente diverso: i due concetti – vincere e perdere – sono spesso slegati, come insegnano generazioni di ufficiali e analisti militari.

Per chiarire la questione: se vi recaste presso uno Stato Maggiore serio e domandaste quanti uomini occorrerebbero per tenere soggiogato un Paese vasto come l’Ucraina – se questo decidesse di resistere strenuamente, come fece l’Afghanistan con l’Unione Sovietica – ricevereste una risposta che non lascia spazio a equivoci. La stima più verosimile? Dai tre ai cinque milioni di soldati, per presidiare un territorio che si ostina a rifiutare l’occupante, forte di un confine poroso lungo 1300 chilometri e del sostegno internazionale a chi lo difende.

E non stiamo parlando di vincere la guerra. No, qui parliamo di occuparla, tenerla sottomessa, in caso di una resistenza armata a oltranza. Un’impresa che neppure la Russia, erede di un impero militare che si è già schiantato in Afghanistan, può realisticamente perseguire. La storia è piena di potenze che hanno sottovalutato la tenacia dei popoli, e di occupanti che, nel giro di un decennio o due, hanno dovuto fare i conti con una realtà che non si piega ai loro sogni di conquista. La Russia non può vincere. Potrà pure spezzare i fronti, spostare i soldati come pedine su una scacchiera e recitare la parte dell’invasore in uniforme lucidata, ma alla fine verrà rigettata indietro da una resistenza feroce, determinata e ben addestrata ai metodi della guerriglia. Una resistenza che trova sempre nuovi alleati pronti a fornirle armi e denaro, come in un copione che si ripete ostinatamente nella storia.

È una verità che abbiamo già visto recitare sul palcoscenico afghano, dove un esercito con bandiere rosse e ideali imperiali ha finito per ritirarsi in fretta e furia davanti a una popolazione decisa a non cedere. La storia, come ricorda lo storico John Keegan, non è altro che la cronaca delle illusioni infrante e delle vanità che si infrangono contro la volontà dei popoli. Ed è proprio qui che l’ottimismo di chi pensa a una vittoria lampo si scontra con la realtà cruda: un Paese grande come l’Ucraina, determinato a combattere con la guerriglia e supportato da generosi donatori internazionali, non è una facile preda, ma una trappola costosa e sanguinosa.

Per ulteriori informazioni, rivolgetevi pure a Mehmet IV, noto anche come “il Macellaio” – un soprannome che la dice lunga sulla sua carriera militare e sui metodi spicci con cui pensava di poter domare popoli recalcitranti. Anche lui, alla fine, ha dovuto ammettere che la volontà di un Paese in armi non si piega con i proclami e le parate in pompa magna.


Del resto, neppure gli ucraini possono realisticamente “vincere”. Zelensky, nella sua veste di attore e comunicatore consumato, coltiva sogni hollywoodiani di controffensive eroiche, modellate sull’epopea cavalleresca che infiamma la memoria collettiva. Evoca visioni di poderose coalizioni e di un esercito sterminato che si allunga fino all’orizzonte, spazzando via i nemici e ricacciandoli nelle tenebre dell’oblio.

I cavalieri alati, simbolo di nobiltà e di epica grandeur, riecheggiano le cariche della cavalleria polacca contro i turchi a Vienna nel 1683, un mito bellico che seduce l’immaginazione. Con le loro ali d’aquila e la retorica della liberazione, incarnano la nostalgia per un eroismo d’altri tempi, anche se spesso furono più parata che sostanza. La leggenda, come sempre, supera la realtà, trasformandoli in fantasmi utili a chi cerca di rivendere vecchie guerre come epopee.

Ma si dimentica, o forse finge di dimenticare, che l’unico momento davvero “vincente” per Kiev fu quello in cui l’Ucraina, nella migliore tradizione delle guerre asimmetriche, fece propria l’arte della resistenza e della guerriglia. Quell’arte che Clausewitz definirebbe come “la guerra minima per la sopravvivenza”, dove il concetto di vittoria si confonde con quello di non essere schiacciati.

E così, mentre i politici e i propagandisti sognano le controffensive come le proiezioni di un kolossal bellico, la dura verità rimane inchiodata ai dati: gli ucraini, come chiunque si trovi in questa posizione, possono solo sperare di infliggere abbastanza danni da costringere l’aggressore a rinunciare. È la stessa lezione imparata da popoli e nazioni che, nel corso dei secoli, hanno dimostrato che la resistenza paga, ma non si traduce mai in una vittoria hollywoodiana.


Stabilito, dunque, che nessuno dei due contendenti può davvero “vincere” – e che la guerra, a differenza del calcio, offre il lusso macabro di partite in cui entrambe le squadre finiscono per perdere – il vero nodo da sciogliere diventa la natura stessa di questo conflitto.

Una guerra come quella in Ucraina può prendere due strade: la prima, una guerra concepita per non finire mai; la seconda, una guerra che finirà, ma finirà male per tutti.

L’esempio più lampante di guerra progettata per l’eternità lo troviamo in Medio Oriente. Lì, le fazioni non mirano a vincere, ma a perpetuare la farsa armata all’infinito. Nessuno dei signori della guerra, seduti nei loro appartamenti dorati a Doha o a Riyad, desidera davvero la pace: la guerra, per loro, è una miniera d’oro che scorre come il denaro delle ricche organizzazioni caritatevoli islamiche, un fiume in piena che irrora combattenti e mediatori. E si sa, qualche banconota resta sempre appiccicata alle mani di chi è preposto a “gestire” questi flussi. In fin dei conti, qualcuno deve pur pagare le troie placcate oro che impreziosiscono le loro stanze lussuose.

Dall’altro lato della barricata, troviamo rabbini di Manhattan o di Gerusalemme che vivono immersi in un lusso altrettanto sfacciato, con altrettante troie placcate oro e una certa disinvoltura nel “fund raising”. Sono loro a far da tramite per i fiumi di denaro che scorrono dalla cooperazione militare con Israele – decine di miliardi di dollari l’anno, che piovono generosi dalle tasche di Stati Uniti e Regno Unito.

Se foste uno di questi rabbini ben pasciuti, non avreste alcun interesse a veder cessare la guerra. Al contrario, la perpetuazione del conflitto è garanzia di quella pioggia d’oro che alimenta non solo le spese militari, ma anche il vostro piccolo regno dorato. Entrambe le fazioni, dunque, condividono un obiettivo insospettabilmente comune: mantenere viva la guerra in eterno, come un rubinetto che sgorga denaro e mantiene saldo il proprio status – e le proprie stanze tappezzate di puttane e lussi.


Israele e Palestina rappresentano il caso da manuale di un conflitto che entrambe le parti vogliono tenere aperto all’infinito. Nessuno si illude di vincere davvero, ma tutti sanno che la guerra stessa è un capitale politico e un’industria redditizia, da alimentare a colpi di retorica e fondi internazionali.

L’esempio opposto è invece quello della Russia e dell’Ucraina. Qui, la guerra è un tormento che entrambi vorrebbero concludere il prima possibile, ma si scontra con l’ostacolo più insormontabile: nessuno dei due può vincere davvero. Eppure, entrambi i governi hanno bisogno di poter sbandierare una vittoria politica, se non altro per non crollare sotto il peso delle loro stesse promesse.

Il vero problema è che entrambe le parti hanno fissato l’asticella della “vittoria” così in alto da renderla irraggiungibile. E quando la vittoria è una chimera, la guerra si trascina come un incubo interminabile. L’unica via d’uscita passa attraverso un ricambio radicale delle leadership su entrambi i fronti. Solo così si potrà scardinare quella spirale tossica di paura dell’umiliazione e di furore nazionalista che oggi alimenta il conflitto.

Ma, come insegnano le tragedie del passato, la paura di perdere e l’ossessione di vincere sono gli opposti gemelli che inchiodano i popoli alla guerra. Nessuno dei due può accettare di accontentarsi di meno della vittoria, qualunque cosa abbiano deciso di farla significare.


Di conseguenza, siccome non voglio fare una telecronaca di calcio, continuero' a parlare di questa guerra solo in maniera sporadica.

Uriel Fanelli


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