Biancaneve e Kamala Harris
Nel dopo-Trump, mentre la sinistra si arrovella tra autocritiche e capri espiatori, la cultura woke è finita sulla graticola. E non per un barbecue progressista, ma per essere servita ben cotta ai critici di destra, che se la divorano con gusto, e ai compagni di sinistra più moderati, che la guardano con un misto di imbarazzo e fastidio.
Certo, c’è del buono in questo esame di coscienza. Quando l’attivismo diventa più performativo che sostanziale, quando la lotta alle discriminazioni si trasforma in una caccia alle streghe per chi sbaglia pronome o osa ridere di una battuta, allora sì, forse è il caso di fare un passo indietro. Ma attenzione: mentre la sinistra si scanna su chi è abbastanza puro per stare al tavolo dei progressisti, la destra fa quello che sa fare meglio—semplificare, distorcere e usare il woke come spauracchio per qualsiasi cosa, dalla teoria critica della razza alle scelte di illuminazione a LED.
Il risultato? Una sinistra che, invece di unire, si frammenta in mille correnti, ognuna più virtuosa dell’altra, mentre la destra ride e governa. E il bello è che woke ormai è diventato un’etichetta comoda per chiunque voglia evitare discussioni serie. Disaccordo su una politica sociale? Eh, ma sei woke. Proponi di riformare il linguaggio per essere più inclusivi? Ma certo, woke e radical chic. Persino chiedere il conto in un ristorante vegano potrebbe qualificarti come tale, se l’avversario politico è abbastanza creativo.
Insomma, se da un lato c’è chi ha esagerato trasformando il giusto sostegno alle minoranze in una gara a chi è più woke, dall’altro c’è chi sfrutta questa deriva per buttare via il bambino con l’acqua sporca. E mentre la sinistra si perde in battaglie ideologiche, il vero pericolo è che la lotta per l’uguaglianza diventi una caricatura di se stessa—divertente per i troll, tragica per chi ci crede davvero.
Ma tranquilli, c’è sempre tempo per un altro dibattito su quanto sia problematico mangiare sushi se non sei giapponese. Priorità, no?
Ah, sì, il mitico pericolo woke—quella minaccia oscura che avrebbe infiltrato ogni aspetto della cultura, dalla politica al cinema, trasformando tutto in un pamphlet di inclusività forzata. E allora sì, critichiamo la Disney per aver sfornato un Biancaneve così grottesco da far rimpiangere le versioni porno degli anni ’90. Ma quando si passa dalla satira artistica alla narrazione politica, il discorso diventa più puzzolente di un panino alla soia lasciato al sole.
Perché, diciamocelo: Biden, woke? Kamala Harris, paladina della cancel culture? Ma per favore. Biden è un politico della vecchia scuola, con l’unico slancio radicale che si manifesta quando cerca di ricordare dove ha parcheggiato la Cadillac. Kamala, da parte sua, ha avuto una carriera da procuratrice che certo non l’ha resa l’icona dell’estremismo progressista. Eppure, eccoci qui, con certa stampa e certa destra che dipingono il Partito Democratico come un covo di guerrieri SJW pronti a cancellare la storia e imporre il linguaggio gender-fluid alle masse.
La verità? Il “wokismo” è diventato la scusa perfetta per spiegare qualsiasi fallimento della sinistra senza dover fare un’analisi seria. Kamala Harris è impopolare? Colpa dei woke. Biden perde consensi? Eh, ma ha assecondato i radicali. Peccato che, nella realtà, l’amministrazione Biden-Harris sia stata tutto fuorché un esperimento di estremismo progressista. Anzi, ha deluso molti a sinistra proprio per la sua moderazione.
Ma tant’è: quando non sai come attaccare un avversario, gli appioppi un’etichetta comoda. Woke è la nuova social-comunista, la nuova radical-chic, il nuovo politically correct—un termine così abusato che ormai può significare qualsiasi cosa, da chi sostiene i diritti LGBTQ+ a chi semplicemente non vuole essere un cafone.
E così, mentre la destra usa woke come spauracchio per mobilitare la base, la sinistra si ritrova a dibattere se sia il caso di allontanarsi da certe battaglie culturali per non perdere voti. Il risultato? Una sinistra che, invece di costruire un messaggio coerente, oscilla tra l’apologia del wokismo e il rinnegamento isterico, mentre la destra ride e vince.
Sì, il woke con i suoi eccessi è esistito, esiste e probabilmente continuerà a esistere, come una sorta di Frankenstein progressista costruito con le migliori intenzioni e poi lasciato a devastare il villaggio. Ma qui sta il punto: assecondare non significa essere.
Prendiamo l’appropriazione culturale, per esempio. Certo, c’è stato chi ha gridato allo scandalo perché una bianca si è fatta le treccine, ignorando che i vichinghi già se le facevano nel 900 d.C. e che i romani probabilmente avrebbero adorato i dreadlock se avessero avuto abbastanza gel. È ridicolo? Assolutamente sì. È una posizione che ha trovato spazio tra i liberal? Sicuro. Ma significa che tutti i liberal sono questo? No, come non tutti i cattolici sono fan di Torquemada e non tutti i fan del metal sono satanisti.
Lo stesso vale per la negazione del sesso biologico, una follia che ha fatto sì che gente con una laurea in gender studies si sentisse in diritto di correggere biologi con 30 anni di ricerca alle spalle. Ma anche qui: è la sinistra liberal nel suo insieme? O è piuttosto una minoranza rumorosa che ha trovato megafoni potenti (Twitter, certa stampa, alcune università americane) e ha fatto credere a tutti che rappresentasse il pensiero dominante?
E poi, parliamoci chiaro: queste follie woke ci sembrano un revival anni ’70 perché, in fondo, lo sono. Sono il ritorno di quel vetero-femminismo che credeva che tutti gli uomini fossero stupratori potenziali, di quel marxismo da salotto che scomunicava chiunque non citasse Frantz Fanon a colazione. Roba che poteva funzionare (forse) nelle riunioni del collettivo universitario nel 1975, ma che nel 2024 suona come un disco rotto.
E allora sì, il #MeToo è stato un momento importante, ma anche un campo minato di eccessi in cui l’accusa diventava condanna senza processo. Peccato che, mentre le attiviste twittavano #BelieveAllWomen, i grandi donatori del Partito Democratico facevano voli con Epstein e ridevano con Clinton. Ipocrisia? Certo. Ma anche qui: questo rende tutta la sinistra complice? O semplicemente dimostra che il potere, di qualsiasi colore sia, sa essere schifoso quando vuole? La Vera Domanda: Chi Comanda il Woke?
Il problema non è che il woke esista—è che è diventato un’arma usata sia dalla destra che dalla sinistra, ma per motivi opposti.
La destra lo dipinge come il male assoluto, la prova che i liberal vogliono imporre un regime di politically correct dove non puoi più dire niente.
La sinistra moderata lo teme, perché sa che certe battaglie woke fanno perdere voti nella working class.
La sinistra radicale lo abbraccia, perché è l’unico modo per sentirsi rivoluzionari senza dover fare i conti con questioni più complicate (tipo: perché i salari non crescono?).
E intanto, il vero potere—quello economico, quello delle élite—se ne frega. Jeff Bezos non piangerà se cambierai il nome della sua squadra di football da Redskins a Commanders, purché tu continui a comprare su Amazon.
Alla fine, il woke è un fantasma troppo ingombrante per essere ignorato, ma troppo inconsistente per essere davvero la causa di tutti i mali. La sinistra liberal americana non è mai stata solo questo, ma ha commesso l’errore di assecondarne gli eccessi, lasciando che diventasse la sua caricatura.
E ora? Ora siamo in un mondo in cui puoi essere accusato di razzismo per aver mangiato un sushi, ma nessuno si scandalizza se un politico vola con Epstein. Un mondo in cui la lotta per i diritti si è trasformata in una gara a chi è più puro, mentre il vero potere se la ride e continua a fare i suoi affari.
Morale: sì, il woke è una stronzata, ma non è l’apocalisse. E' al massimo un capro espiatorio, col quale i liberal, cioe' i Democratici e le sinistre europee cercano di scaricare tutte le responsabilita' sulle proprie ali estreme.
Che non sono innocenti, sia chiaro, ma non erano nemmeno cosi' potenti da essere davvero il la spiegazione alla sconfitta.
Il woke e' un problema per Disney, che ci sta rimettendo centinaia di milioni di dollari a film, ma il vero problema non è il woke, ma una sinistra che, invece di fare autocritica seria, copia la retorica della destra e trasforma ogni sconfitta in una caccia alle streghe. “Abbiamo perso perché eravamo troppo woke!” è diventato il nuovo “Abbiamo perso perché eravamo troppo comunisti!“—una scusa comoda per non ammettere che, forse, il problema è che la tua classe politica fa schifo.
Kamala Harris non ha perso perché era troppo radical chic: ha perso perché era un candidato senza carisma, senza un messaggio chiaro e senza una proposta economica convincente. Ma invece di dirlo, certa sinistra preferisce fare mea culpa su cose che non c’entrano nulla, come se il problema fossero i pronomi neutri e non il fatto che la gente non arriva a fine mese.
Il Woke è il Comodo Alibi per Non Cambiare Davvero
Se la sinistra ammettesse che il problema è l’assenza di un progetto credibile, dovrebbe rimettere in discussione tutto: i suoi legami con le élite finanziarie, la sua incapacità di difendere i lavoratori, la sua trasformazione in un club di burocrati e consulenti.
Ma è molto più facile dire:
“No, no, il problema è che abbiamo spaventato la gente con troppa inclusività!”
il vero problema non è il woke, ma una sinistra che, invece di fare autocritica seria, copia la retorica della destra e trasforma ogni sconfitta in una caccia alle streghe. “Abbiamo perso perché eravamo troppo woke!” è diventato il nuovo “Abbiamo perso perché eravamo troppo comunisti!“—una scusa comoda per non ammettere che, forse, il problema è che la tua classe politica fa schifo.
Kamala Harris non ha perso perché era troppo radical chic: ha perso perché era un candidato senza carisma, senza un messaggio chiaro e senza una proposta economica convincente. Ma invece di dirlo, certa sinistra preferisce fare mea culpa su cose che non c’entrano nulla, come se il problema fossero i pronomi neutri e non il fatto che la gente non arriva a fine mese. La Destra Insegna (Male), la Sinistra Copia (Peggio)
“No, no, il problema è che abbiamo spaventato la gente con troppa inclusività!”
E da quando gli americani non sono inclusivi? Un americano medio che scende in strada ne vede, in un isolato, di tutti i colori. Colori della pelle, razze, etnie, prodotti, negozi. Non puo' essere spaventato dall'inclusivita', nel senso che si dipinge.
Ho come l’impressione che i progressisti non ne usciranno mai. Che resteranno incastrati in questo vicolo cieco, a litigare su pronomi e appropriazione culturale, mentre il mondo va avanti—o, meglio, va a rotoli. E il motivo è semplice: hanno smesso di chiedersi cosa significhi davvero “progresso”.
Perché, diciamocelo, se oggi prendi un progressista medio e gli chiedi “Qual è il tuo progetto per il futuro?”, ti risponderà con una lista di cose da non fare: non offendere, non usare certe parole, non assumere troppi bianchi, non guardare film problematici. Ma il progresso non è una lista di divieti. Il progresso dovrebbe essere una visione, un’idea di società migliore. E invece no: oggi è diventato un esercizio di autocensura collettiva, una gara a chi si flagella di più per dimostrare di essere dalla parte giusta.
Biden e Kamala erano Woke? Ma Per Favore!
E qui arriva il colpo di genio: dare la colpa alle sconfitte elettorali del centrosinistra perché “troppo woke”. Ma scherziamo? Joe Biden, il tipo che probabilmente ancora chiama i transgender “travestiti” in privato, sarebbe un estremista woke? Kamala Harris, la procuratrice che ha riempito le prigioni di neri per reati di droga, sarebbe la paladina dell’abolizionismo carcerario? Ma per piacere.
La verità è che il problema non è il wokismo, ma la totale mancanza di idee.
E sarebbe ora di ammetterlo.
Uriel Fanelli
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