Ancora di grossi missili.

Disclaimer: per risparmiare tempo, questo articolo e' stato scritto usando l'aiuto, come editor, di ChatGPT. Ho le idee dell'articolo ma non ho il tempo per scriverle, stamattina. Cosi' l'ho usato come editor: io scrivo l'idea e lui la compone. Grok lascia passare il porno, ma se critichi Musk non e' “facile subito”.... Da ora in avanti avvisero' per correttezza, ogni volta che lo faccio.

Ogni volta che un esperimento di Elon Musk fallisce, torna in auge il dibattito sulla colonizzazione dello spazio. E, immancabilmente, si ricomincia a parlare di Marte: il pianeta sul quale, con ogni probabilità, non andremo mai a vivere. Il problema, quando si discute della possibilità di rendere la nostra specie interplanetaria o addirittura interstellare, è che si continua a ragionare secondo un paradigma che non può funzionare al di fuori del pianeta Terra—esattamente come accadrebbe se si cercasse di attraversare un oceano con mezzi pensati solo per la terraferma.

È evidente che, quando la fantascienza americana immagina la colonizzazione di altri pianeti, lo fa adottando implicitamente il paradigma della colonizzazione delle Americhe. Tuttavia, in quel contesto storico esistevano due condizioni fondamentali che oggi risultano completamente diverse.

Il primo fattore riguarda l’importanza della velocità e del raggio operativo dei mezzi di trasporto. Prendiamo ad esempio la Repubblica di Venezia: una potenza marittima straordinaria, ma fondata sull’uso della galea—una nave a remi progettata per operazioni nel Mediterraneo, non per traversate oceaniche. Le galee erano troppo lente, richiedevano equipaggi numerosi e avevano un’autonomia troppo ridotta per affrontare viaggi di mesi in mare aperto. Ecco perché il “timone” della colonizzazione transoceanica passò rapidamente in mano a chi costruiva galeoni, come Spagna e Portogallo. Il galeone, introdotto nel XVI secolo, permetteva traversate atlantiche cariche di uomini, provviste e materiali.

Lo stesso paradigma è oggi erroneamente proiettato sullo spazio: si pensa che basti aumentare la velocità delle astronavi per risolvere i problemi. Ma anche supponendo una tecnologia che ci permetta di viaggiare a dieci volte la velocità della luce (un’ipotesi ancora puramente teorica e incompatibile con la fisica attuale), un viaggio verso un sistema stellare distante 600 anni luce—come può esserlo Gliese 667 Cc o Kepler-452b—durerebbe comunque 60 anni. Ancora troppo. Per raggiungere una destinazione in pochi giorni, come accade in Star Trek, bisognerebbe superare la velocità della luce di migliaia di volte—uno scenario oggi del tutto inverosimile.

Il secondo punto cruciale è la natura della destinazione. Nell’esplorazione delle Americhe, la meta rappresentava una soluzione logistica, non un problema. I primi galeoni spagnoli e portoghesi, come quelli della spedizione di Colombo nel 1492 o di Pedro Álvares Cabral nel 1500, arrivavano nei Caraibi o in Brasile quasi privi di provviste a lungo termine, contando sulla possibilità di rifornirsi direttamente sul continente. Le risorse alimentari e idriche erano abbondanti, e i primi insediamenti potevano contare sulla coltivazione immediata o sul commercio con le popolazioni locali.

Al contrario, quando parliamo di Marte o della Luna, ci riferiamo a corpi celesti totalmente privi di risorse utilizzabili in modo immediato. Non esiste cibo, non esiste acqua liquida, non esistono foreste né campi coltivabili. Ogni elemento vitale va portato con sé o prodotto in situ tramite infrastrutture sofisticate e costosissime. La destinazione, dunque, non è la soluzione: è il principale problema logistico.

Infine, c’è la questione dell’abitabilità. I coloni europei del XVI secolo sbarcavano in territori con clima, gravità e atmosfera compatibili con la vita umana. Al contrario, su Marte si arriva in un ambiente ostile: temperatura media di -60 °C, atmosfera al 0,6% della pressione terrestre, composta per il 95% da anidride carbonica. Prima ancora di parlare di vita, bisogna garantire la sopravvivenza minima. È l’opposto della scoperta di un nuovo mondo: è l’incontro con un mondo che, prima di tutto, deve essere costruito.

Usare la colonizzazione delle Americhe come paradigma di espansione spaziale e' stupido , ingiustificato,e ci portera' a fare scelte tecnologiche assurde e inutili.


Che alternativa abbiamo al paradigma, ormai stanco, della colonizzazione planetaria?

A mio avviso, dovremmo adottare un paradigma molto più realistico e funzionale: quello dell’espansione territoriale nello spazio, intesa non come conquista di pianeti, ma come progressiva estensione della nostra presenza attraverso avamposti, stazioni e habitat artificiali. In questa prospettiva, la costruzione di strutture come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), operativa dal 2000, o la futura base lunare orbitale Lunar Gateway, prevista nell’ambito del programma Artemis della NASA, è molto più interessante e promettente rispetto alla colonizzazione marziana.

Obietterete che, espandendosi nello spazio senza l’appoggio di pianeti, occorre portare con sé ogni risorsa necessaria alla sopravvivenza. Vero. Ma consideriamo l’alternativa: colonizzare un pianeta significa dover portare anche tutto ciò che serve per non morire. La differenza non è banale.

Prendiamo il caso estremo di Venere. Dal punto di vista energetico, un viaggio verso Venere è addirittura più economico di uno verso Marte: è più vicino alla Terra e la sua orbita più bassa consente di sfruttare l’assistenza gravitazionale del Sole. Eppure, Venere è uno dei luoghi più inospitali del Sistema Solare: una pressione atmosferica di 90 volte quella terrestre, temperature medie di 470 °C e nubi di acido solforico. Il problema su Venere non è come viverci, ma come non morirci entro pochi secondi. Le risorse tecnologiche necessarie per resistere a condizioni tanto estreme sarebbero immense e, in larga parte, sprecate solo per sopravvivere.

Al contrario, supponiamo di puntare a un asteroide ricco di ghiaccio d’acqua—come molti oggetti nella fascia principale tra Marte e Giove, o tra i Troiani di Giove. Su questi corpi celesti, il problema fondamentale è uno solo: il freddo. Ma questa è una sfida relativamente semplice: basta una sola risorsa per risolverla, energia. Energia per scaldarsi, per sciogliere il ghiaccio e ottenere acqua potabile, ossigeno respirabile, persino propellente. Non serve un’intera supply chain complessa e permanente.

La mia proposta, quindi, è di immaginare l’espansione umana nello spazio attraverso habitat artificiali: grandi stazioni orbitanti, cilindri o toroidali rotanti per simulare la gravità—come nel celebre progetto Stanford torus proposto dalla NASA negli anni ’70, o il più recente concetto di O'Neill Cylinder. All’interno di queste strutture, autosufficienti e modulari, si può iniziare una vera colonizzazione, partendo dalla bassa orbita terrestre fino alla fascia degli asteroidi.

E qui parliamo di proporzioni davvero imponenti. Una sfera che si estenda fino alla fascia degli asteroidi (diciamo 3 AU di raggio) racchiude un volume spaziale superiore a 100 miliardi di volte quello della Terra. Spazio, letteralmente, a perdita d’occhio. L’unico ostacolo reale resta la protezione dalle radiazioni cosmiche, particolarmente pericolose oltre la magnetosfera terrestre. Ed è per questo che regioni dello spazio attorno a pianeti come Giove e Saturno risultano particolarmente interessanti: i loro massicci campi magnetici naturali potrebbero offrire una schermatura parziale, diventando così candidati ideali per future infrastrutture orbitanti.


Una volta raggiunta la capacità di costruire habitat spaziali autosufficienti, in grado di muoversi tra asteroidi e satelliti per estrarre risorse e rifornirsi, si apre una nuova fase dell’espansione umana: la possibilità concreta di installare stazioni orbitanti attorno a qualsiasi pianeta del Sistema Solare.

Naturalmente, avvicinandosi al Sole, le radiazioni diventano un fattore critico, soprattutto in assenza di una magnetosfera planetaria protettiva—come nel caso di Mercurio o della Luna. Tuttavia, pianeti come Giove e Saturno, con i loro immensi campi magnetici e le dozzine di satelliti naturali (Saturno ne conta più di 140), offrono un ecosistema spaziale di enorme interesse. La fascia principale degli asteroidi, compresa tra le orbite di Marte e Giove, ma anche gli anelli di Saturno e le lune ghiacciate come Encelado o Europa, diventano potenziali miniere a cielo aperto.

La condizione fondamentale per rendere questo possibile? Una sola: energia.

Il vero driver dell’espansione spaziale non è il territorio, né la colonizzazione planetaria. È l’energia. Si tratta di accedere a luoghi estremamente ricchi di materie prime—ghiaccio, metalli, silicio—che si trovano in ambienti ostili per il freddo, ma in cui l’unica sfida significativa è generare calore e alimentazione. Questo è un problema tecnologicamente gestibile. Con sufficiente energia, si può riscaldare, fondere ghiaccio, sintetizzare aria respirabile, produrre propellente.

Al contrario, i pianeti “temperati” presentano una molteplicità di problemi difficili da risolvere contemporaneamente: radiazioni cosmiche non schermate, gravità non standard (su Marte è il 38% di quella terrestre), difficoltà nel coltivare cibo in suoli sterili, variazioni estreme nella filtrazione solare, tempeste elettromagnetiche. E tutto ciò obbliga alla costruzione di habitat specializzati per ogni ambiente. Non basta portare un modulo abitativo generico: occorre un’infrastruttura tarata sulle condizioni specifiche del pianeta.

Invece, orbitare attorno a Saturno, a Giove, o persino a Nettuno comporta esigenze strutturali molto simili a quelle che già affrontiamo attorno alla Terra. Un habitat spaziale costruito per vivere in orbita terrestre—magari uno di grandi dimensioni, come il progetto Bernal Sphere o una stazione a gravità artificiale basata su rotazione—può essere replicato quasi identico in tutto il Sistema Solare esterno. È una soluzione universale a un problema unico: vivere nello spazio.

Sopravvivere su Marte, invece, ti insegna soltanto una cosa: a sopravvivere su Marte. Punto.

C'e' molto piu' spazio nello spazio, che sui pianeti del sistema solare, o extrasolari. (a patto di arrivarci).


Usando questo paradigma—quello dell’espansione attraverso habitat orbitanti, alimentati da energia e non vincolati alla superficie planetaria—è perfettamente concepibile spingersi fino allo spazio transnettuniano, la regione oltre l’orbita di Nettuno (30 UA dal Sole), dove troviamo una moltitudine di planetoidi ghiacciati: corpi come Plutone, Eris, Makemake, Haumea e altri oggetti della cosiddetta Fascia di Kuiper.

Questi mondi, pur essendo remoti e gelidi, sono ricchissimi di risorse. La loro composizione comprende ghiaccio d’acqua, metano, ammoniaca, azoto congelato, e spesso anche composti organici complessi (La “Tolina”), tutti elementi preziosi per una civiltà che vive nello spazio. Qui, ancora una volta, il vincolo è uno solo: l’energia. Dove c’è energia sufficiente, questi materiali possono essere estratti, processati, trasformati in acqua, aria, propellente e materiali da costruzione.

Ma non finisce qui.

Oltre la Fascia di Kuiper, tra le 50 e le 1.000 unità astronomiche, si estende una regione ancora più vasta e misteriosa: il Disco diffuso, popolato da oggetti dalle orbite eccentriche e inclinate. E, ancora più in là, forse fino a 100.000 UA dal Sole, troviamo la Nube di Oort, un’enorme sfera di comete e corpi ghiacciati che avvolge il Sistema Solare come una bolla cosmica. Qui si trovano le origini delle comete di lungo periodo—corpi composti per lo più da ghiaccio d’acqua, monossido di carbonio, anidride carbonica e sostanze organiche volatili.

Si tratta di una riserva di risorse potenzialmente immensa, distribuita su una scala spaziale colossale, e finora del tutto inesplorata. Se la civiltà umana dovesse mai disporre di habitat autosufficienti e fonti di energia affidabili—come la fusione nucleare, oggi in fase sperimentale—potremmo letteralmente vivere sulle rotte di estrazione, colonizzando lo spazio stesso, senza la necessità di pianeti.

A quel punto, i pianeti diventano optional. La colonizzazione planetaria, come la sogna Musk, è un vicolo cieco: ogni pianeta è un caso speciale che richiede soluzioni speciali. L’espansione orbitale, invece, è un’unica soluzione replicabile ovunque. Dalla bassa orbita terrestre fino ai confini esterni del Sistema Solare.


A questo punto occorre fermarsi a riflettere su una cosa spesso trascurata: l’enormità dello spazio disponibile.

Parliamo di un Sistema Solare che si estende, nella sua interezza gravitazionale, fino a 100.000 unità astronomiche (UA) dal Sole. Per dare un’idea concreta: un’UA corrisponde a circa 150 milioni di chilometri, la distanza media tra la Terra e il Sole. Centomila volte tanto significa un raggio di 15.000 miliardi di chilometri. E siccome il volume cresce con il cubo del raggio, stiamo parlando di uno spazio vitale (Lebensraum) letteralmente inconcepibile per la mente umana.

Se una sola tecnologia fosse pienamente realizzata—quella della stazione spaziale abitabile permanente, dotata di pseudogravità artificiale (ottenuta, ad esempio, tramite rotazione), schermata contro le radiazioni, autonoma nel riciclo dell’acqua e dell’aria, e in grado di produrre energia—il salto evolutivo per l’umanità sarebbe incalcolabile.

Non si tratterebbe più di “colonizzare un pianeta”, ma di abitare lo spazio stesso. Di farlo ovunque. E in abbondanza.

Le dimensioni e i volumi in gioco sono tali che, anche ipotizzando una crescita demografica molto sostenuta—mettiamo dieci figli per famiglia—l’umanità potrebbe espandersi per secoli, forse millenni, senza neppure sfiorare la saturazione del solo Sistema Solare. Senza bisogno di terraformare alcunché. Senza adattare la biologia al pianeta, ma semplicemente adattando l’habitat a noi stessi.

In questa visione, il limite non è il territorio, ma la capacità tecnologica di costruire habitat e di estrarre energia e risorse in ambienti estremi. Una volta superata quella soglia, lo spazio non è più una frontiera: è casa.


Lo so. Ci sono ancora quelli che sognano di terraformare pianeti. E alcuni si spingono oltre: vogliono addirittura raggiungere mondi abitati da forme di vita. Entrambe sono, senza mezzi termini, idee pessime. Pericolose.

Facciamo pure finta che siate riusciti a costruire l’Enterprise. Viaggiate a curvatura, arrivate su un pianeta “abitabile”. E magari trovate davvero una biosfera aliena. Supponiamo anche che quell’ecosistema abbia avuto centinaia di milioni di anni per evolversi—d’altronde sulla Terra, la vita multicellulare complessa richiese almeno 600 milioni di anni per arrivare a qualcosa come un vertebrato.

Ora, eccoci qui: noi, organismi terrestri il cui corpo è composto per circa il 90% da cellule non umane, ovvero da una miriade di batteri simbionti, virus, funghi, archeobatteri, molti dei quali vitali per la nostra sopravvivenza. E mettiamo piede in un ambiente biologicamente alieno. A quel punto, ci sono tre scenari possibili, e nessuno è buono.

Le nostre specie batteriche cominciano a colonizzare il pianeta alieno. In breve tempo, potremmo assistere alla stessa devastazione ecologica accaduta in Australia con l’introduzione dei conigli nel XIX secolo, moltiplicata per un intero mondo. Complimenti: avete trovato un paradiso abitabile, e ora dovrete viverci in isolamento ermetico, per evitare che la vostra stessa biologia ne acceleri il collasso.

I nostri microbi e quelli locali trovano un equilibrio. Ma attenzione: il nostro microbioma non è un dettaglio. È un ecosistema integrato nel nostro corpo, che regola tutto: metabolismo, sistema immunitario, persino il comportamento. Se muta, noi mutiamo. “Adattamento” potrebbe significare perdere caratteristiche fondamentali. Vi auguro buona fortuna quando sarà il momento della mutazione simbiotica stagionale. Sperando che non includa la caduta delle foglie.

In questo caso, i batteri locali ci invadono e conquistano il nostro organismo. Non per cattiveria, ma perché sono a casa loro. Il risultato? Il nostro microbioma viene sostituito. Il nostro corpo, privato del suo equilibrio, si trasforma. In cosa? Impossibile prevederlo, ammesso che si sopravviva.Forse qualcosa che somiglia ancora vagamente a un essere umano. O forse qualcosa che ha bisogno di potatura regolare, come un bonsai.


A questo punto, qualcuno obietterà:
“Ma terraformiamo il pianeta! Così ci saranno solo i nostri batteri.”

Certo, all'inizio sì. L'idea è quella: inoculare un ambiente sterile con il nostro microbioma, in un habitat artificiale, o su scala più ambiziosa, terraformare un intero pianeta come Marte per renderlo adatto alla vita terrestre. Ma c'è un problema fondamentale: l’evoluzione non si congela. Anzi, in ambienti nuovi, accelera.

Mettiamo pure che riusciate a terraformare Marte. Inizialmente, magari, le condizioni saranno abbastanza simili a quelle terrestri: pressione atmosferica accettabile, temperatura moderata, un’atmosfera respirabile. Il vostro microbioma terrestre prenderà piede. Ottimo.

Ma avete cambiato variabili fondamentali: – gravità (solo un terzo di quella terrestre), – spettro e intensità delle radiazioni solari (più forte e diverso), – composizione del suolo (ricco di perclorati tossici, assenza di azoto disponibile), – magnetosfera assente, quindi esposizione continua a particelle ad alta energia.

Anche in un habitat pressurizzato e schermato, queste condizioni selezioneranno, lentamente ma inesorabilmente, nuove varianti batteriche. E se terraformate l’ambiente esterno, il processo sarà ancora più rapido: ogni organismo introdotto dovrà adattarsi o morire, e l'adattamento evolutivo farà il suo corso.

Risultato?
Dopo una o due decine di anni, magari, il pianeta somiglierà ancora alla Terra.
Ma dopo qualche generazione microbica—ricorda che i batteri hanno tempi di duplicazione di 20 minuti, non di vent’anni—ti ritroverai con una biosfera aliena di seconda generazione. Una variante “marziana” della nostra, plasmata da condizioni completamente diverse. E imprevedibile.

In altre parole: terraformare un pianeta e inocularlo con vita terrestre non crea un clone della Terra.

Crea un esperimento di evoluzione accelerata, fuori controllo fin dall’inizio.


Non intendo discutere qui della necessità — o del desiderio — di diventare una specie interplanetaria. Quel che voglio mettere in discussione è il tipo di salto tecnologico che stiamo inseguendo.

Il progresso che ci serve non è “raggiungere Marte” o “abitare un altro pianeta”. Il vero salto è composto da due tecnologie chiave:

In quest’ottica, anche seguendo una dinamica espansiva di tipo malthusiano, ci vorrebbero circa mille anni per colonizzare in modo sostenibile tutto lo spazio utile fino a uno sfruttamento razionale della nube di Oort. Mille anni in cui avremmo il vantaggio di maturare decenni di esperienza nella costruzione e manutenzione di habitat spaziali longevi, progettati per durare secoli.

E solo a quel punto avrebbe senso pensare a salpare verso Alpha Centauri o altre stelle vicine. Ma stiamo parlando di intervalli di tempo immensi, anche in prospettiva storica.E si staccherebbero dal sistema solare le prime stazioni abitate, dopo un'esperienza lunga secoli di vita nello spazio.

Accontentarsi di un’espansione sostenibile entro la fascia di Kuiper — popolata da corpi come Plutone, Eris, Haumea e Makemake — richiede, secondo me, solo due grandi traguardi tecnologici: habitat spaziali e miniere nello spazio. E questo traguardo della fascia di Kuiper, già da solo, rappresenta una formidabile garanzia di sopravvivenza a lungo termine per la nostra specie.

Elon Musk ci sta portando nella direzione tecnologica sbagliata, inseguendo il sogno di un Far West da colonizzare, solo che non e' West ed e' troppo Far.

Uriel Fanelli


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