A cosa servono i martiri?

Lo spettacolo chiamato “funerale” — perché di spettacolo si è trattato, e non di semplice rito funebre — che ha celebrato (e ribadisco, celebrato) la morte di Charlie Kirk, merita una riflessione più profonda sul suo significato reale. Non si è trattato soltanto di commemorare un uomo, ma di allestire una messa in scena pubblica, con tutta la carica simbolica che un evento del genere porta con sé. Eppure, in un paese che affonda le proprie radici nella tradizione cattolica, affrontare il tema della funzione dei martiri diventa sempre complicato: non solo perché la figura del martire è stata saturata di immagini religiose, ma soprattutto perché sfugge ai più il suo ruolo autenticamente politico.
Su questo preferisco essere molto chiaro.
Una fazione politica celebra i propri martiri quando si appresta ad UCCIDERE grandi numeri di persone.
Non esistono, praticamente, eccezioni nella storia: ogni società ha costruito il proprio immaginario politico e religioso attraverso la figura del martire. Sul piano della comunicazione simbolica, questa dinamica si manifesta chiaramente già nel concetto ebraico di giustizia, concetto che non nasce in isolamento, ma si innesta in una tradizione giuridica ben più antica, quella mesopotamica. Basti pensare al celebre Codice di Hammurabi, scolpito nella pietra attorno al XVIII secolo a.C., dove il principio di retribuzione — “occhio per occhio, dente per dente” — non era soltanto una norma di diritto penale, ma un meccanismo comunicativo: un messaggio politico che ricordava a tutti, dall’élite al popolino, che il potere sapeva garantire un ordine, punire le trasgressioni e stabilire un equilibrio percepito come giusto.
Come conseguenza diretta di questo principio, il martire non è mai soltanto una vittima: egli porta con sé un messaggio. Il suo sacrificio diventa un segnale collettivo, una sorta di monito inciso nella memoria del gruppo: hanno ucciso uno di noi, e non uno qualunque, ma uno dei migliori. Il martire, nella norma, viene sempre santificato, e quindi diventa "uno dei migliori tra noi".
Applicato alla logica del taglione, questo ragionamento produce un effetto immediato: se loro hanno colpito i nostri migliori, allora noi siamo autorizzati a colpire i loro. Ma poiché la nostra comunità si percepisce come superiore — moralmente, culturalmente, spiritualmente o militarmente — il bilanciamento non sarà mai “uno a uno”. Ne consegue che il martirio diventa il pretesto per moltiplicare la violenza: adesso, per compensare la perdita, noi possiamo uccidere molti di loro.
Tutto questo spettacolo messo in scena attorno alla morte di una scimmia che giocava con una granata e si è fatta male non ha nulla a che vedere con il lutto o con la pietà: serve soltanto a preparare il terreno per una serie di uccisioni su vasta scala. È un rituale preliminare, una liturgia politica.
Ed è proprio per questo che non è consentito dubitare della santità del martire. Se l’obiettivo è lanciare una crociata, allora il martire deve essere per forza un santo. Poco importa che in vita abbia pronunciato frasi agghiaccianti, che abbia difeso posizioni inaccettabili o che fosse, semplicemente, un mediocre. Di fronte al martirio la biografia si cancella, l’individuo svanisce. Resta solo l’aura sacralizzata. E dei santi, si sa, non si dubita mai — anche quando non hanno nulla, assolutamente nulla, di santo. E persino quando non hanno nulla, ma proprio nulla, di REALE.
Un esempio potrebbe essere il caso di Simonino da Trento, (Simone Unferdorben), un bambino di due anni morto nel 1475 a Trento.
La sua morte fu attribuita — senza alcuna prova — alla comunità ebraica locale, accusata di averlo rapito e ucciso per un presunto “omicidio rituale” (la classica accusa antisemita secondo cui gli ebrei avrebbero usato sangue cristiano per i riti pasquali).
Il caso portò a torture, processi farsa ed esecuzioni di diversi ebrei, e Simonino venne subito trasformato in “martire cristiano”, con un culto popolare che durò secoli. Solo nel 1965 la Chiesa cattolica abolì ufficialmente il culto e cancellò il nome di Simonino dal Martirologio Romano, riconoscendo la falsità delle accuse.
Morale della storia: come ho detto, si crea il martire quando si sta per effettuare un massacro su vasta scala.
Fino al 1965, mettere in dubbio la santità e il presunto martirio di Simonino da Trento non era una semplice opinione eretica: era un atto punito con la scomunica. Questo dettaglio apparentemente marginale è in realtà la chiave di volta dell’intera costruzione. Perché il martire, in quel contesto, non serviva tanto a edificare la fede quanto a fornire una comoda giustificazione morale. In altre parole: se ci serve un martire per sentirci “buoni” dopo aver massacrato un po’ di ebrei, guai a chi osa demolire questa fragile scusa. Perché se il martirio cade, cade anche la narrazione salvifica che ci protegge dalla realtà: quella di aver commesso violenza gratuita. E allora saremmo costretti a fare i conti con la nostra coscienza, cosa che nessuna istituzione religiosa — e nessun potere politico — ha mai voluto davvero permettere.
Il vero problema è che, fino a questo momento, non ho visto un solo intellettuale porsi la domanda decisiva: chi saranno, tra poco, gli “ebrei del caso”? Perché è chiaro a chiunque legga libri di storia che i repubblicani si stanno preparando ad assassinare grandi masse di persone, ma l’attenzione dei giornalisti sembra tutta polarizzata su un dettaglio secondario: il licenziamento di un loro collega, la rimozione da una redazione, il piccolo vittimismo professionale che alimenta la retorica di categoria.
Eppure questo non è un effetto collaterale della martirizzazione: ne è parte integrante. Perché la costruzione del martire non si limita all’atto finale della violenza, ma richiede un contorno di persecuzioni, di epurazioni, di esclusioni simboliche. È il contesto stesso a dover essere preparato: il licenziamento, la gogna mediatica, l’emarginazione servono a plasmare il terreno, a mostrare che il martire non nasce dal nulla ma è il prodotto di un processo che non tollera ostacoli. Non sono una conseguenza di avere un martire; sono ciò che serve a fabbricarlo. Il giornalista licenziato, insomma, non è l’esito: è la macchina stessa che, una volta avviata, permette di lavarsi la coscienza dopo il massacro, che non tollera interferenze.
Come si arriva, poi, all’assassinio di massa?
Sia chiaro: il martirio, inteso come categoria del pensiero, è l’esito di un intreccio di disagi mentali. Due, in particolare: ossessione e paranoia.
Ossessione → è un pensiero ricorrente, intrusivo, che ritorna anche quando non lo vuoi. Non necessariamente delirante, può perfino poggiare su basi reali, ma è talmente ingombrante da occupare ogni spazio della mente, fino a rendere difficile o impossibile qualunque relazione con gli altri. È l’idea che ti costringe a controllare cento volte se hai chiuso il gas, o a lavarti le mani fino a scorticarti la pelle.
Paranoia → è qualcosa di più radicale: una costruzione mentale delirante, che attribuisce agli altri intenzioni ostili. Non è soltanto un pensiero che si ripete, ma un’intera visione del mondo deformata dal sospetto persecutorio. È credere che i vicini ti stiano spiando per avvelenarti, o che dietro ogni gesto altrui ci sia una congiura.
In sintesi: l’ossessione è ripetizione di pensieri, la paranoia è distorsione sistematica della realtà.
Il punto è che, se questo accade a un singolo individuo, lo definiamo “paziente”. Ma quando lo stesso disturbo si replica in un milione di teste, lo chiamiamo “partito politico”. E se a condividere la stessa allucinazione sono dieci, cento milioni di persone, allora diventa “ortodossia religiosa”. In entrambi i casi, il meccanismo è lo stesso: la malattia mentale privata, quando si amplifica su scala collettiva, assume i tratti rispettabili dell’ideologia o della fede. È da lì che il passo verso il massacro di massa non è più un abisso, ma una discesa naturale, quasi inevitabile.
E chi saranno, allora, le vittime?
La risposta è semplice, brutale, disarmante: “LORO”. Oppure, se preferite, nella versione globalizzata: “THEY”.
Perché per poter uccidere a piacimento è necessario che le vittime siano chiaramente riconoscibili, immediatamente classificabili. Durante la persecuzione nazista, ad esempio, sarebbe stato relativamente facile per un ebreo abbandonare la propria religione e farsi battezzare. Ma non sarebbe servito a nulla: il regime aveva già stabilito che l’ebraicità non fosse una fede, ma una razza. E la razza, per definizione, non si cambia.
Il problema, però, è che sul piano scientifico il concetto di “razza” non ha alcun fondamento. Linneo ce lo insegna da secoli: un ebreo appartiene alla stessa identica specie di chiunque altro, altrimenti la riproduzione interumana sarebbe impossibile. E allora come si fa a mantenere in piedi il meccanismo? Semplice: si creano categorie spurie, definizioni arbitrarie, identità negative. “La razza”, “la sinistra”, “gli immigrati”, “gli infedeli”.
Ma, più spesso ancora, non serve nemmeno questo. Basta un pronome. Basta dire “loro”. E alla domanda “loro chi?”, la risposta è altrettanto vaga: “quelli”. Nessun dettaglio, nessuna precisione. Perché? Perché se entri nei dettagli, prima o poi scopri che l’avversario politico, o il vicino di casa, o persino il parente, non calza perfettamente nel ritratto che hai dipinto.
O forse — ed è questo il dettaglio che sfugge ai più — potresti scoprire che in quel “loro” ci rientri proprio tu. È il paradosso che si verifica ogni volta che si gioca con categorie vaghe e arbitrarie. Prendiamo il caso del generale Vannacci: ama parlare di “tratti tipici tipicamente italiani”, come se la genetica nazionale fosse un prontuario da caserma. Peccato che il suo stesso volto, osservato senza pregiudizi, rientri senza difficoltà nei canoni somatici di un libico o di un tunisino. Anzi, a dirla tutta, dal punto di vista fisiognomico Vannacci sembra assai più vicino a un libico che a un italiano.E allora la domanda diventa inevitabile: chi garantisce che, domani, quel “loro” non possa improvvisamente includere anche lui?
Il punto è semplice: non esiste alcuna definizione chiara di “tratti tipicamente italiani”. O meglio, se una definizione c’è, è per forza esclusiva, non inclusiva: serve a buttare fuori qualcuno, mai a includere tutti. È una categoria pensata per restringere, non per allargare. E in questa logica perfino il capo può finire per non rientrarvi. Del resto, vale la pena ricordarlo: né Hitler né Himmler incarnavano il modello ariano che sbandieravano — non erano affatto biondi, né rispondevano ai canoni che imponevano agli altri.
Allo stesso modo, il “loro” evocato dai repubblicani quando parlano degli “assassini” di Charlie Kirk — ricordiamolo, si tratta di un singolo assassino, ma loro scelgono il plurale — è una categoria elastica: può essere estesa a piacimento o, all’occorrenza, ritratta. È un contenitore vuoto che si riempie a seconda della necessità politica.
E ciò che rende ancora più inquietante questo meccanismo è che il concetto di “loro” non ha bisogno di realtà. Non serve neppure che esista davvero. La prova? I repubblicani avevano già iniziato ad accusare “la sinistra woke” due giorni prima che l’assassino venisse arrestato. Non si trattava di un errore di fretta, ma della dimostrazione che il bersaglio era già pronto, che la narrativa era già confezionata.
E questa tempistica, a mio avviso, dice tutto: il martire non nasce dal fatto, ma dalla sceneggiatura.
Il martire nasce per ricordare i peccati collettivi di un intero gruppo, quello che si vuole massacrare.
Il martire, in fondo, nasce sempre con la stessa funzione: incarnare simbolicamente i peccati collettivi di un gruppo intero, quello che si è già deciso — o si sta preparando — a massacrare. È il capro espiatorio travestito da eroe, utile a purificare la coscienza del carnefice.
Il problema, però, è che oggi non vedo da nessuna parte una riflessione seria su chi sarà il prossimo gruppo a finire sotto questa macchina di morte. Nessuno sembra interrogarsi su chi verrà designato come “loro”, nessuno prova a chiedersi chi sarà sacrificabile domani. Nemmeno coloro che, a mio avviso, hanno già una spada di Damocle sospesa sulla testa paiono rendersene conto: si muovono come se fossero immuni, come se la storia non avesse già dimostrato infinite volte che la categoria del martire, una volta creata, non perdona nessuno.
Ripeto allora la mia triste previsione: entro il 2050, in Occidente, non ci sarà più posto per chi porta la pelle scura. Saranno cancellati, lentamente ma inesorabilmente, dopo aver costruito attorno a loro la macchina dello sterminio, che viene oliata col sangue dei martiri. E insieme a loro, spariranno anche gli ebrei, ancora una volta additati come il “loro” necessario per giustificare la furia collettiva.
Non è una profezia apocalittica: è la logica conseguenza di un meccanismo che la storia ha già mostrato infinite volte.