Il taboo della felicita'.

Ogni volta che introduco la parola felicita' in qualche post, noto che le reazioni sono estemamente intense, e questo succede in due casi. Il primo e' che stai insultando una sensibilita' comune, il secondo e' che hai toccato un argomento tabu'. Quando insulti una sensibilita' sai benissimo chi hai toccato: se dico che i cristiani migliori che io conosca sono i satanisti, per esempio, reagiscono i cristiani non satanisti (che di solito sono piu' malvagi dei satanisti) Quando tocco dei taboo economici, invece , la reazione e' diffusa ed e' ugualmente rabbiosa.

Per prima cosa, devo specificare cosa intendo per “toccare un taboo economico”.

Un discorso tocca un taboo economico quando va a contraddire qualcuno dei dogmi economici della societa' attuale. Per “dogma economico” intendo un pilastro dell'economia. Proviamo a sviluppare un discorso del genere.

Descriviamo il funzionamento dell'economia, almeno dal lato del lavoro organizzato. In passato, a lavorare erano gli schiavi. Erano costretti con la forza, quindi. Del resto, anche libri come la Bibbia descrivono il lavoro come una punizione (per aver mangiato una mela), similmente al parto. Inizialmente, quindi, il lavoro e' una dannazione e le persone davvero privilegiate sono quelle che oziano.

Poi arriva il sistema feudale, dove lavori per pagare una tassa al padrone della terra dove vivi. Non sei piu' costretto puntualmente a fare un dato lavoro (tranne dove vige la servitu' della gleba, portata dai mongoli ) ma sei semplicemente costretto a lavorare se vuoi vivere nel mondo civile. Se invece vuoi restare un pagano, e riesci a sopravvivere raccogliendo frutti della terra, puoi anche lavorare molto meno. Ma sei definito pagano, una persona romana per indicare chi vive fuori dalla civilta'.

COn la rivoluzione industriale le persone vengono inurbate, e se vivi in citta' c'e' poco da fare, devi trovare un lavoro e specialmente, devi lavorare PER arricchire qualcuno che prende i tuoi soldi non perche' e' il governo o e' un nobile, ma perche' ha investito.

Quando arriva la civilta' moderna, il problema diventa: ma come diavolo convinciamo le persone a lavorare cosi' tanto, quando secondo “l'ideologia nemica” nessuno dovrebbe lavorare piu' di otto ore al giorno? Bella domanda.

Se non possiamo costringere le persone, possiamo convincere. E qui torniamo al discorso dell'occidente.

L'economia occidentale e' basata su persone che lavorano MOLTO piu' di quanto dovrebbero, perche' sono stati convinti che questo lavorare troppo li portera' al successo, e il successo portera' alla felicita'. Si lavora nell'illusione della felicita', che arriva quando hai abbastanza successo, dimostrato dal fatto che possiedi abbastanza cose costose.


Quando nello scorso post ho detto che questo “contratto” sta venendo rotto, e la promessa non mantenuta, chiaramente ho toccato il taboo di base, cioe' l'idea che le persone oggi non siano felici, anche se viene chiesto loro di lavorare come dei matti. Questo ha toccato l'idea di base dell'economia, cioe' l'equazione successo = felicita'.

Senza quest'equazione, questa societa' non potrebbe MAI convincere tutti della necessita' di lavorare come dei matti per consumare come dei matti. TUtta la spinta viene dal gap che passa tra felicita' ed infelicita', ovvero tra avere il successo economico e non averlo. Tra essere ricchi e possedere cose, ed essere poveri e non potersele permettere.

Si tratta quindi di una societa' di schiavi infelici, che si accorgono troppo tardi del fatto che tutto quel lavorare e consumare NON li rendera' piu' felici. Forse, a volte, piu' soddisfatti, ma la felicita' e' una cosa diversa.

Essere soddisfatti significa “oggi sto bene”, essere felici significa “oggi non potrei stare meglio”.

Questo fa capire come il concetto di felicita' sia principalmente un taboo economico.


E' vero che il cristianesimo cattolico ci mette del suo, e ci ha messo del suo, fino a impregnare la cultura col concetto che chiedere la felicita' e' chiedere troppo, e se anche l'avrai, saranno eventi singoli che durano poco, quindi meglio assaporarla. Questo ha pro e contro: da un lato si insegna alle persone a godersela, ma dall'altro le si convince la massa che sara' una cosa sporadica. Non dura.

Proviamo allora a dire la bestemmia assoluta:

La felicita' e' un diritto umano fondamentale

Se scrivete una cosa del genere, vi diranno che chiedete troppo. Definirla come diritto umano fondamentale, cioe' come una condizione MINIMA, mina tutta la dialettica della felicita' che non e' di questo mondo, e della felicita' che su questo mondo comunque dura poco.

Ma chiediamoci: perche' no?

Perche' posso enunciare che ho il diritto umano fondamentale quello di dire quel che voglio, o alla sicurezza personale, o alla personalita' giuridica, ad un processo equo, di sposarmi e fondare una famiglia (sto leggendo la dichiarazione universale dei diritti umani), ma non posso enunciare che ho diritto alla felicita', che pure potrebbe dipendere molto dalla possibilita' materiale di fare queste cose? Perche' ho diritto a tutte queste cose, se non per il fatto che senza queste cose non sarei felice?

Non solo posso scrivere che la felicita' e' un diritto umano fondamentale, ma posso anche dire che tutti gli altri diritti servono ad impedire che io sia infelice. Perche' se mi mancano gli altri diritti, ci sono le condizioni per l'infelicita'.

Qual'e' , appunto, il problema specifico nel definire la felicita' come diritto umano fondamentale?


Faccio una digressione per quelli che mi dicono che la costituzione americana definisce il diritto alla felicita'. No, non lo fa. Definisce come diritto quello di cercare la felicita'. Ma non la felicita' stessa. E questa e' una bella differenza , perche' se ti devo garantire la felicita' non posso tormentarti, mentre se basta la ricerca della felicita', mentre ti tormento puoi sempre cercare la felicita' pregandomi di smettere.


Comunque, adesso rimane senza risposta la parte pratica. Non voglio diventare un filosofo stoico e parlare di desiderio cognitivo, ma come e' stato possibile che TUTTI siano caduti nella stessa trappola? La verita' e' che abbiamo enunciato male la costituzione economica del sistema attuale.

Abbiamo scritto:

L'economia occidentale e' basata su persone che lavorano MOLTO piu' di quanto dovrebbero, perche' sono stati convinti che questo lavorare troppo li portera' al successo, e il successo portera' alla felicita'. Si lavora nell'illusione della felicita', che arriva quando hai abbastanza successo, dimostrato dal fatto che possiedi abbastanza cose costose.

Quindi abbiamo definito il meccanismo come una promessa. Io ti prometto la felicita, ti convinco, e per questo tu lavori come un pazzo. Ma anche in questo modo, e anche essendo molto convincenti, e' difficile che funzioni davvero. Possiamo pero' invertire la cosa.

Anziche' promettere la felicita', trasformiamo la promessa in una MINACCIA, e diciamo che non ti sto promettendo la felicita' se lavori come uno schiavo: ti sto MINACCIANDO di perdere la felicita' e la ricchezza se NON lo fai.

Non e' una promessa , ma una MINACCIA.

Siamo al bastone e alla carota. L'economia moderna ti promette la felicita' se lavori come un ludro. Ma nel caso tu sia gia' felice per i cavoli tuoi, ti minaccio: se non lavori come un ludro trovero' il modo di toglierti il successo economico e la felicita'.

La regolazione avviene , quindi , dosando felicita' ed infelicita'. Se io definissi la felicita' come diritto fondamentale, potrei oppormi all'infelicita', e non funzionerebbe piu'.

L'occidente quindi non e' solo una promessa, ma anche una minaccia. Non solo se tu segui certi principi faremo in modo che tu abbia felicita' successo, ma se non li segui faremo in modo che tu abbia infelicita' insuccesso.


Detto questo, in termini di infelicita', abbiamo che il sistema economico smette di funzionare se non riesce a pagare chi si impegna, e se non riesce a punire chi non lo fa. Nel senso che se ne punisce troppi, rischia di dimostrare che non funziona.

Qui entriamo nell'altra grande ragione per la quale parlare di felicita' o di infelicita' viola un tabu'. Viola, cioe', il taboo della psichiatria.

Prendiamo per esempio la parola “depressione”. Sicuramente oggi potremo recitare una descrizione ed una diagnosi di questa malattia usando termini scientifici, ma... cosa stiamo descrivendo di preciso?

la psichiatria moderna sa bene che la depressione e' uno stato patologico del sistema nervoso. Quello che non e' mai riuscita a dimostrare e' che le CAUSE siano interne al sistema nervoso.

Un tempo, prima della psichiatria moderna, di una persona depressa si sarebbe detto che era “estremamente infelice”. Oggi si diagnostica la depressione e si spiega usando lo stato chimico del sistema nervoso.

La differenza e' che se diciamo che qualcuno e' estremamente infelice, ci viene da pensare a cause esterne al suo cervello. Se diciamo che qualcuno e' depresso, pensiamo alla chimica del suo cervello. La societa' circostante non c'entra nulla.

Un tempo, se dopo un lutto una donna fosse stata depressa, avrebbero detto “e' estremamente infelice per aver perso il marito e il figlio in guerra”. Questo non cambiava per nulla lo stato chimico del suo cervello: non e' incompatibile dire che il suo cervello si trova in uno stato chimico patologico, e contemporaneamente che la causa sia la sua famiglia sterminata.

Al contrario, se parliamo dell'infelicita' solo come depressione, smettiamo di credere che il problema potrebbe essere stato quel sovrano di merda che ha scatenato una guerra inutile: e' tutto un problema chimico del cervello. E da li' partiamo.

Siamo disposti ad accettare una rivoluzione che si spiega come “il popolo era estremamente infelice e si e' ribellato”, ma saremmo disposti a pensare che la Rivoluzione francese sia nata perche' i francesi erano depressi?

La risposta e' “no”, chiaramente. Perche' quando diciamo che la rivoluzione ha risolto il problema dell'infelicita', o ha almeno migliorato le cose, sembra avere senso. Mentre se diciamo che la rivoluzione ha migliorato la depressione, ci viene da storcere il naso: per quello ci vogliono le pillole.

Se la moderna psichiatria fosse esistita alla fine del '700, non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione: i francesi si sarebbero riempiti di pillole.

Burnout, depressione, stress, sono tutte parole che significano “il tuo lavoro ti rende infelice”. ADHD, Asperger, Anoressia, sono tutte parole che significano “quel ragazzo e' infelice perche' vive in un mondo di merda”.

“Sua figlia e' infelice perche' lei e' una troia nevrotica e suo marito e' un coglione spaziale”, effettivamente, e' molto piu' difficile da dire alla famiglia di una ragazza anoressica.

E allo stesso modo, nel diagnosticare un burnout, e' difficile dire “sei infelice perche' hai un lavoro che fa schifo per un'azienda schiavista, il tuo dirigente e' un coglione e i tuoi colleghi sono delle punte di minchia”. Meglio dire “burnout”. Una volta si usava “esaurimento nervoso”, ma per impedire che qualcuno si chiedesse “ma chi o cosa ti ha esaurito? ” si preferisce burnout.

E qualcuno nel mondo della farmacologia sta cercando di dire che il fatto che il burnout arrivi sempre dentro certe aziende non sia la prova del fatto che la causa e' l'azienda, ma il fatto che e' normale per chi lavora in azienda. Al massimo vi daranno le pastiglie come benefit.

Il lavoro principale della psichiatria moderna, in questo sistema economico, e' di trovare tantissimi sinonimi della parola “infelicita'”, evidando pero' che qualcuno vada a cercare le cause esterne nell'economia e nella societa'.

E come potete capire, se tornate a parlare di felicita', allora state anche mettendo in crisi questo meccanismo.

Per questo, parlare di felicita' e rifiutare tutti i suoi sinonimi psichiatrici e legali diventa sovversivo. Perche' andiamo a toccare i pilastri economici dell'economia del lavoro occidentale, e della societa'.

uno

due

tre


In generale, cioe', la felicita' sembra un concetto idiosincratico, nella misura in cui costringe a pensare , e costringe a pensare che viviamo, lavoriamo, abitiamo in situazioni di estrema infelicita'.

Si tratta, probabilmente, di uno degli ultimi taboo rimasti.

Uriel Fanelli


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